21 dicembre 1953, lunedí

Allungò il passo, quasi in un salto, per evitare il tram che scampanellava appena partito dalla piazzola, e si infilò sotto il portico scivolando tra due vecchie 1100 parcheggiate davanti alle colonne. C’era un cartellone enorme lungo tutta la facciata dell’Arena del Sole, con lettere rosse che incombevano a sbalzo sui passanti, SALOMÈ, l’accento finale che grattava il velo della sottana svolazzante di Rita Hayworth come se volesse sollevarla.

De Luca alzò lo sguardo, istintivamente, poi affondò il mento nel bavero sollevato del soprabito, perché è vero che i portici a Bologna riparano, ma sotto, a dicembre, fa freddo lo stesso.

– Se cade qualcosa è neve, – disse un vecchio intabarrato, seduto dietro un braciere di caldarroste, ma lo disse in dialetto, e De Luca non era piú abituato al bolognese. Tirò dritto lungo via Indipendenza finché non vide l’insegna del caffè che stava cercando, sotto un portico arrotondato dalle colonne liberty, e rapido entrò. Non era piú abituato neppure alla pistola nella tasca e trasalí quando la fece sbattere contro lo stipite della porta a vetri per farsi da parte mentre una signora usciva di prepotenza.

Piú che un caffè era una pasticceria, ed era piena di gente. De Luca si aspettava un bar anonimo in un vicolo altrettanto oscuro, ma lí, in pieno centro, tra cappotti e colli di pelliccia, cioccolatini in pacchi regalo e i lustrini dorati delle decorazioni natalizie, si sentiva smarrito. Si guardò attorno, senza sapere chi cercare.

– Ingegnere! Ingegner Morandi!

C’era un giovane appoggiato al bancone di vetro nell’angolo del negozio riservato alle consumazioni. De Luca lo notò perché agitava un braccio per chiamarlo, dal momento che si era dimenticato anche di essere proprio lui, l’ingegner Morandi.

– Giannino, – disse il giovane. – Onorato.

De Luca gli strinse la mano. A vederlo sembrava poco piú di un ragazzo che volesse apparire piú grande. Capelli spartiti da una riga disegnata col pettine e lisciati dalla brillantina, sciarpa di seta gialla a motivi cachemire sotto il bavero di un impermeabile imbottito. Cravattina dal nodo stretto su una camicia bianca. Sorriso da pubblicità. Che fosse toscano lo aveva già sentito da come aveva soffiato la t, e prima ancora dalla scivolata sulla g di Giannino. Se fosse un nome o un cognome, e soprattutto se fosse vero, non glielo chiese, cosí come l’altro non gli avrebbe chiesto se era davvero un ingegnere.

Majani fa la cioccolata piú buona del mondo, gliene posso offrire una?

– No, grazie…

– Non sa quello che si perde, davvero. Con questo freddo, poi…

– No, grazie…

– Un caffè, allora?

De Luca sentí lo stomaco che si contorceva in un ringhio veloce, facendolo deglutire.

– Sí, – disse, – quello sí.

– Ha fatto colazione? Prenda un cornetto, ingegnere, meglio ancora, una pastina…

De Luca fece No con la testa e Giannino gridò Un caffè, il dito dritto come una spada che si abbassava a indicare il bancone davanti a loro. Arrivò subito e Giannino fece appena in tempo a versare un cucchiaino di zucchero nella tazzina, che De Luca girò rapidamente, prima di sorseggiare in fretta il caffè cosí caldo da scottare la lingua. Non aveva fatto colazione, ma non mangiava mai, la mattina. E il caffè lo aveva preso poco prima in stazione, una volta sceso dal treno, ma già si sentiva in crisi da astinenza.

– Sa, ingegnere, l’ho riconosciuta dalla fotografia. Era una di quelle del processo, aveva un impermeabile come questo, uguale uguale.

De Luca non rispose. Si concentrò sul cucchiaino con cui raccolse lo zucchero dal fondo della tazzina.

– Ovvio, son passati solo quattro anni, è facile, però per essere sicuri che la riconoscessi mi hanno dato anche quella dove stava in divisa, col berretto e la camicia nera, e lí, siamo durante la guerra, di anni ne son passati almeno dieci, ma anche adesso è uguale uguale, sempre lei.

De Luca finí di succhiare il cucchiaino. Giannino aveva abbassato la voce e lui si sentiva addosso il suo sguardo sorridente, ma malizioso e cattivo, da ragazzino che gioca. Negli ultimi tempi ne aveva subiti tanti di sguardi cosí, e aveva sempre tenuto gli occhi bassi, davanti al pubblico ministero, davanti al giudice, anche davanti al suo avvocato difensore, per non parlare di tutti quelli che erano venuti dopo.

Ma questo era solo un ragazzo che voleva sembrare piú grande, e teoricamente era anche un suo sottoposto, anzi, lo era proprio, per cui De Luca li alzò, gli occhi, e lo fissò.

– Hai finito la tua cioccolata? – disse. – Possiamo andare?

Giannino smise di sorridere per un istante. Ricominciò subito, sempre da pubblicità e ancora malizioso, ma questa volta piú cauto.

– Prontissimo, ingegnere. Lasci, lasci, faccio io… ci mancherebbe.

L’auto era parcheggiata poco piú avanti, in divieto di sosta, perché sotto il portico c’era una banca. Nuova di zecca, cosí lucida che sembrava d’argento. Giannino la indicò a De Luca quando erano ancora tra le colonne, annuendo d’orgoglio.

– Lancia Aurelia B20, ingegnere, ma quella appena uscita, la due litri e mezzo. No, voglio dire, ho riscosso un favore che mi dovevano, e meglio di cosí non ci potevano assegnare, non crede? – La accarezzò, anche, battendo due colpetti a mano aperta sul baule arrotondato. – Che fondoschiena… hanno tolto le codine del modello vecchio e adesso è un’altra cosa… non la trova sensuale, ingegnere?

De Luca aprí la portiera ed entrò nell’auto dalla parte del passeggero. C’era una paletta della Stradale sul cruscotto. La prese e lanciò uno sguardo interrogativo a Giannino, che gliela sfilò di mano e la lanciò dietro, sui due mezzi sedili stretti sotto il tettuccio curvo, da coupé.

– Un prestito tra colleghi, – disse, – dall’amministrazione mi hanno fatto un cazziatone perché prendo troppe multe –. Tirò lo starter e poi mise in moto con la chiavetta, premendo l’acceleratore con dolcezza. – È inutile che le chieda di come canta il motore… mi sa che se ci davano una vecchia Topolino col bombolone del metano sul tetto per lei era lo stesso, ingegnere, o sbaglio?

Questa volta gli strappò un sorriso. De Luca scivolò sul divanetto che faceva da sedile, accucciandosi nell’angolo tra lo schienale e la portiera, le braccia strette sul petto a reprimere un brivido di freddo cosí violento che lo fece tremare. Gli succedeva sempre quando saliva in auto, d’inverno, come se lo schienale gelato gli risucchiasse di colpo tutto il calore del corpo. Gli succedeva anche di avere la nausea sentendo l’odore intenso di stoffa e metallo delle macchine nuove, ma aprire il finestrino sarebbe stato peggio, per cui decise di resistere.

Intanto Giannino era partito e aveva già svoltato a destra per imboccare via Ugo Bassi.

– Allora, auto no, ingegnere… calcio? Lo segue il calcio? Io tengo per la Fiorentina, mi sembra ovvio, son nato praticamente in piazza della Signoria, e si sente, ma lei? Juventino? Milanista?

De Luca scosse la testa e lo fece di nuovo quando Giannino disse Non sarà mica interista, vero?

– Intendevo che no, non seguo il calcio.

– Il cinema? La musica! A me piace la musica, quella moderna, le canzonette, insomma. Anche il jazz, però. Tra un mesetto c’è Sanremo, ingegnere. Nilla Pizzi, Teddy Reno, Flo Sandon’s… o è piú un tipo da Claudio Villa? – gli lanciò un’occhiata, scalando la marcia per accelerare e infilarsi in via Marconi prima di un tram. – Non gliene importa niente, vero? Non è mica facile fare conversazione con lei, ingegnere.

– E se parlassimo del caso?

Giannino annuí. Suonò il clacson per togliere un pedone dal mezzo della strada, poi prese un fascicolo dalla tasca della portiera e lo porse a De Luca. Era una cartellina color panna con l’intestazione della questura di Bologna, squadra Mobile. De Luca strinse le labbra, risucchiando l’aria come se avesse l’acquolina.

La prima era una fotografia scattata da vicino, il corpo nudo di una donna accasciato sul bordo di una vasca da bagno, preso da dietro, con le spalle e la testa dentro l’acqua. Non era facile distinguerlo perché era un bianco e nero che si confondeva su un grigio quasi uniforme, con solo la curva delle natiche in primo piano a dare una chiave per sistemare le varie sfumature.

Dopo ce ne erano altre, piú nitide, la massa scura dei capelli che galleggiava immobile nell’acqua insaponata come la testa di una Medusa, dettagli del corpo e del bagno, l’impronta insanguinata di un piede nudo sul pavimento, gli scorci di un’altra stanza, un telefono nero sospeso su un muro, impiccato al filo teso.

De Luca le sfogliò in fretta, quasi senza guardarle, e fece lo stesso con le pagine battute a macchina, relazione di servizio della volante intervenuta, considerazioni del funzionario della Mobile, ispezione cadaverica del medico legale, c’era anche un rapportino dei carabinieri, oltre ai ritagli di giornale, stranamente ancora pochi, nonostante fosse avvenuto tutto ormai due giorni prima.

La scheda della vittima l’aveva già letta in treno, piú volte e con una foga che gli aveva troncato il respiro, quando era partito da Roma con l’incarico di andare a Bologna a risolvere l’omicidio di Mantovani Stefania in Cresca, nata a Ferrara il 23 agosto 1922 – quindi trentun anni – altezza un metro e settanta, peso cinquantadue chili, carnagione chiara, occhi verdi, capelli rossi, segni particolari nessuno. «Vedova», avevano aggiunto sotto, perché suo marito, il professor Mario Cresca, era morto due mesi prima in un incidente d’auto, come sapeva anche De Luca.

– Grazie tante, ingegnere. Credevo di aver fatto un bel lavoro, – disse Giannino, deluso.

– Ottimo lavoro, infatti. Ma non voglio leggerlo adesso. Non so chi sia questo… – sfogliò i documenti, – commissario D’Orrico, non so come lavorino lui e la sua squadra e non voglio farmi fuorviare dalle loro considerazioni. Preferisco vedere il luogo del delitto e farmi prima un’idea mia.

Giannino si strinse nelle spalle. Svoltò a sinistra in via Riva di Reno, percorse tutto il canale, girò sul ponticello e accostò, spegnendo il motore. Si abbassò sul volante per indicare una piccola finestra che stava poco sopra il bordo del parabrezza, le persiane chiuse, sbarrate, come quelle delle case di tolleranza.

– Eccolo là, ingegnere. Il «trappolone» di Cresca.

– Come lo chiama, lei? Scannatoio? Appartamento da scapolo? Be’, se uno scapolo non lo è piú allora da noi si dice trappolone, dove ci si porta le amanti, insomma.

Era in cima alle scale, sull’ultimo pianerottolo stretto che si affacciava sul vuoto oltre una ringhiera bassa e quadrata. C’erano delle strisce di nastro adesivo sullo stipite della porta, con sopra scritto «Polizia», a matita, e il timbro della questura. De Luca le indicò a Giannino con un cenno del mento, perché aveva le mani affondate nelle tasche del soprabito, il fascicolo color panna sotto braccio. Sembrava che tutto il freddo umido della strada fosse stato risucchiato fin lassú, lungo la tromba delle scale.

Giannino strappò i sigilli, poi tirò fuori un grimaldello e in un attimo aprí la porta. Sorrise a De Luca, che però non lo guardava piú. Fissava il buio oltre la soglia con il cuore che aveva cominciato a battergli forte e questa volta sí, un eccesso di saliva, di acquolina, proprio, che lo costrinse a deglutire.

L’interruttore stava accanto alla porta. De Luca girò la chiavetta e accese la luce, poi alzò un braccio per bloccare Giannino, che stava per entrare.

– Ce l’hai una macchina fotografica?

– Certo, ingegnere, in auto. Vado a prenderla.

De Luca restò sulla soglia, a soffiare pennacchi di vapore umido. Chiuse gli occhi, tenendo le palpebre strette, e poi li riaprí.

Una piccola mansarda, quadrata, con la finestra chiusa sulla parete in fondo, quella stretta dallo spiovente del tetto.

A sinistra un letto matrimoniale, disfatto. No, usato per dormire, un lato scoperto e un solo cuscino fuori posto, un sonno solitario. Accanto alla porta un armadio, piccolo, due ante, aperto. Sparsi sul letto, però, e sul pavimento attorno, tutti i libri, i quaderni e le carte che dovevano stare in una piccola libreria in fondo, e anche il contenuto dei cassetti dei comodini, rovesciati sul pavimento.

A sinistra.

A destra, un tavolino, la sedia dritta davanti, una macchina da scrivere, una lampada, un cestino per la carta straccia, tutto a posto. Però. Un telefono sul pavimento, il filo della cornetta lontana attorcigliato come un serpente. Contro la parete in fondo, accanto a una stufetta a carbone, un altro tavolino con un giradischi e un portadischi a soffietto. Ma tutti i dischi per terra, fuori dalle copertine di cartone, spezzati a metà.

E in tutta quella parte di stanza, sangue sul pavimento, pestato, strisciato, fino a una porticina aperta che sembrava dare su un bagno.

Giannino arrivò con il fiatone, perché aveva fatto le scale di corsa. Aveva una piccola Leica con la parabola di un flash già montata.

– Cominciamo da dove stava il corpo e poi torniamo indietro, – disse De Luca. – Occhio a non calpestare niente.

– Madonna che freddo. Umido, poi. Lei non lo sente, ingegnere?

No, non lo sentiva piú. Appena aveva acceso la luce del bagno De Luca aveva represso un brivido, ma lo sapeva che era eccitazione e non freddo. Prese un paio di fotografie dalla cartellina e passò il resto a Giannino, che fece una smorfia perché si stava infilando un paio di guanti, con la Leica sotto braccio.

La vasca era vuota, ancora umida, e restavano tracce di sangue sulla formica bianca del bordo. Un barattolo di sali da bagno era capovolto sul fondo, vicino allo scarico, dove una lunga striscia di granelli lucidi convergeva verso il buco. La tendina di stoffa era stata strappata dagli anelli e gettata da parte, sotto il lavandino.

C’erano molte impronte stampate nel sangue sul pavimento davanti alla vasca, suole di scarpe lisce o a carro armato, strisciate di piedi nudi, piccoli, da donna, e una, abbastanza nitida, scalza, la parte anteriore della pianta e le dita aperte, come schiacciate. De Luca fece cenno a Giannino di fotografarle.

– Senza flash. C’è abbastanza luce. Cosa dice il medico legale?

– Ingegnere, – mormorò Giannino, – ho due mani sole, – ma cominciò a leggere, davanti a me si presenta il cadavere

– Solo le ferite rilevate.

– Va bene, allora… ematoma sulla parte destra della fronte, taglio sulla sinistra, naso rotto, escoriazione sullo zigomo… poi, poi… sul collo: lungo ematoma circolare, di forma sottile, altri ematomi a chiazze. Grande ematoma davanti, sotto il seno, da schiacciamento, dice. Morta per probabile annegamento circa dodici ore prima di esser ritrovata.

De Luca immaginava. Guardò la vasca, poi le fotografie della cartellina, colori sbiaditi dalla luce artificiale del lampadario del bagno, bianco e nero lucido per il cartoncino da stampa.

Si avvicinò all’armadietto che stava sul lavandino e lo aprí. Per un momento si vide riflesso nello specchio dell’anta, una striscia sottile di faccia che passava rapida e spariva.

Fece solo in tempo a notare le occhiaie e la barba che avrebbe dovuto farsi da un pezzo, prima di concentrarsi sul contenuto.

Pettine, spazzola, spazzolino, dentifricio, rasoio elettrico e colonia dopobarba. Brillantina. Collutorio. Roba da uomini. Sul bordo del lavandino una piccola borsa da toeletta. Roba da donna. De Luca prese il pettine da uomo e lo studiò in controluce: pulito ma unto. Prese un rossetto dalla trousse sul lavandino e lo aprí: rosso scuro, quasi finito.

– Ha visto qua? – disse Giannino, indicando un cesto di vimini. Sí, De Luca lo aveva visto e ci stava arrivando. Un pacchetto di preservativi Gold One, ancora chiuso, che Giannino prese, scuotendolo a mezz’aria con un sorriso divertito.

– Se hai fotografato tutto andiamo di là. Qui abbiamo finito.

De Luca uscí dal bagno, e si fermò a guardare Giannino che aveva preso la bottiglietta della brillantina, si era tolto un guanto e ne aveva versata un po’ nella mano, strisciandola tra le dita. La avvicinò anche al naso, per sentirne l’odore.

Per un attimo De Luca si chiese cosa stesse facendo, poi lo vide scuotere la testa, pensoso.

– Dicono che questa Tricofilina previene la caduta dei capelli. Non so, non mi convince. Resto fedele alla Linetti, ha un profumo migliore.

A De Luca sfuggí un sorriso, e lo mantenne anche quando Giannino calpestò le macchie di sangue attorno al tavolino accanto alla porta d’ingresso, prima che lui riuscisse a fermarlo. Ma tanto le aveva già viste.

– Fotografa queste altre, dài.

Suole lisce, suole a carro armato e altre due impronte di piedi scalzi. Una davanti al telefono appeso al muro, quasi completa, mancava solo il tallone. L’altra sotto il tavolino, tutta, dall’alluce al calcagno, ma piegata su un fianco, la linea rossa che si interrompeva sotto l’arco della pianta. Piedi di donna.

De Luca si chinò sulla macchina da scrivere, una piccola Remington portatile, nera, cosí vicino che sembrava volesse sentirne l’odore. Aprí il cassetto del tavolino, carta da lettere e buste intestate «Mario Cresca», semplicemente, senza titoli, solo l’indirizzo, «via Oberdan 18», non quello del trappolone. Sottosopra, però, come se ci avesse rovistato dentro una mano.

Insanguinata.

Guardò nel cestino della carta che stava quasi sotto il tavolino. Era vuoto, a parte l’angolo strappato di una busta color avorio dello stesso tipo di quelle nel cassetto. La prese, notò la sfumatura rossastra che aveva sul lato, sangue assorbito dalla carta, e le tre lettere maiuscole che c’erano sopra, rosse anche quelle, ma di inchiostro per macchina da scrivere.

DOTT, con la t finale spezzata a metà dallo strappo.

Poi si piegò sulle ginocchia e rimase un po’ a fissare il telefono sul pavimento, un grosso apparecchio di bachelite nera. Prese la cornetta, soffiò via la polvere bianca per rilevare le impronte digitali che ci stava depositata sopra, e la osservò a lungo.

– C’è l’elenco dei reperti consegnati alla Scientifica? – chiese.

Giannino sfogliò i documenti nella cartellina, con difficoltà perché si era rimesso il guanto. C’era.

– Capelli?

– Sí. Tre. Lunghi e rossi. Appiccicati dal sangue sulla cornetta del telefono, – la indicò.

De Luca annuí. – Altro?

– Un accappatoio da uomo, cifrato «MR» sul taschino, umido e sporco di sangue. Poi basta.

De Luca sospirò. Aveva fatto bene a non leggere prima il rapporto del commissario della Mobile, e lo disse.

– Perché?

– Il collega D’Orrico è un tipo che lavora un tanto al chilo –. Ex collega. – Ha rilevato le impronte solo sul telefono e non sul resto. E c’erano anche un sacco di altre cose per la Scientifica. Per esempio questo, – mostrò il pezzo di busta preso dal cestino, – e questo, – indicò la macchina da scrivere, la levetta che sbloccava il foglio, sulla sinistra e poi anche la barra spaziatrice. – Ci sono schizzi di sangue dappertutto, ma queste no, queste sono impronte. E se ci fai caso ce n’è una anche qui, sul tasto della s. Lascia stare che sono illeggibili, significa che qualcuno si è seduto e si è messo a scrivere. Guarda la sedia com’è dritta: qui c’è stata una colluttazione, avrebbe dovuto essersi rovesciata. E…

De Luca si interruppe. Immaginava.

Ma corrugò la fronte.

– Non è per difendere quella fava della Mobile, – disse Giannino, – ma se le impronte sono illeggibili perché sequestrare la Remington?

– Non la macchina. Questo. È abbastanza nuovo e magari salta fuori qualcosa –. De Luca sganciò le levette che bloccavano le rotelline del nastro e le tirò fuori, arrotolandolo. Se le mise in tasca.

– Be’, certo, il telefono è importante, – prese la cornetta insanguinata, – hanno colpito la signora con questa, e prima o dopo hanno provato a strangolarla, – tirò il filo stretto tra i pugni chiusi, stava per aggiungere direi dopo, viste le impronte sul sangue per terra ma si fermò, perché immaginava.

Di nuovo corrugò la fronte.

– Poi gli hanno infilato la testa nella vasca da bagno e l’hanno annegata, – disse Giannino, annuendo deciso. – Almeno due persone, a giudicare dalle impronte delle scarpe. È giusto, ingegnere?

– Tre, se aggiungiamo le tue, – disse De Luca. Si era alzato e si era avvicinato all’armadio, restando a fissarlo con le braccia conserte. – Quelle suole a carro armato mi sembrano proprio gli scarponcini delle volanti. Il collega ha lasciato camminare dovunque –. Ex collega.

Per terra, davanti all’armadio, un paio di scarpe da donna, rosse, numero 39. – Bel piede la signora Cresca, – aveva detto Giannino. – E bel gusto, – aveva aggiunto, notando la marca.

Nell’armadio una giacca da camera cifrata «MR», un paio di pantaloni sportivi, un maglione, mutande e calzini da uomo.

De Luca smise di immaginare. Corrugò la fronte ancora di piú, se possibile.

– E questo troiaio qua l’hanno fatto i colleghi? – disse Giannino, indicando i dischi rotti. – Dio bonino, guardi… Billie Holiday, Etta James…

– No, – disse De Luca, soprappensiero, – sta già nelle fotografie, – mentre Giannino continuava, Duke Ellington, Lionel Hampton…

– Si è salvato solo questo, è l’ultimo di Lena Horne, in Italia non c’è ancora, che dice, ingegnere, importa a qualcuno se me lo frego?

Ma De Luca non lo stava ascoltando.

Scuoteva la testa, tra sé, e pensava: Niente.

Non torna niente.

Non aveva fiducia nel lavoro dell’ex collega ma non poteva bussare a tutte le porte del caseggiato per parlare con i vicini, anche se Giannino aveva comunque un tesserino da poliziotto, perché non voleva dare nell’occhio.

Però qualcosa da approfondire c’era.

Perché nel rapporto della Mobile le dichiarazioni delle quattro famiglie che abitavano nei due piani sotto la mansarda dicevano piú o meno le stesse cose: nessuno si era accorto di niente, di giorno erano tutti fuori a lavorare e la sera aveva piovuto di brutto, con un vento gelido da bufera. Solo la signora del piano subito sotto aveva sentito qualcosa, verso l’ora di cena, ma non ci aveva fatto caso. Ma siccome era anche la persona che aveva chiamato la polizia forse era meglio farci almeno quattro chiacchiere.

Era stato Giannino ad avere l’idea.

– Diciamo che siamo giornalisti, ingegnere. Del «Resto del Carlino». Sicuro che funziona.

Aveva funzionato, infatti, anche se in un primo momento la signora Maria era rimasta perplessa, sulla porta, poi aveva sorriso al sorriso di Giannino e li aveva fatti entrare, e quando lui aveva notato «Bolero» sul tavolo del tinello, e aveva cominciato a parlare di Ruggero e Silvia, Sarà un vero addio, e come viene bene la Sereni nei fotoromanzi, la signora li aveva anche fatti sedere.

– Caffè o vermuttino?

– Sí, – aveva detto De Luca di slancio, – caffè, grazie, – e Giannino aveva annuito, anche se avrebbe preferito il vermut.

Non era un appartamento molto grande ma era caldo, c’era una stufa nell’angolo della stanza, e accanto, seduto per terra, c’era un bambino con i calzoncini corti, le ginocchia rosse per i geloni, si accorsero di lui perché tossí. Teneva un quaderno sulle gambe incrociate e ci disegnava sopra con un lapis.

– Ciao, come ti chiami? – chiese Giannino, ma la signora Maria aveva cominciato a parlare dalla cucina, mentre ancora metteva la moka sul fornello.

– Non lo scrivete mica il mio nome, vero?

– No, signora, stia tranquilla.

– Ah, perché la polizia mi aveva detto di non parlare con nessuno. E poi non voglio mica che mi vengano a cercare, loro là son capaci di tutto.

– Loro? Loro chi?

– Quei negri.

Giannino guardò De Luca. Stava per chiedere qualcosa ma non ce ne fu bisogno.

– Oh, per carità, io lo capisco che uno è giovane, pieno di soldi, anche bellino… però.

Uscí dalla cucina, si era tolta il grembiule e si stava aggiustando i capelli raccolti sulla nuca quando si accorse del bambino e batté insieme le mani.

– Albertino! È freddo per terra! Vai sul letto a fare i compiti!

– Però cosa? – chiese De Luca.

– Però niente, per carità, ormai siam moderni… – indicò il soffitto con la punta di un dito, abbassando la voce. – C’era un viavai di donne… sentivano i dischi tutto il giorno, oddio, mi piace anche a me la musica, – sorrise a Giannino, – però quella roba lí, come si chiama, e’ giazz, dice mio marito, il ghiaccio, – Giannino rise con lei, – che a me non mi piace mica tanto… io, lo vuol sapere chi mi fa diventare matta? Claudio Villa.

Dalla cucina arrivò il gorgoglio del caffè che saliva. La signora Maria disse con permesso e De Luca sospirò di impazienza, ma quando lei tornò con il vassoio in mano per un momento la voglia di caffè oscurò tutto il resto.

– Quanto zucchero? – chiese.

– Uno, – rispose De Luca.

– Tre, – fece Giannino.

– Cosí tanto? Cos’ha, bisogno d’affetto? Un bel giovanotto come lei non ce l’ha la fidanzata? Albertino!

Il bambino non si era mosso dal pavimento. Si alzò, e invece di uscire dalla stanza si avvicinò al tavolo. Si mise in un angolo, in ginocchio su una sedia, e riprese a disegnare. Sulla pagina a quadretti grandi aveva tratteggiato una figura umana, lunga e grossa, con un testone.

– Cos’è? – chiese Giannino. – Un orco? Un diavolo?

– Albertino! La maestra ti ha detto di non disegnarle piú, quelle cose! È un bambino bravo ma un po’ timido, sta facendo la prima con una fatica…

– Va bene, – disse De Luca, – il professor Cresca riceveva qualche donna, sentiva i dischi… e i negri?

– Faceva festa con i suoi amici musicisti, bevevano, suonavano e c’erano anche dei negri, qualche volta, – lo disse abbassando la voce, annuendo seria. – Io non ne ho mai visti, ne ha visto uno la signora di sotto, un negrone grande, sa cosa dice mio marito? Che quelli fumano certe sigarette drogate e poi… – fece un gesto con la mano, a mezz’aria, incomprensibile ma minaccioso. – Io gliel’ho già detto alla polizia, per me è stato uno di loro. Ma non scriva il mio nome sul giornale, per carità.

De Luca sospirò. Finí il caffè in fretta e rinunciò allo zucchero sul fondo.

– Ci racconti di quando ha chiamato la polizia, per favore.

La signora Maria agitò le mani, Per carità non mi ci fate pensare, poi tirò una sedia e si accomodò davanti a loro, le braccia sul tavolo, rivolta a Giannino.

– Allora, la signora mi aveva detto di portare il bucato non prima delle dieci…

– La signora Cresca?

– Sí, la moglie del professore. Si figuri che non sapevamo neanche che fosse sposato, lo abbiamo imparato dalla mortina sul «Carlino», quando ha avuto l’incidente, poveretto, – si fece il segno della croce, rapida, e si baciò la nocca dell’indice.

– Non l’aveva mai vista prima, qui, alla mansarda?

– No, mai. Era la prima volta. Si figuri che credevo che quella un po’ piú fissa delle altre era quella là, Faccetta Nera.

– Faccetta Nera?

– La chiama cosí mio marito, che ha fatto la guerra in Africa e dice che deve essere abissina, meticcia comunque, perché non è cosí scura. Ecco, lei veniva un po’ piú spesso. Ma la moglie mai. Oddio, era un trappolone, no? Mica ci vanno le mogli, nei trappoloni, no? – e rise, con Giannino, mentre De Luca sospirava.

– Continui, per favore.

– Allora, mercoledí, saranno state le undici, di mattina dico, ero a lavare i panni, perché faccio la lavanderina qui davanti, – indicò la porta d’ingresso, in direzione del canale Reno che stava fuori, davanti alla strada, – si figuri, con questo freddo, ma vogliamo cambiar casa, mio marito fa gli straordinari apposta, sentite che umidità, il bambino ha sempre la tosse, – allungò una mano e accarezzò rapida la testa di Albertino, curvo a disegnare, – comunque sono lí che lavo quando arriva questa bella donna, una rossa alta, elegante, un po’ forte di naso però bella, cosa andava a cercare in giro lui là io proprio non lo capisco, con una moglie cosí –. Giannino colse l’impazienza di De Luca con la coda dell’occhio e disse E quindi?

– Quindi mi ha chiesto se potevo lavarle dei panni, cosí sono andata su e mi ha dato della biancheria da letto, federe, lenzuola, e asciugamani, anche…

– Vestiti? – chiese De Luca.

– No, solo roba da letto e da bagno. Bella roba, tutta con le iniziali. Comunque ho fatto il bucato, ho messo a stendere, ho stirato, poi ieri mattina gliel’ho portato su. Non prima delle dieci, si era raccomandata, perché una cosí dorme fino a tardi, mica come noi poveri tribolini. Si figuri che mi aveva anche chiesto di andargli a fare le pulizie, ogni tanto, peccato, facevan comodo quei soldi lí.

Scosse la testa, e anche Giannino, che disse Peccato e subito aggiunse E quindi?

– Quindi ho visto che c’era la porta socchiusa, ho bussato, ho chiamato, non rispondeva nessuno, poi ho visto tutto quel macello, la roba per terra, ho pensato ai ladri, mi sono presa paura e sono andata a svegliare mio marito che aveva fatto il turno di notte e lui sí, era giusto che dormiva. Claudio è andato su, è tornato giú subito, ha detto che aveva visto una cosa brutta nel bagno ed è sceso al bar per telefonare alla polizia.

– Quindi lei non ha visto niente, – disse De Luca.

– Per l’amor di Dio mi veniva un colpo e mi trovavano morta stecchita per terra. E fortuna che Albertino, quando è salito su a fare la pipí prima di andare a scuola, perché con rispetto parlando il gabinetto del nostro pianerottolo è otturato e usiamo quello del piano di sopra, Albertino non vuole piú il vasino, insomma per fortuna che non l’ha vista lui, la porta aperta, se no se entrava… mio marito ha detto che c’era una schiena bianca bianca, – la signora Maria rabbrividí, Non ci voglio neanche pensare.

De Luca prese la tazzina di caffè e grattò il fondo di zucchero con la punta del cucchiaino. – Un’ultima cosa… ha detto che la sera prima ha sentito un po’ di confusione, al piano di sopra.

La signora Maria si strinse nelle spalle.

– Pioveva, tirava vento e io avevo la radio accesa, sa, la Flo Sandon’s e Natalino Otto, – disse a Giannino, che annuí. – E poi eravamo cosí abituati al baccano quando c’era il professore che non ci ho fatto troppo caso.

– A che ora?

– Saranno state le otto, anche le otto e mezzo. Avevo fatto tardi con la cena di Albertino, gli stavo dando da mangiare.

– E cosa…

– Passatelli. Con un brodo forte. Sa, – a Giannino, – per la tosse.

– Intendevo cosa ha sentito, precisamente.

– Precisamente niente, gliel’ho detto. Un mezzo grido, qualche pestata, – indicò il soffitto, – ma leggera. Lí per lí ho pensato che ballasse, sarà stato perché sentivo La samba dell’uccellino e avevo anch’io una voglia di andare a ballare, non mi ricordo neanche piú come si fa.

De Luca si alzò, brusco.

– Grazie, signora, – disse, – togliamo il disturbo.

La signora Maria guardò Giannino delusa e lui allargò le braccia.

– L’ha detto lei, siamo tutti dei poveri tribolini, il lavoro ci chiama.

– Un momento –. De Luca era già quasi sulla soglia dell’appartamento quando si fermò. Gli era venuta in mente una cosa, e si stupí che non fosse accaduto prima. Forse era stata la signora Maria a stordirlo, con le sue chiacchiere.

– Albertino va a fare i suoi bisogni nel bagno comune, di sopra, giusto? Li fa anche la sera, prima di andare a dormire?

– Sí, – disse la signora Maria.

– Anche quella sera?

– Ma certo, gli faccio fare la pipí prima di andare a nanna, se no… oh mio Dio! – si mise una mano sulle labbra, e stava per parlare ancora ma De Luca la fermò alzando la sua con tanta decisione che la signora rimase a bocca aperta.

– Albertino, – chiese, – hai sentito o visto qualcosa quando sei andato al gabinetto di sopra?

Albertino annuí.

– Oh mio Dio! – disse la signora e questa volta fu Giannino a fermarla prendendole un braccio, senza molta cortesia.

– Hai sentito qualcosa? – chiese De Luca, ma Albertino scosse la testa. – No.

– Sei entrato nell’appartamento e hai visto qualcosa lí? – chiese Giannino, e Albertino la scosse ancora.

– Allora hai visto qualcuno, – disse De Luca e questa volta Albertino annuí. Spinse avanti il quaderno.

– Faccia di Mostro, – disse, la voce arrochita dal silenzio. – È uscito dalla casa di quella signora.

– Non torna niente.

– Perché dice cosí, ingegnere? Abbiamo anche l’identikit dell’assassino. Non li mangia i tortellini? Guardi che se si freddano è un peccato.

De Luca fissò il piatto che aveva davanti. Appena il cameriere glielo aveva messo sotto il naso l’odore caldo di brodo e pasta fresca gli aveva contratto lo stomaco in un gorgoglio di fame vecchia e vorace, ma dopo la seconda cucchiaiata si era già distratto a guardare il disegno che teneva accanto al piatto, al posto del tovagliolo.

Albertino doveva avere un certo talento, perché nonostante la sproporzione tra la testa e il corpo, che faceva comunque pensare a un uomo grande e grosso, il volto era tratteggiato minuziosamente e si capiva che quell’occhio piú basso dell’altro corrispondeva alla realtà.

Grande e grosso, volto obliquo, capelli biondi e radi, dettagli aggiunti dal bambino che nascosto dietro la porta socchiusa del gabinetto aveva visto Faccia di Mostro uscire dalla mansarda e da allora non l’aveva dimenticato piú. Sí, aveva un certo talento, Albertino. E anche il senso degli affari: aveva voluto cinquanta lire per lasciargli il disegno.

– Non li mangia proprio, ingegnere? È un peccato, davvero. Posso?

De Luca annuí distratto, e Giannino si allungò sul tavolo a prendere la scodella quasi piena, che appoggiò sulla sua vuota.

– Non dovrei, perché sto cominciando a mettere su qualche chilo, però, come si fa? Dicono che i tortellini del Diana sono i migliori di tutta Bologna… e poi abbiamo saltato il pranzo, no?

– Facciamo un riassunto? – disse De Luca, e Giannino si bloccò con ancora il cucchiaio a mezz’aria.

– In che senso?

– Sabato sera, tra le otto e le otto e mezzo, questo signore qui, – De Luca alzò il disegno di Albertino, – entra nella mansarda e uccide la signora Cresca.

Giannino annuí, con la bocca piena.

– Gli apre lei.

Giannino smise di annuire, perplesso.

– Non c’erano segni di scasso sulla porta. A parte che stava scritto sul rapporto della Mobile, quando l’hai aperta col grimaldello ne hai notati?

Giannino scosse la testa.

– Allora o Faccia di Mostro ha una chiave sua o bussa e lo fa entrare lei. In accappatoio. Perché aveva fatto o stava facendo il bagno, la signora. L’hanno annegata nella vasca, va bene, ma non è che l’hanno riempita apposta, no?

– No, – disse Giannino. – Mi sta facendo passare l’appetito, ingegnere. Magari sono amanti, sa come si dice, non è bello quel che è bello ma è bello quel che piace, giusto? Anche uno cosí, – accennò al disegno con la punta del cucchiaio e De Luca si strinse nelle spalle.

– Tutto è possibile. Lei lo fa entrare o lui ha una chiave sua, va bene. Succede qualcosa e lui la aggredisce. La colpisce con la cornetta del telefono, le fa un taglio sulla testa, le rompe il naso e lei sanguina parecchio. La strozza con il filo del telefono.

Giannino aveva ricominciato a mangiare. Annuiva vigorosamente, un cucchiaio di tortellini dietro l’altro, risucchiando il brodo.

– Poi però, all’improvviso, smette.

Smise anche Giannino, di mangiare. Appoggiò il cucchiaio sul piatto, pulendosi la bocca col tovagliolo.

– Perché smette?

– Perché c’è un’impronta sotto il tavolino con la macchina da scrivere che è quella di una persona che si è seduta. E siccome è l’impronta di un piede nudo piccolo è della signora Cresca. Che dopo essere stata picchiata col telefono, perché è tutta insanguinata, si siede alla macchina e scrive –. De Luca mosse le dita come su una tastiera.

– L’ha costretta lui, – disse Giannino.

– Ah sí? E perché? Mica si riconosce la calligrafia, se deve scrivere qualcosa con quella macchina può farlo lui. Comunque, a un certo punto Faccia di Mostro le infila la testa nella vasca da bagno e l’annega. Poi perquisisce gli scaffali buttando la roba sul letto, rompe tutti i dischi di jazz e se ne va rubando i vestiti della signora.

– I vestiti?

– Tu ne hai visti? C’erano solo le scarpe. A meno che la Cresca non sia andata alla mansarda nuda, ma non credo, non fosse altro che per il freddo, allora qualcuno deve essersi portato via i suoi vestiti. Te l’ho detto, non torna niente.

Per terra, sul pavimento sotto il tavolo, c’era la cartellina color panna della questura. De Luca la prese e sfogliò i documenti con la punta di un dito, aprendola appena, perché cercava la fotografia della signora Cresca stesa supina sul pavimento del bagno, gonfia e nuda. La trovò, ed era cosí concentrato a studiarla che si dimenticò di tutto il resto, e fu Giannino a sporgersi sul tavolo per chiudergli le ante della cartellina, adesso troppo aperte.

– Ingegnere, per favore… c’è gente che mangia.

Anche se era soltanto un lunedí il locale era quasi pieno, cosí sotto le feste, decorato di lustrini argentati e illuminatissimo. C’era un albero di Natale davanti allo specchio che occupava tutta la parete, in fondo, e un brusio eccitato che riempiva la lunga sala del ristorante.

Appena erano usciti dal palazzo di via Riva di Reno Giannino aveva detto che sentir parlare di passatelli dalla mamma di Albertino gli aveva fatto venir fame, e visto che era ormai ora di cena e che la nota spese, con l’arrivo di De Luca, si era fatta piú robusta, potevano anche permettersi un ristorante di lusso come il Diana, No ingegnere?

Giannino fece un cenno a un cameriere in giacca bianca che aspettava appoggiato allo stipite della porta che dava sulla cucina, con le braccia conserte.

– Un giro col carrello dei bolliti, ingegnere? Si è fatto trenta, facciamo trentuno.

De Luca scosse la testa, ma poi lo lasciò ordinare anche per lui, scegliendo i vari pezzi che il cameriere tagliava con un largo coltello affilato, mentre annuivano convinti tutti e due, il cameriere e Giannino.

De Luca assaggiò soltanto un pezzo di manzo e mezzo cubetto di crema fritta che Giannino aveva insistito prendesse, poi appoggiò le posate su un lato del piatto, come per dire che aveva finito, e afferrò la cartellina.

– Ma che fa lei, ingegnere, vive d’aria e lavoro? E fortuna che gliel’hanno già fatta, l’autopsia, alla signora, se no si faceva portare anche lí, vero? Guardi che siamo ancora in tempo per darci un’occhiata, la seppelliscono domani mattina. Ohé, sto scherzando, non si faccia venire delle idee.

De Luca sospirò, chiudendo gli occhi per un momento.

– Senti, Giannino, quanti anni hai?

– Ventidue, ingegnere.

– Ecco, io piú o meno quaranta. E da quanto tempo fai questo lavoro?

– Quale? Quello del poliziotto? – si strinse nelle spalle, – ho cominciato oggi. Se invece intende quello della spia, – lo sussurrò senza voce, componendolo solo con le labbra, esagerando apposta, – da piú tempo di lei, credo –. Poi aggiunse Ingegnere, ricominciando a sorridere perché prima, per un attimo, aveva smesso.

De Luca annuí.

– Allora mettiamo in chiaro un paio di cose. In ogni caso, in questa indagine io sono il capo e tu l’assistente. Si fa a modo mio, con i tempi miei e i miei ritmi, come voglio io.

– Ma certo, ingegnere.

– Seconda cosa, smettila di ripetere ingegnere tutte le volte. Lo dici a ogni frase, è irritante.

– Va bene, – disse Giannino, e si fermò lí.

– Invece su questa, – De Luca sventolò la cartellina, – hai ragione. È inutile insistere, ormai la so a memoria. Facciamo meglio a rilassarci.

Si versò un bicchiere di vino e prima ne versò uno anche a Giannino, che ringraziò con un cenno del capo. Poi prese il suo piatto di bollito e glielo porse, strappandogli una risata.

– Ce l’hai l’occorrente per sviluppare le fotografie?

– Non aveva detto che dovevamo rilassarci? Ce l’ho in ufficio.

– Possiamo andarci adesso? Cioè, dopo, quando abbiamo finito qui.

– Io sí ma lei no. È in incognito anche per noi, ricorda? Gliele porto alla pensione domani mattina.

– Domani mattina andiamo al funerale a fare un po’ di domande ad amici e parenti della signora Stefania. Che qualche giorno fa se ne va a stare nel trappolone del marito playboy, dove non era mai andata prima, portandosi dietro soltanto una borsetta con lo stretto necessario. Vorrei capire perché.

– Va bene.

– Vorrei anche sapere se la signora ha telefonato a qualcuno, in questi giorni. Nelle carte della Mobile non ho visto la richiesta dei tabulati, puoi procurarteli?

– Va bene.

– Stasera, però, vorrei vedere le fotografie che ti ho fatto scattare. Soffro d’insonnia e mi annoio, senza far niente. Tu sali in ufficio, io ti aspetto giú in macchina.

– Va bene.

Giannino si abbandonò contro lo schienale della sedia e si allentò il nodo della cravatta, allargandosi il colletto della camicia.

– Se lo fa un dolcino con me, ingegnere? O preferisce un caffè?

– Sí, – disse De Luca, – sí, un caffè.

Era vero che soffriva d’insonnia. Negli ultimi tempi non era mai riuscito ad addormentarsi prima delle due, per poi svegliarsi presto dopo un sonno malato e intermittente, che quando non lavorava continuava fino quasi a metà mattina. E non era capitato molto spesso, che dovesse lavorare.

Cinque anni prima lo avevano messo in aspettativa in vista del processo. Il giudice istruttore che lo aveva interrogato aveva sul tavolo «l’Unità» del 15 luglio 1948, aperta sulla seconda pagina dove campeggiava CHI È IL COMMISSARIO DE LUCA, tutto maiuscolo, sopra la sua foto con le mani nelle tasche del soprabito e la camicia nera, e anche il «Giornale dell’Emilia», cronaca di Bologna, «Funzionario di polizia sfuggito all’epurazione», piú piccolo ma in grassetto.

Davanti, aperto, il suo fascicolo, con la scheda arancione che avrebbe dovuto riassumere tutta la sua carriera in polizia sotto il fascismo, ma a cui mancavano le risposte relative all’ultimo periodo, quello repubblichino.

E in cima al fascicolo, un foglietto rigido, ricavato dal retro di una carta annonaria, intestato: «Comitato di liberazione nazionale», e fitto di righe battute a macchina con forza, che De Luca aveva cercato di non guardare, come se avesse potuto fargli male.

Aveva fatto praticamente scena muta, su consiglio del suo avvocato, un signore allampanato e dalle guance flosce che aveva conosciuto solo qualche giorno prima, inviatogli non sapeva neanche da chi. A lui aveva cercato di spiegare tutto, che non era mai stato veramente fascista, cioè, lo era stato come tutti, come tanti, almeno, che era soltanto un poliziotto, uno bravo, Il piú brillante investigatore della polizia italiana, come lo avevano chiamato una volta, risolveva tutti i casi, metteva in galera tutti gli assassini, poi c’era stata la guerra, l’8 settembre, la Repubblica di Salò e aveva ricominciato a fare il suo mestiere, perché lui era quello, e quello soltanto, un poliziotto.

Un poliziotto.

L’avvocato teneva tra le dita una copia del rapporto del Cln sulle attività dell’Ufficio di polizia politica dove De Luca aveva servito, trascritto su un foglio bianco dalla carta annonaria riciclata dell’originale, ma sempre fitto di righe battute a macchina, e siccome leggendolo aveva corrugato la fronte stempiata De Luca aveva smesso di raccontare, quasi senza fiato, e aveva iniziato Guardi che di quello che c’è scritto lí io davvero mai, ma l’avvocato lo aveva zittito alzando una mano.

Gli aveva detto di rispondere soltanto No, all’interrogatorio col giudice istruttore, a ogni domanda, nessuna esclusa, e lui cosí aveva fatto.

Nei giorni successivi, nelle settimane che erano venute dopo, De Luca era rimasto ad aspettare, senza fare niente, praticamente recluso nel suo alloggio nell’ala dei funzionari della caserma di Ps, a Nettuno.

Aspettava, steso sulla sua branda, supino, con le mani intrecciate dietro la nuca, quasi sempre vestito, come se dovesse essere convocato, di piú, arrestato, da un momento all’altro.

Aspettava.

Ma non successe nulla.

Il giudice non lo convocò piú, non si parlò piú del processo, neanche l’avvocato lo rivide mai. De Luca, da parte sua, non chiese niente.

Non l’avevano mai sospeso dal servizio, rientrò dall’aspettativa e lo lasciarono un altro po’ in caserma, a non fare niente. Ogni tanto lo aggregavano a qualche posto di polizia di frontiera a sostituire qualcuno, sempre in ufficio. Per un anno lo tennero alla scuola allievi guardie di Ps a fare istruzione alle reclute, poi il figlio di un partigiano fucilato a Parma lo riconobbe e di nuovo tornò nel limbo della caserma, a non fare nulla, spedito ogni tanto in qualche ufficio sperduto a fare poco di piú.

Poi, un giorno, lo avevano convocato a Roma, all’Ufficio affari riservati, da dove lo avevano mandato a un’altra sede del Servizio di informazioni civile, poi a un’altra e poi a un’altra ancora, che aveva sulla porta l’insegna di un import-export, dove aveva conosciuto il commendator D’Umberto, i suoi occhiali grandi, il gilet aperto sulla pancia rotonda e la sua voce grassa, Vedi De Luca, per fare lo sbirro ci vuole un cuore di cane.

Di quale servizio fosse il direttore, esattamente, non lo aveva capito, lui non lo disse e De Luca non lo chiese. Ma quando gli propose di collaborare con loro, in incognito, senza credenziali ufficiali e sotto copertura, per risolvere un caso d’omicidio, De Luca disse , e lo ripeté, , con la testa e con la voce.

Adesso era lí, seduto sul bordo del letto nella camera della pensioncina del centro in cui lo avevano alloggiato, a far passare il nastro della macchina da scrivere sulla luce dell’abat-jour del comodino, le dita strette ai lati per tenerlo teso e gli occhi socchiusi per metterlo a fuoco meglio.

Trovò soltanto alcune lettere nitide, pestate con forza sulla banda rossa del nastro, quella meno usata, appunto, perché anche se abbastanza nuova la banda nera era piú confusa. Poche lettere, in maiuscolo: DOTT. PIRRO ORES.

Avrebbero potuto essere state scritte da chiunque e in qualunque momento, ma De Luca le confrontò con quelle stampate sul pezzo di busta insanguinata, impresse con la stessa forza, e in rosso, e questo significava che i tasti erano stati battuti proprio quel giorno, dalle dita sporche di sangue di Stefania Cresca seduta al tavolino.

Le annotò su un foglietto, segnandosi mentalmente di chiedere a Giannino di fare un controllo. Poi si mise a fissare le fotografie che si era fatto stampare e che aveva steso sul pavimento, attorno al disegno di Faccia di Mostro, sfregandosi le mani sulle braccia perché nella stanza c’era una stufa ma non l’aveva accesa, e faceva freddo.

Aveva sofferto di insonnia praticamente per tutti quei cinque anni, ma adesso, appena si infilò sotto le coperte, mezzo vestito, giusto per riscaldarsi un po’, si addormentò di colpo e dormí fino alla mattina dopo, come un bambino.