La mattina dopo Bologna era coperta da una coltre di neve cosí densa e gonfia che sembrava panna montata. Era caduta durante la notte, silenziosa, e De Luca se ne accorse soltanto quando uscí nella stradina che il portiere aveva appena finito di spalare, davanti all’ingresso della pensione.
Giannino lo aspettava con la macchina in moto poco piú avanti, quasi in mezzo alla via, perché le sponde della neve correvano lungo i portici arrotondate come onde, e impedivano di avvicinarsi per parcheggiare.
Nell’Aurelia c’era il riscaldamento acceso, ma De Luca si era lavato con l’acqua gelida del catino che aveva in camera e rannicchiarsi nell’angolo del sedile, e anche stringersi addosso il soprabito, non bastava. Pensò che avrebbe dovuto procurarsi qualcosa di piú pesante, e magari anche una sciarpa, come Giannino, che aveva sostituito l’impermeabile imbottito con un cappotto color cammello, in tinta con la sciarpa cachemire che teneva annodata attorno al collo, come un foulard, infilata in un maglione a v. Per il resto sempre uguale, i capelli con la brillantina spartiti dalla riga e il sorriso da pubblicità.
Non era stato facile uscire da Bologna, gli spalatori del Comune non avevano ancora liberato le strade e c’erano parecchi tram fermi sui binari intasati che Giannino aveva dovuto aggirare. Fuori dalle mura era stato piú semplice, anche se non piú veloce, e si vedeva che Giannino soffriva a trattenere l’auto perché non scivolasse via.
Da quando erano partiti non era mai stato zitto un momento. De Luca era riuscito a sopportarlo un po’ perché cominciava a farci l’abitudine e un po’ perché gli aveva portato i tabulati con i numeri telefonici chiamati dalla mansarda di via Riva di Reno negli ultimi giorni. In realtà il commissario della Mobile li aveva richiesti subito, anche se non erano nella cartellina color panna e Giannino aveva fatto presto a procurarseli.
Il giorno dell’omicidio, e nei due precedenti, c’erano state sei chiamate effettuate e tre ricevute. Tutte verso e dallo stesso numero. Intestato a una farmacia di via Galliera, a Bologna.
– Tieni, – disse De Luca tirando fuori dalla tasca il fogliettino su cui aveva annotato le lettere impresse sul nastro della macchina da scrivere. – Riesci a scoprire se esiste un dottor Pirro da qualche parte? Pirro Ores, nome o cognome, ma potrebbe anche essere Oreste, interrotto prima.
Giannino fece una smorfia. – Sarebbe d’aiuto sapere di che dottore si tratta, ingegnere. In Medicina? In Lettere? In Filosofia? Dicono che a Roma un dottore non si nega a nessuno, si figuri a Bologna, dove li fanno da quasi novecento anni.
– Sí, ma non dico solo a Bologna. Dovunque.
Giannino prese l’appunto e se lo infilò in tasca.
– Dottor Pirro Ores, in Italia e nel resto del mondo, dovunque. Va bene, ingegnere, ci vorrà un po’, ma ci provo.
Ci misero un’ora e mezzo per percorrere la sessantina di chilometri che portava a Bondeno e quando ci arrivarono il funerale era quasi finito, ma c’era una specie di ricevimento nella villa della madre di Stefania, riservato a parenti e amici. L’idea era quella di presentarsi come amici, appunto, e lo fecero, generici e anche lontani conoscenti di Stefania o del professore, a seconda delle esigenze, ma non serví a molto perché l’ambiente era cosí chiuso che neppure gli sforzi di Giannino di fare il simpatico riuscirono a strappare piú di qualche frase di circostanza.
Poi De Luca la vide.
Aggrappata al braccio di un piccoletto calvo con una gran pancia, e anche lei aveva messo su qualche chilo dall’ultima volta che l’aveva vista, ma non stava male, tutta in nero, dal cappellino agli stivaletti, compreso il fazzoletto di pizzo con cui si asciugava le guance. De Luca la indicò a Giannino con un cenno del mento, e quando lei si staccò dal piccoletto lui le si avvicinò discretamente, le sussurrò Ciao, Wanda, e fu sicuro di averla vista impallidire, anche dietro la veletta.
Era cosí abituata a fingere l’accento di Ferrara che ormai le veniva naturale raddoppiare le l per farci scivolare sopra la lingua, anche se era di un paesino vicino a Salerno e non si chiamava Wanda ma Concetta. Ma era lei che trovavano i clienti quando i bordelli di via delle Oche o di via Bertiera appendevano sulla porta il cartello: «Abbiamo la Ferrarese». Quando dirigeva la Buoncostume di Bologna De Luca aveva cercato piú volte di capire perché le ragazze di Ferrara fossero cosí famose, ma non c’era mai riuscito.
Seduta sul sedile a divanetto dell’Aurelia tra De Luca e Giannino, Wanda aveva accavallato le gambe, la sottana sollevata fino a metà delle cosce e la punta di un dito che seguiva la curva di un ginocchio, strisciando lento sulla trama della calza scura, ma anche quella era soltanto un’abitudine. Parlava senza fretta e senza emozione, come se pensasse ad altro, lo sguardo distratto sulla neve oltre il parabrezza. Era cosí che faceva le sue confidenze ai questurini, la Wanda, e infatti aveva chiamato De Luca signor commissario.
– Arrogante, antipatica e con una gran puzza sotto il naso. Mario l’ha sposata solo perché era rimasta incinta mentre erano fidanzati. Diciannove anni aveva, la ragazza, lui credo ventidue o ventitre. A parte che non era il tipo da fregarsene, è stato costretto anche perché il padre di lei, che allora era ancora vivo, è morto alla fine della guerra, era un pezzo grosso che gli aveva fatto saltare il militare per via dell’università, e quando le cose hanno cominciato a mettersi male per tutti l’ha imboscato in Svizzera, dove si è preso la laurea. Era un gran professorone, Mario, lo sapete, no?
Wanda accavallò le gambe nell’altro senso e ricominciò a disegnarsi il ginocchio, con la punta del medio questa volta.
– Sí, sí, Stefania, certo. Non c’è molto da dire, viene da parlare piú di Mario che di lei. Lui simpatico, lei no, lui colto, lei no, lui molto attivo, pieno di interessi, lei no. Gelosa come una scimmia, ma mica solo delle amanti, che poi non erano cosí tante, era piú una posa, una cosa che te la aspettavi da uno cosí, lo so perché quando ho smesso di lavorare e ho cercato qualcuno per sistemarmi ci ho provato prima con Mario, avevamo degli amici in comune, ma mi ha fatto capire che no, grazie. Però è stato lui che mi ha presentata a Pucci, mio marito, il commendator Raggi, che sarebbe poi un cugino di Stefania. Non me lo dimenticherò mai, davvero. Accidenti a quel giorno che si è… li ha visti i fiori sulla strada, venendo in qua, un po’ prima di Malalbergo? No, forse no, con la neve.
Wanda tirò su col naso. Lanciò un’occhiata verso la porta della villa mormorando Ancora un minuto e rientro.
– Nemici? Tutti e nessuno, ma piú che altro nessuno. Mica per merito suo, è che non c’era ragione di darle importanza. Amici? Uguale. Io ci sono andata a cena due volte dopo la morte di Mario, Pucci si sentiva in dovere di starle vicino, ci conoscevamo da un po’ e neanche si ricordava il mio nome. Che adesso è Marcella, signor commissario, per favore, non si confonda. Però no, aspetti, un amico ultimamente se l’era fatto, e magari qualcosa di piú, non so. Aldino Scaglianti. Un amico di Mario, suona nella sua banda. Mario però non suonava niente, era un appassionato di jazz e una volta che era tornato dai suoi viaggi in America si era dato da fare per mettere su questo gruppo di musicisti, tutti universitari. Aldino suonava il sassofono. Lo conosco perché ci siamo presi un po’ di confidenze, lo avete visto Pucci, è un bravo marito, ma non è Clark Gable. Dopo la morte di Mario, Aldino è cambiato, insomma, siamo cambiati tutti, però lui di piú. Mi ha, diciamo cosí, mollata e si è avvicinato a Stefania, che prima invece si odiavano cordialmente. Oggi non l’ha visto perché non c’era. Non lo so come mai. Va bene che stasera suona al Modernissimo con la banda, ma un salto avrebbe anche potuto farlo.
Wanda sciolse le gambe e le stese sotto il cruscotto. Si lisciò le calze sulle cosce, il vestito sulle calze e il cappotto di velluto nero sul vestito.
– Non lo so chi può averla uccisa, la Stefania, e neanche perché. Adesso però devo proprio andare.
Giannino guardò De Luca, che annuí. Allora scese dall’auto e tenne aperta la portiera con un mezzo inchino. Wanda scivolò sul sedile e saltò nella neve. Prima di andarsene tese il braccio verso De Luca.
– Signor commissario, le do la mano perché non sono piú Wanda la Ferrarese. A Pucci ho detto che mi chiamo Marcella e che facevo la maestra ad Argelato, se lo ricordi, per favore.
– Ferma, ferma! Fermati qua.
Giannino schiacciò il freno senza affondare troppo il pedale, perché l’auto tendeva a scivolare verso destra. De Luca era rimasto zitto tamburellando con la punta delle dita sul foglio dei tabulati telefonici, poi, passato Malalbergo, aveva schiacciato la fronte sul finestrino gelato, gli occhi fissi sugli alberi che scorrevano dall’altra parte della strada, e cosí li aveva visti, i fiori, legati a un tronco abbastanza in alto da non essere coperti dalla neve. Tirò la leva della maniglia che l’Aurelia non si era ancora fermata del tutto e aprí la portiera.
– Dove va, ingegnere? – Giannino era rimasto accanto alla macchina, dalla sua parte della strada. Aveva anche ricominciato a nevicare. – Le dispiace se non la seguo? Ho un paio di scarpe di Roveri.
De Luca attraversò la carreggiata fino all’albero, affondando nella neve. C’era un mazzetto di fiori fradici e stropicciati, tenuto su da un nastro di raso nero. Fece per toccarlo ma si fermò con la mano a mezz’aria, poi controllò a destra e a sinistra, lungo la strada deserta e bianca, e tornò alla macchina.
– Trovami qualcosa sull’incidente.
– L’incidente? Quale?
– Quello in cui è morto il professor Cresca, un paio di mesi fa, mi sembra.
– Perché? Siamo qui per indagare su un omicidio, una donna annegata in una vasca da bagno, no?
– Trovami qualcosa.
– Va bene. Ma non capisco perché. Mi sembra una perdita di tempo, ci hanno detto…
– Per favore, fai come ti dico.
– Va bene.
Giannino aveva accelerato troppo, premette il freno e tirò indietro la levetta del cambio sul volante per tornare in seconda. De Luca rabbrividí, perché, camminando sul cumulo di neve, si era bagnato dentro le scarpe. Guardò quelle di Giannino, lucidissime, quasi a punta, con una piccola fibbia argentata al posto dei lacci.
– Di chi hai detto che sono le tue scarpe?
– Roveri. È un negozio che le fa su misura, bravissimi. Oddio, il migliore di tutti sarebbe Fini, ma a quello non ci arrivo neanche, con il nostro stipendio, ingegnere.
– Ti piace vestire bene.
Giannino si strinse nelle spalle.
– Il cappotto?
– Boni. In via Ugo Bassi. Anche il maglione. La camicia invece è di Fiorini. Ma non su misura, già confezionata.
– Devi avere un gran successo con le ragazze.
– Non mi lamento.
– Fidanzata?
– Niente di serio.
Aveva di nuovo accelerato troppo. Frenò un po’ piú forte e l’auto sbandò appena, pochissimo, ma con la guida a destra De Luca si sentiva in mezzo alla strada e si aggrappò alla maniglia, d’istinto. Aspettò un po’, in silenzio. Anche Giannino, stranamente, se ne stava zitto.
– Che fai, stasera? – chiese De Luca, all’improvviso.
– Io? Non so, credo…
– Portami a sentire un po’ di musica, andiamo al Modernissimo.
Giannino lanciò un’occhiata a De Luca, ma abbassò subito lo sguardo sul dito che indicava i numeri stampati sul tabulato, quello chiamato dalla mansarda, sempre lo stesso.
– Farmacia Scaglianti. O la signora Stefania ha avuto un attacco di influenza o c’è qualcosa di strano. Andiamo a fare due chiacchiere con Aldino, suonano questa sera, no?
– Sí, sí, certo, – disse Giannino, e frenò ancora, perché di nuovo aveva accelerato troppo.
Sul volantino attaccato alla porta di una delle sale sopra il cinema-teatro Modernissimo c’era scritto «Alma Mater Dixie Jazz Band».
Erano in cinque, tutti in gessato scuro, a righe larghe, stretti su un palco rialzato in fondo a una stanza quadrata, resa piú piccola dal fumo e dal buio, ma anche piú grande dal fatto di essere quasi vuota. Suonavano concentrati, a occhi chiusi, come ipnotizzati, anche quando non soffiavano nel trombone o nella cornetta, ma c’era qualcosa di storto nella loro musica, qualcosa che zoppicava nel pianoforte che cercava di inseguire la melodia o nelle spazzole che raschiavano i piatti.
Se ne accorse anche De Luca e Giannino glielo confermò mentre andavano a sedersi in fondo, in un angolo, Vogliono scimmiottare la Magistratus, ma quelli sono eccezionali, questi invece fanno proprio schifo. Gli scappò un sorriso di compatimento, quando un biondino dalla faccia rotonda iniziò a soffiare nel sax.
– Se quello è il nostro Aldino, ingegnere, speriamo che faccia il farmacista meglio di come suona.
Poi arrivò lei.
Non l’avevano notata perché stava seduta su una sedia accanto al palco, nel buio, e neppure quando salí e si avvicinò al microfono ci fecero molto caso, distratti tutti e due dal biondino che suonava male il sax.
Ma quando iniziò a cantare I’ll Never Be the Same, Giannino voltò la testa di scatto, come per una scossa, e rimase un istante a bocca aperta, prima di mormorare Madonna bona, ingegnere, gli altri fanno schifo ma lei è bravissima.
Lo era, sicuramente, cantava con una bella voce morbida e profonda, e lo faceva in modo appassionato, protesa in avanti, le labbra che sfioravano il cilindro massiccio del microfono come per baciarlo, ma De Luca si era distratto a osservare un’altra cosa.
Carina, giovane, i capelli neri raccolti sulla nuca e un vestito, nero anche quello, che le scendeva dritto e sobrio appena sotto le ginocchia. Ma prima di tutto aveva notato la sua pelle scura, non cosí tanto da essere nera ma abbastanza da non essere bianca.
Faccetta Nera, pensò De Luca.
Quando finí di cantare, Giannino si lanciò in un applauso scatenato che si tirò dietro la gente sparsa sulle sedie della sala. La ragazza guardò nella sua direzione, una mano sulla fronte per schermare la luce di un faretto che illuminava il palco, poi soffiò un bacio sul palmo di una mano.
– La Lena Horne italiana, ingegnere, mi dia retta. O meglio, la Lena Horne bolognese, visto come pronuncia la lingua. Però brava, Dio bonino, brava, l’ha fatto tristissimo, questo pezzo, mi sono commosso.
Brava!, urlò Giannino e la ragazza sorrise. Cercò il consenso del biondino con il sax, quindi si alzò e si abbassò sui talloni per togliersi le scarpe, mentre quello schioccava le dita per dare il tempo agli altri. Sollevata sulle punte, perché al microfono non ci arrivava quasi piú, le mani strette all’asta per tenersi in equilibrio, seguí l’introduzione del brano con gli occhi chiusi, senza aprirli neanche quando cominciò a cantare.
– Stormy Weather, – sussurrò Giannino, – lo dicevo io, la Lena Horne bolognese…
Durò poco, però, perché alla fine della strofa il biondino fece un cenno alla ragazza, che raccolse le scarpe e scese dal palco, tornando alla sua sedia.
Giannino aspettò un po’, sempre piú insofferente, poi batté le dita sulla spalla di De Luca.
– Vedrà che alla fine vengono tutti giú al caffè del Modernissimo. Che dice, ingegnere, lo aspettiamo lí il nostro Aldino?
Aspettarono meno di un’ora, seduti a un tavolo accanto all’entrata, in modo da vedere se Aldino avesse tirato dritto sotto il portico, senza fermarsi al caffè.
I primi a scendere furono il pianista, il batterista e la ragazza, che rimase al bancone mentre gli altri si sistemavano a un tavolo accanto a un albero di Natale, razziando sedie da aggiungere a quelle che già c’erano.
– Me la dài una birretta veloce veloce? Mi aspettano a casa… – disse la ragazza al barista, poi si accorse di Giannino che le batteva silenziosamente le mani e gli soffiò un altro bacio sul palmo.
– La Lena Horne italiana, – disse De Luca, e lei sorrise. Bevve un sorso di birra, poi si avvicinò.
– Lo dice davvero? – chiese. – O è solo perché ho fatto Stormy Weather?
De Luca si strinse nelle spalle, senza sapere cosa rispondere, e lanciò un’occhiata rapida a Giannino.
– Lo dice davvero. L’ingegnere, qui, è un grosso impresario musicale, e se ne intende, mica ha detto Billie Holiday perché ha sentito I’ll Never Be The Same. Mi permette, però? Li ha fatti tristissimi… ovvio, malinconici lo sono, ma lei…
– Ho perso un amico, di recente, – disse la ragazza, e da come immerse le labbra nella schiuma della birra De Luca capí che non avrebbe aggiunto altro.
– Ingegner Morandi, – disse, tendendo la mano.
– Claudia.
– E io sono Giannino. Si siede un minuto con noi?
– Vorrei ma mi aspettano a casa.
– Ci piacerebbe sentirla ancora, vero, ingegnere?
De Luca annuí e Claudia sorrise.
– Con l’Alma Mater? – chiese, poi vide l’espressione di Giannino e sorrise ancora.
– Di solito è meglio, – aggiunse.
– Sbaglio o il sassofonista è un po’ geloso? – disse De Luca. – Come si chiama?
– Aldino, Aldo Scaglianti, è il capo della banda. E anche lui di solito è meglio. Comunque con l’Alma Mater non c’è niente in programma per un po’. Io canto al Dopolavoro Tranvieri per il veglione di Natale, il 25. Ma è un’altra cosa. Oddio, ecco il tram!
Fece ciao con la mano, poi si strinse nel cappottino, già rabbrividendo per il freddo che avrebbe avuto, e uscí fuori di corsa, verso il tram che si era fermato alla piazzola.
– Adesso ho capito, – disse Giannino. – È la negretta del professore… come la chiamava la lavandaia?
Faccetta Nera, pensò di nuovo De Luca, ma non lo disse.
– Faccetta Nera, – disse Giannino, e rise.
Poi, all’improvviso, impallidí. Si alzò, girando le spalle alla sala e prese De Luca per un braccio, tirandolo discretamente perché facesse lo stesso.
– Andiamo via, ingegnere, – sussurrò.
– Perché? – disse De Luca. – Dobbiamo aspettare…
– Paghi lei, ingegnere. Io l’aspetto fuori.
Non capiva. Aldino era appena entrato nel locale assieme al resto del gruppo. Stava piú indietro, con un uomo calvo e con gli occhiali, basso come lui, e intanto Giannino era già fuori, il mento infossato nel bavero del cappotto, affondato per metà nella sciarpa. De Luca lasciò cadere un po’ di spiccioli sul tavolino, accanto alla tazzina di caffè che aveva preso, e uscí.
Stava per dire qualcosa ma Giannino lo afferrò di nuovo per un braccio e lo tirò verso di sé, costringendolo a seguirlo dietro la colonna di un portico, quasi dentro la neve ammucchiata dagli spalatori.
Dal caffè erano usciti Aldino e l’uomo calvo, anche loro stretti nei cappotti per il freddo. Attraversarono la strada di corsa, verso una piccola Topolino nera, e ci saltarono dentro. Guidava l’uomo calvo, che partí in fretta.
– Allora? – chiese De Luca, impaziente.
– Allora l’ha visto che Aldino stava con un tizio, no? Lo conosce, lei, quel tizio lí?
– No.
– Ecco, e probabilmente neanche lui conosce lei, visto che è cosí nuovo. Però è possibile che conosca me, e se mi avesse visto avremmo mandato tutto a puttane, come dicono le persone bene educate.
– Perché?
– Perché quella tartaruga pelata è anche lui una spia, ingegnere. Si chiama Amleto Giorgini. È un collaboratore dei servizi di spionaggio russi.