23 dicembre 1953, mercoledí

Due ritagli di giornale.

– Due ritagli di giornale?

– Non ho trovato altro, ingegnere.

Due ritagli di giornale. Tutti e due del «Giornale dell’Emilia», a distanza di un giorno l’uno dall’altro, 20 e 21 ottobre 1953.

TRAGICO INCIDENTE SULLA FERRARESE, il primo, tre colonne.

DOMANI A FERRARA LE ESEQUIE DEL PROFESSOR CRESCA E DEL NIPOTINO, il secondo, due colonne e mezzo.

– Due ritagli di giornale!

– Ingegnere, ho fatto quello che ho potuto. Siamo sotto Natale, anche se lei non ci pensa. Anzi, guardi, non si faccia venire strane idee per domani, io torno a Firenze in famiglia, noi si fa la santa messa il 24 sera e il pranzo il 25.

Nel primo ritaglio c’era la dinamica dell’incidente, breve e tutta al condizionale. L’auto del noto professor Cresca con a bordo il nipotino di dodici anni avrebbe tentato un sorpasso azzardato che l’avrebbe portata a impattare frontalmente contro un camion che arrivava in senso opposto. Sia il professore che il nipote sarebbero morti sul colpo.

– Ora, mi è parso di capire che della santa messa non gliene importi un granché, ma se volesse venire a pranzo da noi il 25 è il benvenuto, davvero.

Il secondo ritaglio era quasi identico, ma virato all’indicativo. In piú c’erano i dettagli per il funerale, un accenno al bambino che il professore accompagnava a Bologna dopo una vacanza a Ferrara, e il nome del dirigente della Stradale che aveva compiuto i rilevamenti.

– Perché sorride cosí, ingegnere?

– Perché il destino ha un gran senso dell’umorismo. Portami alla caserma della polizia Stradale. Mancano due giorni a Natale, ci sarà ancora qualcuno, no?

Non era cambiato, il maresciallo Pugliese, era invecchiato. Piccolo, il naso a becco, i capelli radi lisciati indietro dalla brillantina in un ciuffo ricurvo sulla nuca, piú che un corvo adesso sembrava una cornacchia. Non tanto nero quanto grigio, il cappello, il cappotto, anche il volto, un po’.

Alla caserma della polizia Stradale di Bologna un agente con gli stivali e un cinturone stretto in vita come un torero aveva detto che il maresciallo capo era in licenza natalizia.

A casa di Pugliese, in piazza Santo Stefano, il portinaio aveva detto che il cavaliere era sicuramente sotto al portico accanto alla chiesa, a fumare un sigaro, lo faceva tutti i pomeriggi di festa, dopo mangiato, nonostante il gelo, come padre Marella che chiede l’elemosina anche sotto la neve, disse. E infatti si affacciò al portone e glielo indicò, Eccolo là, appoggiato alla balaustra tra le colonne con tutte e due le braccia, a osservare la piazza.

Quando Pugliese vide arrivare De Luca non lo riconobbe subito, perché lui sí che era cambiato, ma non ci mise molto, il tempo di corrugare la fronte e allargare le braccia, sorpreso.

– Commissa’, non ci credo… siete voi!

Si tolse un guanto ma non gliela strinse, la mano, la prese con tutte e due le sue, una nuda e calda, l’altra di pelle fredda e bagnata, e De Luca si lasciò andare a un sorriso cosí aperto che gli vennero le lacrime.

– Vi ho chiamato nel modo giusto? Siete ancora commissario, o mi sbaglio?

– Quasi. Però mi chiamano ingegnere. Ma non mi chiedete il nome del servizio perché non l’ho capito.

Giannino si era innervosito. Pugliese gli lanciò un’occhiata divertita e poi tornò su De Luca, lo sguardo ironico e quel sorriso sotto il naso adunco che adesso sí lo faceva di nuovo assomigliare a un corvo. Anche l’accento meridionale, sempre forte, sembrava aggiungere una nota sarcastica.

– Vi ho conosciuto comandante di una squadra politica, poi commissario della Mobile, poi vicecommissario della Buoncostume, – fece un gesto circolare con la mano, all’indietro, – e adesso mi siete diventato una barba finta. Come avete fatto a sapere che stavo qua?

– Siamo andati in caserma, prima…

– E vi hanno dato il mio indirizzo di casa?

– No, ma il ragazzo, qui, è bravissimo a raccogliere informazioni.

Un altro sguardo a Giannino, che era sempre piú nervoso, Pugliese sollevò il cappello, chinando appena la testa, poi si strinse nelle spalle.

– Siete venuto a offrirmi un lavoro, commissa’? Tra due settimane vado in pensione.

C’era un bastone attaccato alla balaustra di metallo del ponte, De Luca se ne accorse solo in quel momento e notò anche che Pugliese sembrava innaturalmente rigido.

– No, non è per questo. Ho un tendine leso da una pallottola che mi sono preso in Sicilia, quando stavo a dare la caccia al bandito Giuliano, ma per la scrivania vado ancora benissimo. È che mi sono stancato, e cosí ho approfittato di un’occasione, mi hanno contato il doppio gli anni della guerra, la collaborazione con la Resistenza, ci hanno messo su anche la ferita, ed eccomi qua.

– Faccio fatica a immaginarvi fuori dalla polizia.

– Anch’io a voi, commissa’.

Pugliese infilò la mano nuda nella tasca del cappotto e tirò fuori una scatolina di sigari toscani. La porse a De Luca, che scosse la testa, poi a Giannino, che fece lo stesso. Lui invece se ne accese uno, gli occhi stretti per il fumo acre del fiammifero sul tabacco.

– Siete venuto a salutarmi, commissa’? Se è cosí mi fa piacere, venite in casa che vi offro un caffè.

– Volevo parlare dell’incidente in cui è morto il professor Cresca.

Pugliese soffiò fuori il fumo, poi si tolse dal labbro una briciola di tabacco.

– Un brutto incidente, c’era pure un bambino. La 202 del professore si è incastrata sotto un vecchio Dodge del tempo di guerra, che piú che un camion è un carro armato. Morti sul colpo.

– Una 202, – disse Giannino, – uno di quegli spiderini coupé della Cisitalia, pericolosissimo.

– Infatti. Non ho molto da dire, commissa’, il caso se lo è preso la Stradale di Ferrara, questione di competenza. Io ho fatto solo le indagini iniziali, perché siamo arrivati prima.

– Sono appunto quelle che mi interessano.

Pugliese tornò ad appoggiarsi alla balaustra. Sembrava interessato alle dune di neve che coprivano la piazza davanti alla chiesa.

– Dicono che nevicherà ancora. Voi che ne pensate, commissa’?

De Luca annuí, perché aveva capito. Guardò Giannino, che aveva capito anche lui ma faceva finta di no. Ci volle un cenno della mano, sottolineato da un secondo piú deciso, perché Giannino sbuffasse, Vado a farmi un cinzanino, e attraversasse la strada, diretto al bar di fronte.

De Luca si appoggiò anche lui alla balaustra. Vide un mozzicone di sigaro affondato in un buco nella neve.

– Non mi ricordavo che fumaste, maresciallo.

– È una cosa nuova, infatti. Che volete sapere, commissa’?

– Tutto quello che c’è di strano in quell’incidente. Se c’è qualcosa di strano, ovviamente.

– Avete detto bene, se c’è. Perché non c’è niente di particolare, commissa’. Al professore piaceva correre, aveva lo spiderino che andava forte, ha cercato di superare una macchina e si è spiaccicato contro un camion che veniva dall’altra parte. La dinamica è chiarissima.

– Testimoni?

Pugliese alzò tre dita, il sigaro piantato tra le ultime due.

– Padre, madre e figlio che stavano sulla giardinetta davanti, quella che il professore voleva superare. Il figlio stava in ginocchio sul sedile posteriore e guardava dal lunotto, giocava a distanza con il nipote del professore, avevano piú o meno la stessa età. A momenti ci prendono di mezzo pure loro. E fortuna che c’era un motociclista, tra le due macchine, che se ne era già andato, se no quello se lo spazzavano via come una foglia –. Pugliese si strinse nelle spalle e scrollò la cenere del sigaro nel canale. – Tutto chiaro, commissa’.

– E allora perché avete quell’espressione, maresciallo? Anche se è un po’ che non ci vediamo, me lo ricordo quel mezzo sorriso.

– Quello che non torna è il camionista. Per carità, brav’uomo, incensurato, in regola con la patente e la licenza di trasporto, non è quello, commissa’. Dopo l’incidente era sconvolto, nemmeno a parlare riusciva, piangeva e basta. Abbiamo capito che era per via del bambino. Oddio, l’incidente era brutto comunque, la macchinetta si è infilata sotto il camion e praticamente… – fece un gesto con la mano guantata, di taglio, sotto il mento, – l’autista diceva che non era colpa sua, che gli era venuto addosso, le solite cose. Poi abbiamo tirato fuori il bambino ed è allora che ha cominciato a stare come un pazzo.

– Mi sembra naturale.

– Sí, e infatti non è neppure questo, commissa’. È dopo. Il caso era già chiuso, tutta la colpa al professore, neanche un giorno gli hanno ritirato la patente al camionista, ma quello dopo un paio di settimane viene a trovarmi in caserma. Era ancora sconvolto e ha detto che mi voleva parlare. Avete presente quelli che c’hanno qualcosa dentro, commissa’? Quanti ne abbiamo visti… vogliono parlare ma non ci riescono. Ecco, neanche lui ci è riuscito, se ne è andato, ma dalla faccia si vedeva benissimo che sarebbe tornato.

– Ed è tornato?

– No. Perché è morto. È caduto nella tromba dell’ascensore del suo palazzo, dal quinto piano. Ha aperto il cancelletto, ha fatto un passo ed è volato giú perché l’ascensore non c’era. Un guasto, succede.

Sempre quel sorriso ironico, sotto il becco. De Luca sospirò perché anche di quello si era ricordato, il modo teatrale con cui Pugliese raccontava le cose. Era come se dicesse Adesso arriva il bello.

– Che devo fare, Pugliese? Devo farvi una domanda?

– Chiedetemi a che piano abitava il camionista, commissa’.

– A che piano abitava?

– Al primo.

De Luca corrugò la fronte. Alzò la testa, e vide che su un terrazzo c’era un uomo vestito da Babbo Natale che si era tirato la barba finta sotto il mento e, schiacciandosela contro il petto per non sporcarla, mangiava un piatto di tagliatelle. Ma stava pensando, e se ne dimenticò subito.

– Non è che potete farmi avere il rapporto dell’incidente?

Pugliese soffiò sulla punta del sigaro, perché cosí a parlare si era quasi spento.

– Come vi ho detto, commissa’, c’è stato un conflitto di competenza, piuttosto inusuale, ma non importa. S’è preso tutto la Stradale di Ferrara che in un paio di giorni ha chiuso le indagini.

– Non vorrà dirmi che non vi siete tenuto una copia degli atti.

– Non ve lo dico, infatti. Ho un po’ di appunti battuti a macchina, l’interrogatorio della famiglia sulla giardinetta, poca cosa. Se li volete, volentieri… immagino che non possa spedirveli con una staffetta, vero?

De Luca stava pensando e non si accorse del sorriso. Guardava la neve.

– Passo io dalla caserma.

– Non ci sto piú in caserma, ormai sono fantasma, vado in pensione. E comunque me li sono portati a casa i documenti. Se venite su da me vi offro anche quel caffè che vi ho detto. Mia moglie è di qua ma lo fa bene lo stesso. Già che ci siamo ve la presento.

– È stato via tanto, ingegnere.

– Ho preso un caffè con un vecchio amico.

– Potevamo prenderlo insieme. In effetti sembrava davvero che vi conosceste da parecchio tempo. Lavorava con lui?

– È capitato un paio di volte.

– E poi?

– E poi abbiamo fatto una cazzata. È un termine tecnico della polizia, quando arriva qualcuno da fuori e si capisce che è per punizione si dice che sicuramente ha fatto una cazzata. Noi abbiamo arrestato uno che era meglio non toccare.

– Ecco, ingegnere, non vorrei che la facessimo anche noi, una cazzata. Ci è stato detto di indagare sull’omicidio della signora Cresca, no? E allora…

– È proprio quello che stiamo facendo.

Giannino non aveva ancora tirato la levetta dell’avviamento, era rimasto proteso in avanti verso il cruscotto per parlare, ma quando De Luca gli gettò i fogli sulle ginocchia si fece indietro. Aveva ricominciato a nevicare e cosí dovette accendere la luce sul tettuccio, e sollevarli, anche, per riuscire a leggere in quella penombra invernale. De Luca gli indicò il punto, un paragrafo scolpito dai martelletti della macchina da scrivere di Pugliese.

Era la testimonianza della famiglia sulla giardinetta e riguardava il bambino sul sedile posteriore. Giocava col nipote di Cresca che stava nella 202, sparavano entrambi con due dita alla persona che si trovava in mezzo a loro, su una motocicletta grossa. Secondo il bimbo della giardinetta loro erano i cowboy e l’altro un indiano cattivo. Ce l’avevano con lui per un motivo, un motivo preciso. Perché era brutto.

Aveva una faccia mostruosa.

– Una faccia mostruosa, Giannino. Una faccia di mostro.