37

Georgia

Scossi la testa, fissando il pavimento. Avevo bisogno di un momento di sollievo dal caos che la sua espressione supplicante suscitava dentro di me.

«Ti prego, piccola, solo cinque minuti del tuo tempo».

Immediatamente alzai lo sguardo, cercando di incenerirlo. «Non chiamarmi così».

Lui alzò entrambe le mani. «Mi dispiace, Benny».

Rabbrividii.

Lui sapeva cosa stava facendo, il furbo bastardo, e quel nomignolo non era tanto meglio.

«Già» sbottai. «Anche a me, cazzo. Mi dispiace di molte cose».

Il suo volto sembrava sofferente, ma lui scacciò velocemente quell’emozione, costringendo un dolce sorriso ad apparire sulle sue labbra al suo posto. «Solo quindici minuti, poi potrai andartene. Te lo prometto».

«Me lo prometti?» lo schernii. «Ho sentito le tue promesse, sono senza valore come il mio patetico cuore».

Lui non riuscì a nascondere il dolore, non riuscì a scacciarlo come aveva fatto prima. I suoi occhi si incresparono agli angoli, le labbra si appiattirono in una linea stretta. Il mio petto mi si strinse quando lo guardai prendere un respiro tremante. Non mi stavo comportando bene e lo sapevo, avrei dovuto smetterla, ma non ne ero capace. Parole orribili continuavano a sfuggirmi dalle labbra. In fondo, dentro di me, volevo lanciare una parola tagliente dopo l’altra contro di lui finché almeno una non gli si fosse conficcata dentro, ferendolo tanto profondamente quanto lui aveva ferito me.

«So che sei arrabbiata e ne hai ogni diritto». La sua voce era calma e controllata, e mi fece solo infuriare di più.

«Non capisco come questo possa aiutare» sbottai. «Niente di ciò che mi mostrerai mi farà cambiare idea, né mi farà tornare ad avere fiducia in te».

Lui ignorò la chiara tensione nel linguaggio del mio corpo – schiena rigida, pugni stretti ai fianchi – e mi condusse verso una sedia. Mi afferrò le spalle, spronandomi a sedermi. «Solo qualche altro minuto del tuo tempo, Georgia. Non chiedo altro».

Mi sedetti, ma non volevo sedermi. Avrei voluto essere ovunque tranne che in quella stanza con lui. Il semplice tocco delle sue dita sulle mie spalle, la sua voce, dolce e carezzevole vicino al mio orecchio e i suoi occhi azzurri che, cazzo, mi uccidevano con la loro implorante intensità, erano troppo per me.

Il mio cuore era un elastico e Kline lo stava tirando troppo. Un altro sguardo alla sua espressione triste, un altro strattone alle mie emozioni e quello si sarebbe spezzato. Avrei finito per fare qualcosa di cui mi sarei pentita. E sarei rimasta senza niente.

Fanculo tutto . Non mi sarei lasciata convincere. Non importava quanto mi avrebbe implorata e pregata e quali stronzate incredibili mi avrebbe raccontato, non avrei cambiato idea. Non mi sarei piegata. Sarei rimasta a vedere quanto aveva da mostrarmi e poi me ne sarei andata. In quel modo, entrambi avremmo potuto chiuderla con quella storia.

Una volta finita con questa faccenda, sarei uscita da quella porta più in fretta di quanto non avessi fatto irruzione in quest’ufficio.

Lui iniziò a trafficare con il suo portatile finché lo schermo del proiettore non prese vita. Io sbuffai. Doveva davvero essere tanto teatrale? Avrei potuto guardare qualunque cosa volesse mostrarmi sul mio portatile, persino sul mio cellulare.

Lui si mise dietro di me, le sue mani arrivarono di nuovo sulle mie spalle, le sue labbra vicino al mio orecchio. «Ti ho mentito solo due volte. La prima, quando non ti ho detto che sapevo che Rose eri tu».

Voltai di scatto la testa per guardarlo, sorpresa e incredula, con una risposta crudele pronta sulla punta della lingua, ma proprio mentre mi giravo, i miei occhi furono catturati dal video sullo schermo.

Era un video di sorveglianza.

Mi ci volle un minuto per riconoscere il luogo, ma era l’ufficio delle Risorse Umane della Brooks Media. L’ufficio di Cynthia, per essere precisi. Le sopracciglia mi si sollevarono quando un pazzo con vestiti infangati fece irruzione nell’ufficio. Esaminò la stanza finché non trovò quel che cercava. Con tre rapidi passi, arrivò allo schedario, aprì di scatto un cassetto e le dita iniziarono a trafficare tra le cartelle. I capelli in disordine. I muscoli definiti della schiena che si tendevano e flettevano. E quel sedere avvolto dai pantaloncini. Conoscevo quel corpo.

Il respiro mi si mozzò nei polmoni quando la telecamera strinse l’inquadratura, passando velocemente oltre il suo volto, ma non abbastanza perché non riconoscessi quella mascella e in particolare l’aspetto che aveva prima della rasatura, deliziosamente coperta da una barbetta di due giorni. Era Kline.

In mente, realizzai immediatamente che era sporco e sudato perché era venuto direttamente dall’allenamento di rugby. Il che spiegava anche perché non ci fosse nessun altro nell’ufficio.

Ma perché frugava tra i documenti di Cynthia?

E, ancora più importante, perché dovevo vedere quel video?

Notai la data in un angolo del video. Feci mentalmente il conto dei giorni. Era poco tempo dopo il nostro secondo appuntamento, quello in cui mi aveva convinto ad andare a fare il bagno nudi al ONE UN. Erano quasi le otto e mezza di sera, e lui frugava come un matto nell’ufficio di una sua dipendente. L’inquadratura si strinse ancora, mostrando il documento tra le sue mani. Non riuscii a leggere in tempo l’etichetta sul bordo prima che Kline lo aprisse, e il suo dito prendesse a scorrere la lista dei nomi dei dipendenti. Un nuovo zoom della telecamera: il video si offuscò per un secondo, prima di tornare a mostrarmi con chiarezza quanto succedeva. Vidi il suo dito fermarsi su un nome.

Cummings, Georgia .

Poi scivolò lateralmente, lungo la pagina, e si fermò di colpo.

BottaDiRose.

L’adrenalina prese il sopravvento. Il cuore iniziò ad agitarsi nel petto, furioso pompava quelle scariche di adrenalina nelle mie vene.

Lui sapeva.

Lui sapeva.

Lui sapeva.

Era il solo pensiero che il mio cervello riuscisse a processare.

Lui era davanti a me, accovacciato per potermi guardare dritto negli occhi. «La sola altra bugia che ti ho detto è che mi piacevi, quando sapevo già di amarti».

La vista mi si offuscò, mentre un’emozione senza nome mi riempiva le palpebre di lacrime. Shock? Felicità? Sollievo? Amore? Non sapevo quale fosse. Ero troppo sopraffatta.

Ma il mio cuore, il mio cuore sapeva cosa voleva. Era deciso a fuggire, cercava freneticamente di scappare dal mio petto con le sue pulsazioni violente, implorando di poter tornare a casa.

Sbattei le palpebre, una, due, tre volte. La stanza tornò a essere visibile e i suoi occhi azzurri mi fissavano, intensi e imploranti e dannatamente pieni d’amore, al punto che lo sentivo esplodere da dentro di lui e fluire in me. Lui sapeva che io ero Rose. Lo sapeva fin da qualche giorno dopo il nostro secondo appuntamento.

Il che significava che, quando aveva scritto a Cassie, aveva creduto di scrivere a me.

«P-perché non me l’hai detto?» balbettai, nonostante il groppo nella mia gola.

La sua mano trovò la mia, le nostre dita si intrecciarono. «Avrei dovuto dirtelo. So che avrei dovuto dirtelo, ma mi piaceva troppo quanto fossi sincera con me quando mi scrivevi come Rose. Adoravo che non nascondessi niente. Non avevi mai paura di dirmi cosa pensavi o come ti sentivi».

E come avrebbe potuto non pensarlo? Per tutti i santi Natali, avevamo discusso di sesso anale!

«Non volevo perdere quella parte di te, mentre aspettavo che tu fossi abbastanza a tuo agio per mostrarmela». Un profondo sospiro lasciò le sue labbra. «Quando ho inviato quell’ultimo messaggio, pensavo di averlo mandato a te . Volevo essere aperto e sincero con te ».

Mi baciò la mano e poi se la portò al petto. «Questo è tuo. Sarà sempre tuo». Un battito irregolare, frenetico vibrò sotto il mio palmo. «Ti prego, dimmi che non ti ho persa per sempre».

Avrei voluto ridere. Avrei voluto sorridere più di quanto le mie guance permettessero. Avrei voluto saltargli in braccio e non lasciarlo mai più.

Ma avevo paura. Gli strascichi degli ultimi giorni avevano lasciato una cicatrice sul mio cuore. Non volevo mai più sentirmi così. Non volevo mai più sentirmi tanto orribilmente persa.

«Ti amo» sussurrò lui, il suo sguardo fermo nel mio, profondo e inarrestabile. «Ti amo così tanto. Ti prego, dimmi che anche tu provi la stessa cosa».

Le sue parole ricucirono l’ultimo frammento del mio cuore, non più a brandelli. «Piccola, di’ qualcosa». La sua voce si ruppe, la disperazione ne tingeva il tono. «Ti prego, di’ qualcosa. Qualunque cosa. Tranne no. Qualunque cosa tranne no».

Dio, sembrava davvero distrutto e sconfitto. Odiavo quella cosa. Non volevo che fosse così triste, agitato. Volevo che ridesse, che sorridesse e fosse il felice, affascinante e adorabile Kline di cui mi ero innamorata.

«Ti sei intrufolato nella mia azienda?» borbottai, nel tentativo di riportare lui, di riportare noi a come eravamo prima.

Lui rimase sorpreso, cercò con gli occhi il mio sguardo. «La tua azienda?».

Io inclinai la testa, cercando con tutte le mie dannatissime forze di trattenere un sorriso. «Volevi che firmassi il contratto, vero?».

Lui annuì. «Sì, è vero». I suoi occhi si illuminarono, la sua bocca si sollevò da un angolo. «Ma vorrei che firmassi anche un altro contratto».

«Cosa?».

Prese una scatolina nera dalla sua tasca e si appoggiò su un ginocchio.

La mano mi coprì la bocca. «C-cosa stai facendo?».

«Sai cosa sto facendo». Alzò lo sguardo su di me, con un enorme sorriso. «Georgia, sei la sola persona con cui voglia passare il resto della mia vita. L’ho capito sin dall’istante in cui hai fatto irruzione nel mio mondo con le tue canzoni rap, le tue labbra gonfie, i tuoi sorrisi adorabili e la tua bellissima risata. L’ho capito la notte del nostro primo appuntamento, quando eri strafatta di antistaminico e rappavi del mio enorme uccello, che eri l’unica donna che avrei mai desiderato. La sola persona capace di farmi felice per il resto della mia vita».

«Ho rappato? ».

Il suo sorriso si allargò. «Sì, piccola. Hai rappato, diavolo. È uno dei ricordi più belli che ho».

Le guance avvamparono. Nella mia mente, non avevo dubbi: quel rap batteva il Campo Masturbazione.

«Dio, quanto sei adorabile. Troppo, per me». Rise piano, le sue dita mi sfiorarono la guancia. «Non posso perderti. Ti voglio con me, per sempre. Il mio cuore nelle tue mani e tu tra le mie braccia, solo questo mi serve e nient’altro, per sempre». Ripeté le parole che mi aveva scritto sul fianco. «Quando l’ho detto allora, ci credevo con tutto me stesso, e anche adesso che te lo ripeto».

Felicità, sollievo e amore, così tanto amore, mi esplosero in gola e spinsero le lacrime a riversarsi dai miei occhi. E, quando sorrisi, sentii il loro sapore salato sulle labbra.

Lui mi asciugò le lacrime dalle guance con un dolce passaggio del pollice. «Georgia Rose Cummings, mi vuoi sposare?».

Presi un respiro singhiozzante, sorridendo rivolta in basso, verso di lui. E poi annuii per un migliaio di volte.

Continuavo a ripetere «Sì, sì, sì» ancora e ancora, mentre lui infilava l’anello al mio dito e mi stringeva tra le sue braccia.

«Ti amo» mi sussurrò all’orecchio.

«Ti amo anch’io… tantissimo ».

Lui sfiorò le mie labbra con le sue, con un bacio dolce e tenero, finché la sua lingua non superò la barriera delle mie labbra per danzare con la mia. Le sue dita scivolarono tra i miei capelli, afferrando le ciocche e rovesciandomi la testa mentre mi baciava più a fondo, con più forza, riversando tutto ciò che sentiva in quel bacio perfetto.

Kline Brooks mi aveva appena chiesto di sposarlo.

E io avevo detto sì.

«Piccola, rapperai i tuoi voti, al nostro matrimonio?» mi prese in giro, con il volto premuto contro il mio collo, le labbra che succhiavano leggermente.

«Voglio un accordo prematrimoniale» dissi, sfottendolo a mia volta.

Lui si tirò indietro e i suoi occhi trovarono i miei.

«Vedi» dissi, incapace di nascondere l’ampio sorriso che si allargava sul mio volto. «Ora ho un sacco di soldi. E sono la proprietaria di un’azienda fantastica. Dovrei proprio iniziare a pensare a proteggermi. Non so se sei un cacciatore di dote, ma...»

Lui mi interruppe con un altro bacio, ridacchiando contro le mie labbra.

«Significa che accetti?» chiesi, fingendomi preoccupata. «Perché è molto importante per me. Firmerò tutto quello che vuoi, mi basta che tu sia mia per sempre» aggiunse, con un sorrisetto malizioso che si impossessava delle sue labbra. «Ma prima, prima di iniziare a parlare di avvocati, notai e dei tuoi soldi, abbiamo delle cose più importanti da fare».

«Aspetta… Quando mi hai ceduto tutte le tue proprietà, facevi sul serio?».

«Cazzo, sì. È tutto tuo».

«Ma perché… ma è...» balbettai, a bocca spalancata. «Kline, è ridicolo!».

«L’unica cosa ridicola in questo momento è che siamo ancora qua in piedi in questo cazzo di ufficio e non nella mia stanza da letto, dove posso toglierti quella gonna con i denti».

«Oh», feci, scioccata dall’improvviso cambio di rotta e dalla rapida risposta del mio corpo a quella rotta in particolare. I capezzoli mi si indurirono sotto la camicetta, e in mezzo alle gambe già pulsavo di eccitazione.

«Piccola, non ti arrabbiare, ma non riuscirai a camminare velocemente su quei tacchi».

«Eh?» chiesi, due secondi prima di ritrovarmi per aria e gettata in spalla a Kline.

«Kline!» urlai, afferrandomi alle sue braccia per non cadere.

«Tieniti forte, Benny» disse, ridacchiando, mentre usciva di corsa dal suo ufficio. Una delle sue mani teneva ben salda la mia gonna, mantenendomi coperta e facendo in modo che non mostrassi il sedere all’intero ufficio.

«Dio, quant’è imbarazzante!» strillai ancora mentre attraversavamo la porta e uscivamo nel corridoio in cui la maggior parte dei miei ex colleghi ci fissava. Ma a lui non importava. Era un uomo con una missione e la sua unica preoccupazione era portarci fuori di là alla svelta.

«Pam! Non passarmi nessuna chiamata! Avrò da fare per il resto della giornata!» disse da sopra una spalla.

«Ma pensavo che ora l’azienda fosse mia?» ribattei, mentre una risata mi usciva dalle labbra.

«Volevo dire, non passare nessuna chiamata a Georgia. Sarà troppo impegnata a cavalcare...».

Allungai una mano, tappandogli la bocca.

Lui rise contro il mio palmo. Il suo dito colpì con forza il pulsante di chiamata dell’ascensore, praticamente spaccando la freccia della discesa.

Non perse nemmeno un secondo, ci fece entrare e uscire dall’ascensore in quelli che sembrarono pochi secondi.

E poi eravamo alla sua macchina, con Frank che già ci aspettava tenendo la portiera aperta.

Kline mi lanciò sul sedile posteriore, entrò in macchina subito dopo di me dicendo nel frattempo al suo autista di portarci al suo appartamento. In preda all’impazienza, aggiunse: «E non preoccuparti della polizia. Vai a tavoletta. Pago io le multe per eccesso di velocità».

Amavo che fosse tanto ansioso di avermi solo per lui tra le lenzuola. Amavo che fosse disposto a rischiare tutto per dimostrarmi di essere l’uomo che avevo creduto fosse. Amavo che mi avesse chiesto di sposarlo. E amavo che mi avesse portato fuori dall’ufficio come un indemoniato.

Lo amavo. Dio, l’amavo.

Ero talmente innamorata di quell’uomo da sentirmi ubriaca.

Mi spostai su di lui, mettendomi a cavalcioni sulle sue cosce, afferrandogli le spalle.

Le sue sopracciglia si alzarono, i suoi occhi azzurri brillarono, intrigati.

«Non posso aspettare» sussurrai contro le sue labbra. «Ho bisogno di te. Ora». Il mio dito trovò il pulsante per alzare il vetro fumé tra noi e Frank, isolandoci prima che Kline potesse rifiutarsi.

Eravamo rimasti soli nel sedile posteriore, gli occhi di Frank nello specchietto retrovisore non erano più visibili.

«Cazzo, quanto mi è mancato». Le mani di Kline si fecero strada fino all’orlo della mia gonna, alzandomela lungo le cosce e oltre i fianchi. «Avevo paura che non ci saremmo mai più trovati qui, così».

«Anche a me è mancato. Mi sei mancato tantissimo».

Il suo sguardo annebbiato si mosse lungo il mio corpo fino a tornare nel mio. «Mi sposerai?».

Annuii.

«Verrai a vivere da me?».

Annuii di nuovo, sorridendo stavolta.

Il suo uccello si fece duro e teso sotto di me.

«Quindi vuoi dire che ti avrò per me ogni giorno per il resto della mia vita?».

«Sì» dissi con una risata intontita che mi risaliva dalla gola.

«Una Georgia tutta per me a casa mia. Una Georgia bellissima e sonnolenta che si sveglia accanto a me. Una Georgia che canta sotto la doccia. E una Georgia che balla per la mia cucina», iniziò a farneticare, con gli occhi pieni di eccitazione e adorazione. «E potrò...».

Lo misi a tacere con le mie labbra, premendo la bocca con urgenza contro la sua. Ci baciammo fino a restare senza fiato, i nostri corpi si muovevano istintivamente l’uno contro l’altro.

«Piccola» gemette nella mia bocca. «Non qui. Non così. Ti voglio nel nostro letto». Ma non smise di baciarmi, le sue labbra perfette non abbandonarono le mie.

Il nostro letto. Sorrisi, incapace di controllare l’amore che provavo per quell’uomo.

Lui ridacchiò, staccandosi dal nostro bacio per guardarmi negli occhi.

«Che c’è?» chiesi, con un sorriso folle e ridicolo stampato in faccia.

«Amo quando fai così».

«Così come?».

«Quando sorridi mentre ti bacio. È come se fossi troppo felice per controllarti».

«Lo sono». Le guance mi bruciavano, il sorriso sciocco ancora in volto.

Lui mi baciò il naso. «È come baciare una zucca di Halloween».

Io lo fulminai con lo sguardo. «Mi dai della zucca?».

«Sì». Le sue labbra trovarono il mio labbro inferiore, iniziando a tirarlo appena. «Piccola… Georgie… Benny… zucca. Mia. Tutta soltanto mia, cazzo».

«Oh no» gemetti, piegando la testa all’indietro, sconfitta. «Un altro soprannome, no».

«Meglio che ti ci abitui». Rise, la sua lingua diede sollievo al morso di prima. «Ricordi? Io sono Brooks Ce l’Ho Grosso, piccola. Ti chiamerò come voglio mentre ti faccio impazzire con le mie dita… la mia bocca… il mio uccello».

E poi mi ritrovai a gemere. Gli occhi mi si rovesciarono all’indietro, lui mi baciava lungo la mascella e più giù, succhiava la pelle del mio collo.

«Dio, Kline, ti desidero. Il desiderio mi consuma tutta» mugugnai mentre le sue mani scivolavano su per le mie cosce, le sue dita spostarono di lato le mie mutandine.

«Non ti preoccupare, futura signora Brooks». Sentii il suo sorriso contro la pelle. «Potrebbe fare male, ma mi assicurerò che sia sempre una piacevole sofferenza».