26 dicembre 1953, sabato

Claudia.

Lo aveva detto davvero? O lo aveva soltanto pensato, risucchiato dal sonno come una spirale di fumo alla rovescia, un brandello di corpo dietro l’altro a friggere intorpidito nell’aria fredda del mondo reale.

Stava sognando di essere steso in mezzo all’erba, supino, sotto un mulino a vento, con le pale che giravano e lo colpivano sul petto, ma piano, senza fargli male, solo fastidio. Invece era Giannino che lo spingeva con le punte delle dita, per svegliarlo.

– Ingegnere? Per favore, ingegnere…

De Luca si alzò a sedere di scatto, strappandosi la coperta con un sospiro forte come un gemito.

– Piano, piano, ingegnere… sono io.

A De Luca ci volle qualche istante per riprendersi. Si passò la lingua sulle labbra secche, mettendo a fuoco Giannino che annusava uno dei due bicchieri che stavano sul tavolo accanto al pacchetto di sigarette e alla bottiglia di Strega. Il sorrisetto ironico che aveva all’angolo della bocca e la luce divertita negli occhi gli fecero pensare che forse l’aveva detto davvero il nome di Claudia.

– Che ci fai qui?

– Ho bussato tanto, ingegnere. Non riuscivo a svegliarla.

– Che ci fai qui dentro.

– Mi ha aperto il portiere con il passe-partout. Gli ho detto che credevo stesse male –. Giannino si strinse nelle spalle. – Ma non ce n’era bisogno. Perché crede che l’abbiano messa qui, ingegnere? L’albergo è nostro.

De Luca controllò l’orologio che aveva ancora al polso, si era addormentato praticamente vestito. Erano le sei del mattino.

– È successo qualcosa?

– È arrivato il capo. Il commendatore. È di passaggio da Bologna e ci aspetta al bar della stazione. Non mi guardi cosí, ingegnere, io sono partito da Firenze che era notte.

Non lo stava guardando in nessun modo, stava solo riflettendo.

– Aspettami fuori, mi vesto e arrivo.

Giannino uscí dalla stanza. Sulla soglia disse Passato bene il Natale, ingegnere, ma non era una domanda e, da come sorrideva apertamente, De Luca capí che sí, l’aveva proprio detto forte il nome di Claudia.

Il bar della stazione era vuoto, a parte loro e un cameriere che sonnecchiava, dietro il bancone. Anche le decorazioni natalizie sembravano dormire, cosí flosce e appannate.

– È nostro anche questo? – disse De Luca, perché sembrava quasi che l’avessero aperto apposta, ma il commendatore era troppo occupato a succhiarsi la crema di un Krapfen dalle labbra per averlo sentito.

Il commendator D’Umberto era un uomo imponente, con un paio di grandi occhiali da vista che gli facevano gli occhi rotondi dietro le lenti spesse. Si era tolto il cappello, il cappotto e la giacca per stare piú comodo, e nonostante si sporgesse in avanti, i gomiti aperti e la pancia schiacciata contro il tavolino di formica bianca, aveva lo stesso la cravatta coperta di zucchero.

– De Luca, ragazzo mio, siediti e prenditi un cappuccino. E prendine uno anche te, – disse a Giannino, che annuí e si appoggiò al bancone, visto che non era stato invitato al tavolino.

– Preferirei un caffè, – disse De Luca, ma il commendatore aveva indicato il cappuccino che aveva davanti e aveva alzato le dita a v, per ordinare al barista di farne altri due.

– Lo sai come la chiamano, qui a Bologna, la bomba? Bombolone! È proprio lo spirito bolognese… bombolone! – Lo disse gonfiando le guance, con una risata grassa che finí in un colpo di tosse. – Prendine uno, ragazzo mio, e prendine uno anche te, – a Giannino, – anzi, guarda, ne prendo un altro anch’io, – tre dita alzate.

De Luca rinunciò a dire che non lo voleva, il commendatore non lo avrebbe ascoltato e infatti stava continuando a parlare.

– Vado su per una rogna, sai quella ragazzotta che hanno trovato morta giú da noi, a Torvaianica, Wilma Montesi –. No, De Luca non sapeva, ma non aveva importanza e non lo disse neppure. – La guagliona si è sentita male a una festa con gente importante, qualche sciroccato l’ha scaricata in spiaggia ed è annegata, vabbe’, ma sta diventando una cosa antipatica e c’è gente a Milano che devo vedere e a me mi scassa sempre la uallera fare il viaggio di notte, con la cuccetta, sai che mal di schiena, – mano dietro e sguardo sofferente, – però questa sosta qui mi ha rischiarato la giornata, ragazzo mio, perché di bombe cosí… no, di bomboloni, – ne prese uno dal piatto che il cameriere aveva messo sul tavolino, – non ne avevo mai mangiati prima, sono i migliori di tutta Italia, complimenti! – E batté le mani al cameriere, piano, le dita di una contro il fondo del palmo dell’altra, per non schiacciare il bombolone.

– Ti devo ringraziare, figlio mio, – disse a bocca piena.

– Perché? – chiese De Luca.

– Perché ho fatto questa sosta a Bologna proprio per vedere te. Che mi dici della signora Cresca? A che punto stiamo?

– Siamo a buon punto. Abbiamo diverse piste. Ma c’è una cosa che…

– Chi l’ha ammazzata?

– Ancora non lo sappiamo, però è emerso…

– Hai detto che c’è un sospettato, no?

– Sí, ma…

– Sei il mio cane da tartufi, ragazzo mio, sei qui da cinque giorni, mi aspetto dei progressi, anzi, dei grandi progressi!

Il commendatore aveva finito il suo secondo bombolone. Si pulí le mani dallo zucchero sfregandole assieme, poi le alzò per mostrarle a Giannino, che si affrettò ad avvicinarsi con un tovagliolo.

– Ne abbiamo fatti di progressi, – disse De Luca. – E anche tanti. Uno particolarmente importante. Abbiamo trovato un collegamento tra la morte della signora e quella di suo marito.

Il commendatore guardò il bombolone destinato a De Luca, che stava ancora sul piatto. – Quello è un incidente, – mormorò. – Non ci interessa. Vogliamo sapere chi ha ammazzato la signora.

De Luca prese il bombolone. Non aveva nessuna intenzione di mangiarlo, ma il commendatore gli era stato antipatico fin dal primo momento che lo aveva visto.

– Ci sono prove evidenti che il professor Cresca è stato ammazzato simulando un incidente d’auto, e neanche cosí bene, tra l’altro. Scoprire chi lo ha ucciso è fondamentale per risolvere anche l’altro delitto.

Il commendatore smise di fissare il bombolone che De Luca stava facendo a pezzi con le dita. Guardò il suo cappuccino, intatto e rappreso.

– Non è che preferivi un caffè? – chiese. Fece cenno a Giannino, che tornò al bancone, poi si piegò in avanti, fissando De Luca attraverso le lenti massicce, due occhi rotondi, ingranditi dal vetro, che facevano ubriacare.

– Non ci interessa sapere chi ha ammazzato il professor Cresca, non ce ne frega proprio niente. Vuoi sapere perché, ragazzo mio? Perché lo sappiamo. Siamo stati noi.

Il commendatore si tirò indietro, incrociando le mani sulla pancia. De Luca era rimasto cosí interdetto che non si accorse neanche della tazzina di caffè che Giannino gli aveva messo sotto il naso.

– Noi? – disse, roco. – Come, noi… in che senso?

Il commendatore indicò sé stesso, poi fece un gesto circolare con il dito grassoccio che sembrava comprendere tutto, De Luca, Giannino, il bar, Bologna e il resto del mondo.

– Il nostro servizio, – disse, – noi.

– E perché?

– Perché ce l’hanno chiesto gli americani. Lo mangi, quello?

De Luca scosse la testa, istintivamente, e il commendatore prese il suo bombolone.

– Avevano paura che passasse con i russi, – disse, a bocca piena, – o che si facesse troppo gli affari suoi. C’è una guerra, ragazzo mio, la chiamano «fredda» ma è sempre una guerra e i cervelli come Cresca o stanno di qua o stanno di là, perché quelli di qua e quelli di là se li arruolano, li comprano, li ammazzano o se li portano via –. Allungò il labbro inferiore per intercettare una goccia di crema che stava cadendo. – La superiorità tecnologica è fondamentale, ma ha i suoi costi.

– Quindi anche il camionista, – disse De Luca, – cioè, siamo stati… – non riusciva a dirlo, ma il commendatore tagliò corto stringendosi nelle spalle.

– Dettagli.

– E il bambino.

– Un incidente, quello sí, che dispiace a tutti. Comunque, caso chiuso, protocollato, registrato, – batté il pugno sul piano del tavolino, – archiviato. Scordatelo, il caso Cresca, io voglio sapere chi ha ammazzato la signora. E lo sai, ragazzo mio, cosa voglio sapere soprattutto?

De Luca prese la tazzina di caffè perché aveva bisogno di qualcosa di forte. Era cosí sorpreso e smarrito che non riusciva a pensare. Il commendatore si sporse in avanti, inclinando il tavolino.

– Voglio sapere se siamo stati noi a fare anche quello.

De Luca rimase con le labbra aperte sul caffè, senza berlo. Mise giú la tazzina.

– Non capisco, – disse.

– Voglio sapere se quell’omicidio l’ha ordinato qualcuno del mio ufficio, o di un ufficio parallelo, o un ufficio concorrente, i russi, Babbo Natale, – indicò un abete decorato che pendeva in un angolo, – la Madonna o Gesú Bambino –. Sospirò. – Vedi, ragazzo mio, c’è una confusione tra noi, ma una confusione… una volta le cose erano piú chiare, ma adesso con tutte le leggi e le controleggi è diventato un casino… le cose si fanno e non si fanno, gli ordini li dài e non li dài… e ogni giorno c’è un gruppo nuovo che fa quello che gli pare. Tu lo sai com’era, non sei d’accordo che una volta era diverso?

No, pensò De Luca, era uguale, ma non lo disse.

– Io lo so che non ho dato quell’ordine. Oddio, ordine non è la parola giusta, non si dànno ordini cosí, mai. Diciamo che io so che non mi sono espresso in tal senso. Neanche l’avevo considerata la signora Cresca. Però, se qualcuno l’ha fatta fuori senza il mio… diciamo beneplacito morale, allora o si tratta di un eccesso di zelo o di qualcos’altro che non capisco e che perciò non mi piace, ragazzo mio. Già ci ho questa rogna della Montesi da pensare.

– Perché non glielo chiede?

– Chiedo cosa? A chi?

– Ai suoi… ai nostri. O agli altri uffici. Se hanno dato il… beneplacito morale all’omicidio di Stefania Cresca.

Il commendatore rise, un’altra risata grassa che si fermò appena prima del colpo di tosse.

– Conosco i miei polli. Hanno detto tutti di no, ma è normale. Lo sai cos’è la «smentita plausibile», ragazzo mio, è quando puoi dire sí o no e non c’è modo di sapere se è vero.

Guardò l’orologio e si alzò di scatto dalla sedia, con un colpo di reni insospettabile. Perdo il treno, disse, mentre si infilava la giacca e il cappotto, poi Mettimene un paio in un sacchetto, che li porto via, al cameriere, e In Austria li chiamano Krapfen, a Giannino.

A De Luca tese una mano ancora appiccicosa di zucchero.

– Trovami chi è stato, cosí io capisco chi l’ha ordinato e siamo tutti contenti. Fossero anche i russi, Babbo Natale o Gesú Bambino. Se no a che mi serviva un cane da tartufi, ragazzo mio?

– Il commendatore parla, parla… ma non sa mica nulla, ingegnere, nulla di nulla. Krapfen, bombe e bomboloni, non son mica la stessa cosa, hanno ricette diverse. I bomboloni, poi, non sono neanche di Bologna, sono toscani e non è vero che i piú buoni li fanno qui, i migliori li fanno a Montespertoli, che guarda caso è in provincia di Firenze.

De Luca fissò Giannino. L’inizio della frase lo aveva strappato dai suoi pensieri ma il resto lo aveva lasciato sconcertato, incerto se arrabbiarsi o ridere. Ridere per disperazione, non per divertimento. Giannino, invece, sembrava non essersi accorto di niente. Guidava rilassato con una mano sola sul volante, praticamente senza meta perché, quando erano saliti in auto dopo aver lasciato il commendatore, De Luca non gli aveva detto nulla, perso com’era a riflettere.

– Giannino, scusa, ma tu come sei finito a fare questo lavoro?

– La spia, ingegnere? Sono figlio d’arte. Mio babbo era nei Servizi di informazione dell’organizzazione Franchi, durante la guerra, col conte Sogno, i partigiani bianchi, badogliani, conosce, no? Magari ne ha anche arrestato qualcuno… comunque, mio babbo ha seguito il conte in diplomazia e a me mi ha fatto prendere nei Servizi. O intendeva questo servizio?

No, però gli venne in mente qualcosa che lo interessava di piú del curriculum del suo assistente.

– Perché il commendatore non si fida dei suoi? Che sta succedendo in questo servizio?

Giannino si strinse nelle spalle.

– Se non lo sa lei, ingegnere. Io sono solo un sottoposto.

– E io non sono proprio niente. Non mi prendere in giro, io sarò un cane da tartufi, ma tu sei un vero cane bastardo.

Giannino gli lanciò un’occhiata divertita.

– Davvero? Io credevo di essere un cane di razza. Guardi che è un conte anche mio babbo, se veniva a pranzo a Natale glielo presentavo. Ma mi sembra di capire che ha avuto altri programmi, ingegnere.

De Luca chiuse gli occhi e sospirò profondamente. Claudia gli tornò in mente all’improvviso scuotendolo con un brivido che non era di eccitazione.

– Alzo il riscaldamento, ingegnere? Dicono che oggi piove, farà meno freddo.

Poi Giannino abbassò la levetta della freccia e accostò a sinistra, fermandosi piú avanti per non coprire le rotaie del tram. Si girò sul sedile e appoggiò la schiena alla portiera, come De Luca.

– Allora, il commendator D’Umberto ha paura del suo vice, il dottor Elvani, che dirige l’Ufficio operazioni speciali… anche quelle molto speciali, può immaginare quali, ingegnere –. Batté il pugno chiuso contro il palmo aperto con uno schiocco che a De Luca strappò una smorfia. – Il commendatore sa che il dottore ha una gran furia di prendergli il posto. E sono anche due cose completamente diverse. Il commendatore è uomo degli inglesi, il dottore degli americani. Il commendatore è appoggiato dall’onorevole Piccioni, della vecchia Dc, il dottore da Fanfani, di quella nuova. Il commendatore è di Napoli, – dito in giú, – il dottore di Verona, – dito in su.

Giannino rise, ma De Luca restò serio, cosí serio che anche Giannino si rabbuiò.

– Mi è già successo una volta di trovarmi in mezzo a una lotta tra fazioni diverse dello stesso partito, – disse De Luca, – e per poco non ci lascio la pelle.

– Sí, ingegnere, lo capisco. Non mi piace neanche a me. Che facciamo?

De Luca si strinse nel soprabito perché a stare fermi la temperatura nell’auto si abbassava. Giannino fece per ripartire ma De Luca lo trattenne. In quel momento pensava meglio da fermo.

– Ci concentriamo sulla morte della signora. Il caso Cresca si è risolto da solo, il commendatore l’ha ordinato a questo Elvani che l’ha fatto eseguire a Faccia di Mostro. Movente: fedeltà atlantica. Tu lo sapevi.

Non aveva puntato il dito ma era come se lo avesse fatto. Giannino scosse la testa. Senza esagerare, deciso, con convinzione.

– No. Mi avevano detto di non occuparcene e immaginavo che ci fosse un motivo, ma non lo sapevo.

– Cristo, Giannino! Un ragazzino di dodici anni!

– Non siamo stati noi due, ingegnere. Non sono stato io. Io non c’entro nulla, faccio solo il mio mestiere.

De Luca annuí, deglutendo a fatica. Restò a lungo senza dire niente, la fronte appoggiata al vetro freddo del finestrino, lo sguardo perso sui mucchi di neve. C’era uno slargo dall’altra parte della strada, uomini in sciarpa e cappotto spalavano montagne bianche e compatte contro i muri delle case, raschiando i quadretti di porfido con il filo metallico delle vanghe. Il rumore arrivava fin dentro l’auto, irritante come un graffio su una lavagna. Poi si accorse che Giannino aveva parlato.

– Ho detto perché non gli ha raccontato di Faccia di Mostro.

– Perché molto probabilmente è un uomo di Elvani e se gli avessi detto che stava anche a casa di Stefania Cresca il commendatore avrebbe fatto due piú due e chiuso l’indagine.

– Appunto –. Giannino allargò le braccia, incassando la testa tra le spalle.

– Questa è la mia indagine, decido io quando si chiude e sarà quando scopriremo chi ha ucciso Stefania Cresca, come e perché. Non lo so se è stato Faccia di Mostro, ci sono troppe cose che non tornano.

Faceva davvero freddo. De Luca fece un cenno a Giannino, che tirò lo starter e girò la chiavetta per mettere in moto.

– Glielo ripeto, ingegnere: che facciamo?

– Abbiamo due piste. Una è Faccia di Mostro. Dobbiamo scoprire chi è. Lo puoi fare un controllo tra gli uomini dell’ufficio di Elvani? Con quella faccia non deve essere difficile individuarlo.

Giannino annuí, battendosi il palmo della mano sul petto, due colpi felpati dal cappotto color cammello.

– L’altra pista è Aldino. E con lui i russi.

– Con quelli non posso farci niente, ingegnere. Con tutti i comunisti che ci sono a Bologna hanno quasi piú diritto loro di stare qua che noi.

– Io però posso avvicinare Aldino. Lui è un musicista e io sono un impresario, no?

– Giusto.

Giannino guardò De Luca come se gli prendesse le misure.

– Con tutto il rispetto, ingegnere, ma l’Alma Mater è una jazz band di universitari figli di papà con la puzza sotto il naso. Si fidi di me, perché sono un figlio di papà anch’io. Lei messo cosí il massimo che sembra è uno sbirro di questura, altro che un impresario. Lo accetta un consiglio?

– Lo accetto.

– La porto da Boni e le rifaccio il guardaroba. Vestito, cappotto, sciarpa, camicia di Fiorini su misura, e anche il cappello da Malaguti. Le scarpe di Roveri possiamo lasciarle stare, ci vuole troppo tempo e vanno bene anche le sue. Poi, magari, si fa anche la barba.

– Va bene. Andiamo.

– Lo sa che ha un curioso concetto del tempo, ingegnere? Andiamo dove? È Santo Stefano, è tutto chiuso, e domani è domenica. O viene a passare il fine settimana a Firenze dai miei o la riporto alla pensione e ci vediamo lunedí.

Si era fatto portare alla pensione.

Era rimasto chiuso nella sua stanza per due giorni, uscendo solo per mangiare qualcosa, perché anche se non ne aveva nessuna voglia si sentiva svenire per la debolezza.

Aveva tre cose in mente, e se le portò anche dentro la notte, a lottare contro un sonno che non c’era.

La prima era quello che aveva detto Giannino.

Che non c’entrava con quello che avevano fatto gli altri. Che faceva soltanto il suo mestiere. Un altro ufficio, altra gente, altri compiti, altre mansioni, lui no, lui faceva solo il suo mestiere. Neanche dovere, che comporta comunque un’adesione, il suo mestiere.

Ecco, l’aveva detto tante volte anche lui, cosí tante che ci aveva fatto l’abitudine.

La seconda era la sua indagine.

Quell’ansia che gli troncava il fiato facendolo bruciare come se avesse la febbre. Sarebbe andato in giro per Bologna, anche di notte, a fiutare le strade come un cane da caccia.

La sua indagine. Il suo mestiere.

La terza era Claudia.

Ma era anche tante cose insieme. C’era la voglia di rivederla che lo turbava con uno smarrimento struggente, c’era un desiderio cosí forte da fargli male e c’era un brivido che un paio di volte lo fece sobbalzare per uno spasmo dei muscoli, incontrollabile. Non era eccitazione. Era quando gli tornava in mente quello che le aveva promesso.

Scoprirai chi ha ammazzato Mario.

Sí. È il mio mestiere.

Il suo mestiere.

Lo aveva scoperto, chi aveva ammazzato il suo Mario.

Ma non avrebbe potuto dirglielo.