24 dicembre 1953, giovedí

Sembrava assurdo, ma gli ricordava qualcuno. Anche disegnato da un bambino su un foglio di carta a quadretti, una linea quasi dritta a fare il mento, un’altra piú curva per il naso massiccio e quell’occhio piú basso, cosí reale e cosí stonato, sí, gli ricordava qualcuno.

De Luca aveva passato quasi tutto il 24 chiuso nella sua stanza alla pensioncina, a girare attorno alle fotografie sparse sul pavimento, solo il disegno era appeso al muro, e a sfogliare le pagine dei rapporti stese sul letto.

A parte la colazione fatta al bar sotto il portico, si era dimenticato di mangiare, e a un certo punto anche di riempire la stufetta, finché non glielo aveva ricordato il gelo della stanza, piú dal pennacchio di fiato freddo che gli annebbiava la vista che dai brividi che ogni tanto affioravano in mezzo a quella smania rovente che lo faceva vibrare di impazienza.

Se fosse stato come una volta, avrebbe convocato tutti in questura, uno dietro l’altro, anche i morti, in pratica. Li avrebbe interrogati a suon di domande, minacce, trappole, se necessario anche a schiaffoni. Non lui direttamente, c’era sempre il brigadiere giusto, quello che quando cominciava a togliersi la giacca i pregiudicati capivano subito e di solito non c’era bisogno di altro.

Adesso invece non poteva fare altro che camminare avanti e indietro tra quelle quattro pareti nude, come un leone in gabbia, a pensare, brandina, armadio, stufetta, sedia e ritorno, tappe cardinali del suo universo fisico. Ci fosse stato almeno Giannino a portarlo in giro, ma se ne era andato la sera prima, facendogli promettere che se avesse cambiato idea sul pranzo di Natale gli avrebbe telefonato a Firenze, Mi raccomando, ingegnere.

A un certo punto non ce l’aveva fatta piú a rimanere lí dentro a fissare impronte insanguinate di piedi nudi, il volto gonfio di Stefania Cresca o l’occhio obliquo di Faccia di Mostro. Era sceso a comprare una moka, perché sulla stufetta c’era un fornellino, ma a quell’ora era già tutto chiuso, cosí si era fatto prestare una napoletana dal portiere dell’albergo. E siccome aveva di nuovo cominciato a nevicare a falde grosse e silenziose, in un primo momento aveva rinunciato a uscire.

Però non ne poteva piú di stare lí dentro. E aveva già capito che non sarebbe riuscito a dormire come gli ultimi giorni. Cosí uscí lo stesso, il colletto del soprabito rialzato e stretto sotto il mento, sfruttando i portici, mangiò un sacchetto di caldarroste perché lo stomaco che brontolava gli aveva ricordato che aveva fame, rischiò di finire sotto un tram che non aveva visto e alla fine si ritrovò in piazza Maggiore, davanti alla cattedrale di San Petronio.

Entrò e si sedette nell’angolo dell’ultima panca in fondo, anche se era presto per la messa di Natale e la navata era quasi vuota. Lí, rannicchiato su sé stesso come un feto in quel silenzio umido, la smania un po’ gli passò e ricominciò a pensare lucidamente.

Poche cose, tra le tante che gli avevano ingolfato la mente. Le piú importanti, anche se ancora in ordine sparso.

Faccia di Mostro collegava la morte del professor Cresca a quella di Stefania. Era presente in tutti e due i casi proprio quando si erano verificati i fatti, e questa era una certezza.

L’incidente del professore era stato provocato, e per ucciderlo. Era solo un’ipotesi, ma concordava anche Pugliese.

Era un’ipotesi pure il coinvolgimento del camionista, che sarebbe stato bellissimo poter interrogare, ma era morto. Volando giú da un piano al quale non aveva nessuna necessità di salire, visto che c’era soltanto un terrazzo su cui le donne stendevano i panni, Pugliese aveva controllato. Era un’ipotesi che il camionista fosse andato in crisi perché nell’incidente aveva ammazzato anche un bambino, la cui presenza in macchina non era prevista, che volesse parlare per sgravarsi la coscienza e che lo avessero ammazzato per quello.

Ipotesi, va bene, che la sua esperienza e il suo istinto gli permettevano di considerare qualcosa di piú: piste da battere. A suon di domande, minacce, trappole e schiaffoni, se avesse potuto.

La gente aveva cominciato a entrare in chiesa per la messa. Cappotti, cappelli, sciarpe, pellicce riempivano piano piano la navata lunga di San Petronio con un brusio intenso che aiutò De Luca a calmare un nuovo sbocco d’ansia. Restò seduto sulla panca, invece di uscire, immerso in un mare di incenso, dopobarba, lavanda, colonia e neve, e ricominciò a pensare.

Faccia di Mostro diventava il principale indiziato dei due omicidi, dal momento che era impossibile che si trovasse lí per pura coincidenza.

Però, però però.

Come avesse fatto a uccidere il professore era una dinamica ancora da ricostruire ma piú o meno diretta e immediata. La signora Cresca, al contrario, l’aveva quasi torturata. Avrebbe potuto ucciderla strangolandola col filo del telefono o anche a mani nude, e invece a un certo punto aveva smesso di infierire e l’aveva costretta a sedersi, per scrivere qualcosa a macchina, lasciando l’impronta del piede scalzo sotto il tavolo. Questa non era un’ipotesi, neanche, era un mistero.

E poi c’era Aldino, collegato alla signora da tutte quelle telefonate e che se la faceva con i russi. E anche questa non era un’ipotesi, ma un mistero.

Immerso nei suoi pensieri De Luca non sentí lo scampanellio che annunciava l’inizio della messa, non si accorse neppure che la gente attorno a lui si era alzata per farsi il segno della croce. Restò lí, seduto, la schiena curva e le braccia strette tra le ginocchia, cosí assorto che se non fosse stato per la fronte contratta e le labbra serrate avrebbero anche potuto pensare che stava pregando.