Ma come fanno, pensò De Luca, come fanno le mosche a infilarsi nelle scene del crimine piú ermeticamente sigillate.
La mansarda dove era stata uccisa Stefania Cresca era come l’avevano lasciata l’ultima volta, porte e finestre chiuse, ma si sentiva ronzare nel buio prima ancora che Giannino accendesse la luce. Volavano sulle macchie di sangue nero e raggrinzito, rasenti al pavimento, e De Luca si chiese anche come facessero a sopravvivere in quel gelo umido, che continuava a puzzare di morte.
Giannino andò a spalancare le finestre senza chiedere il permesso e De Luca non lo fermò, ormai era trascorso abbastanza tempo da far pensare a chi passava fuori che il luogo non fosse piú sigillato. E comunque la luce serviva, quella limpida del sole del mattino ancora di piú di quella opaca delle lampadine.
Si erano divisi i compiti. A Giannino toccava spulciare le carte rovesciate sul pavimento e sul letto, con attenzione, una per una.
– Sappiamo cosa cercare? – aveva chiesto.
– No, – aveva risposto De Luca. – Ma adesso abbiamo abbastanza elementi per capire se troviamo qualcosa di importante.
Per sé, invece, aveva riservato quello piú creativo di immaginare cosa poteva essere successo in quella stanza, e questo lo riscaldava tanto da fargli dimenticare il freddo di un sottotetto a dicembre, anzi, quasi lo faceva sudare, ansimando piano tra i denti.
Lo aveva già fatto, di immaginare l’omicidio di Stefania Cresca, ma questa volta avrebbe sostituito Aldino a Faccia di Mostro.
Cosí chiuse la porta d’ingresso e ci si piazzò davanti, a braccia conserte, al centro di una linea spezzata che arrivava fin dentro al bagno, alla sua sinistra, fino alla vasca. Immaginò Aldino che bussava e lei che lo faceva entrare senza problemi anche se aveva fatto o stava per fare il bagno, visti i loro rapporti e le telefonate assidue degli ultimi due giorni. Che Aldino ce l’avesse lui, una chiave della mansarda, non cambiava molto.
Immaginò Stefania Cresca nell’accappatoio del marito trovato in quel trappolone da scapolo dove ci sono ancora le sue cose da uomo, quelle che odia di piú le ha buttate via, i preservativi nel cestino del bagno, i dischi di jazz fatti a pezzi, ma c’è dovuta andare di corsa in quell’appartamento, a nascondersi, chissà da chi e perché.
Bella donna, alta, i capelli rossi bagnati, scalza. Aldino davanti a lei, biondino, bassetto, la faccia da bambino e quelle mani piccole.
A un certo punto, immaginò, succede qualcosa, e si voltò verso l’angolo in cui si trovava la macchina da scrivere. Aldino la colpisce in faccia con la cornetta del telefono, le gira il filo attorno al collo, glielo stringe con quelle mani piccole, rovescia la sedia, lotta, e poi smette.
La costringe a sedersi al tavolino, a scrivere su quella busta, che poi lei strappa e butta nel cestino. Probabilmente, pensò De Luca, era rimasta su la levetta che porta i tasti a battere piú in alto, sulla banda rossa, e infatti, a guardarci bene, l’asticella di metallo che stava nella guida dentellata sulla sinistra era sporca di sangue.
Altra busta, allora, forse, ma perché proprio lei, seduta alla macchina da scrivere, a picchiare sui tasti? Perché poi deve firmare qualcosa e allora tanto vale che stia lí a scrivere tutto? Mezza strangolata, col sangue che le cola dalla testa e dal naso?
De Luca strinse le labbra in una smorfia dubbiosa, scuotendo la testa. Si mosse e seguendo le tracce insanguinate dei piedi nudi entrò nel bagno, fermandosi accanto alla raggiera di dita impressa proprio sotto la vasca. C’era odore di marcio, e mosche che ronzavano nella penombra, rimbalzando tra le pareti di formica bianca. De Luca accese la luce e immaginò Stefania che entrava di slancio, nuda, l’accappatoio caduto a terra o strappato da Aldino che le correva dietro, magari è lui che la spinge, poi giú, la testa nell’acqua, Aldino che la preme con il suo peso, tutto il suo peso sulla schiena, fino alla fine.
E dopo? Aldino perquisisce la casa, butta per aria ogni cosa, prende quello che è stato scritto a macchina, la busta nel cestino, quasi tutta, ne dimentica un angolo, va bene, ma prende anche i vestiti di Stefania. Perché? Perché è bagnato e sporco di sangue, non può uscire cosí e deve cambiarsi? Vestendosi da donna?
De Luca cercò di immaginarsi Aldino con gli abiti femminili rimboccati addosso e le scarpe da uomo, perché quelle di Stefania erano ancora là davanti all’armadio, se lo vide uscire cosí per via Riva di Reno e la cosa gli sembrò talmente assurda che gli venne quasi da ridere. Forse lo avrebbe fatto davvero, con la voce, anche, se Giannino non lo avesse chiamato.
– Venga un po’ qua, ingegnere!
Ci andò e vide Giannino seduto sul bordo del letto, le carte già esaminate ordinatamente disposte in una pila sul pavimento e in mano due foglietti.
Due ricette mediche, dello stesso colore di quelle trovate nell’auto di Giorgini.
– Dexedrina e benzedrina, ingegnere. Sono due anfetamine che aiutano a divertirsi. Vanno parecchio tra i giovani universitari goliardi e debosciati. E i musicisti, naturalmente, soprattutto i jazzisti esistenzialisti.
A De Luca erano tornati in mente i due ragazzi allampanati che non riuscivano a smettere di ridere, e anche a Giannino, perché glieli citò, era andato vicino a loro apposta, l’altra sera, perché gli sembravano strani.
– Sono intestate a Mantovani Stefania e guardi la firma del medico, ingegnere… potrebbe essere quella di un certo dottor Pirro?
De Luca prese le ricette e si avvicinò alla finestra per esporle meglio alla luce del sole invernale.
– Non corriamo troppo, – disse, – io vedo solo uno scarabocchio da medico su un timbro illeggibile. Però sí, queste sono come le ricette che stavano nel cruscotto della Topolino –. Contò sulle dita, collegandole con la punta dell’indice come con un filo. Amleto Giorgini, Stefania Cresca, Aldo Scaglianti.
– È ora che il nostro Aldino ci spieghi un po’ di cose.
La cantina in cui quelli dell’Alma Mater si riunivano a provare stava in un grande palazzo di via Saragozza, poco lontano dal Collegio di Spagna. Ci si arrivava dopo aver attraversato un grande cortile alberato nascosto da un pesante portone di legno.
Era una cosa che aveva sempre stupito De Luca fin dai tempi in cui dirigeva la Buoncostume di Bologna, che a vederla da fuori, dalle strade, sembrava una città di pietre, sassi e mattoni, la terra di porfido a cubetti e anche il cielo di intonaco sotto le volte dei portici. Poi si aprivano le ante di un portone e apparivano fiori, cespugli e alberi secolari, giardini grandi come piazze, foreste quasi, che attraversavano interi blocchi di case fino alla strada parallela. Aveva sempre pensato che se avesse sorvolato la città con un piccolo aereo, a bassa quota, l’avrebbe visto, tutto quel cuore verde tra i tetti rossi di Bologna. Forse si vedeva qualcosa già dalla torre degli Asinelli, quella piú alta delle due, ma non ci era mai salito.
Quando erano arrivati il portone era chiuso. Avrebbero potuto aspettare fuori, in macchina, ma anche se mancava un po’ alle dieci a De Luca non sarebbe dispiaciuto entrare. Piombargli addosso all’improvviso, se era già dentro, o sorprenderlo nel cortile quando fosse arrivato, avrebbe sicuramente spiazzato Aldino, rendendolo piú vulnerabile.
Era un palazzo di lusso, senza portinaio ma con una serie di campanelli collegati da un citofono. Giannino ne suonò alcuni finché il portone non si aprí con uno schiocco metallico. Entrarono in fretta e si nascosero sotto un albero, perché non li vedesse qualcuno dalle finestre che si aprivano sul cortile.
In fondo, oltre una siepe ancora coperta di neve, c’erano due portoncini, spalancati, uno dava su una scala che saliva e l’altro su una che scendeva, e quando li raggiunsero capirono dall’odore umido e forte che il secondo portava alle cantine.
Giannino bestemmiò, la c di cane cosí aspirata che sembrava un gemito.
– Ingegnere, sono proprio una fava. Ho lasciato le ricette in macchina.
– Sí, sei proprio una fava. Valle a prendere. Ti aspetto qui.
Osservò Giannino che si allontanava correndo sulla ghiaia ghiacciata, poi riportò lo sguardo allo scantinato, cercando di penetrare la penombra scura che lo riempiva come una grotta.
Era un corridoio largo, col pavimento lastricato sulla terra battuta, e c’erano porte di legno che si aprivano ai lati, alcune protette da grate di ferro. Quella dell’Alma Mater era una delle prime, lo si capiva dal manifesto del concerto al Modernissimo attaccato al muro accanto allo stipite. De Luca sorrise perché cosí gli era tornata in mente Claudia, ma non voleva farsi distrarre e allora scese i gradini della scala.
Aldino era già arrivato, perché la porta dietro la grata di ferro era socchiusa, ma De Luca non voleva entrare da solo. Due persone fanno sempre piú sbirro di una, lo sapeva bene, e lui voleva proprio spaventarlo, Aldino.
La porta all’altro lato del corridoio era chiusa soltanto dalla grata e si vedeva dentro. De Luca li aveva sentiti ancora prima di girarsi a guardarli, i salami e i prosciutti appesi alle travi del soffitto, tra le bottiglie di vino sistemate a piramide contro il muro. Un attacco improvviso di fame gli contrasse lo stomaco riempiendogli la bocca di acquolina. Come al solito aveva fatto colazione soltanto con il caffè ma adesso il desiderio violento di un panino gli faceva stringere i denti.
Appena finito di interrogare Aldino, si sarebbe fatto portare in una di quelle salumerie del centro, quelle con le affettatrici rosse grandi come ruote di camion, che tagliavano fette di mortadella che sembravano lenzuoli, e infatti quando sentí Giannino alle sue spalle disse Senti, conosci mica una, ma non fece in tempo ad aggiungere altro, perché non era Giannino.
Era Faccia di Mostro.
De Luca cercò di prendere la pistola ma arrivò soltanto a infilare la mano nella tasca del cappotto. Potente come una cannonata, il pugno lo raggiuse allo stomaco troncandogli il fiato di colpo e lasciandolo con la bocca spalancata a cercare di ingoiare aria, un attimo prima che il dolore lo piegasse in due. Una botta sulla nuca, secca come uno scapaccione, lo fece cadere in avanti attraverso le porte aperte della cantina, in ginocchio sul pavimento, dove in un conato marrone e schiumoso vomitò il caffè della colazione.
Si aspettava qualcos’altro, di piú, ne aveva paura, di piú ancora, terrore, un terrore che gli impediva di muoversi e di pensare anche piú del dolore pieno e rotondo come una lama che lo spaccava a metà.
Ma non successe niente.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo era rimasto lí, in ginocchio sulla soglia della cantina, le mani aperte sui tappeti che ricoprivano il pavimento e la gola che gli bruciava quasi come lo stomaco. A un certo punto sentí la voce di Giannino che lo chiamava, Ingegnere! Ingegnere!, dal corridoio, cosí riuscí ad alzare la testa e di colpo si dimenticò del dolore.
Davanti a lui, tra gli strumenti sui trespoli, la batteria sul piedistallo, le fotografie di jazzisti e i manifesti dei concerti appesi alle pareti, c’era Aldino.
Appeso a una trave, con il collo storto da una parte e la lingua fuori dalle labbra, graffiata tra i denti.
Aveva le ginocchia piegate perché con la punta dei piedi toccava per terra.
L’idea del panino con la mortadella era sfumata, bruciata dal reflusso gastrico, dalla visione di Aldino impiccato e da un pensiero che cominciava a farsi strada nella mente di De Luca, eclissando tutto il resto. Ce n’era anche un altro, ma al momento sembrava meno urgente.
Praticamente erano scappati. Le possibilità che qualcuno li avesse visti entrare dopo che avevano suonato il campanello erano alte e non c’era tempo di fermarsi a esaminare l’ennesima scena del delitto, o addirittura rimandare Giannino in macchina a prendere la Leica per fotografare Aldino, come De Luca avrebbe fatto normalmente. Se qualcuno li avesse sorpresi lí, con un altro morto, magari proprio la polizia, sarebbe stata la fine.
Poi c’era quel pensiero.
– Madonna, ingegnere, c’è mancato poco! Se le avesse dato una coltellata invece di un cazzotto! E io non c’ero!
Guidava veloce, Giannino, come se stessero davvero scappando da qualcosa. Nervoso, le nocche bianche da quanto teneva strette le mani sul volante dell’Aurelia. Niente piú sorriso da pubblicità, nessuna ironia, sembrava sul punto di mettersi a piangere.
– Lo sai, Giannino, – disse De Luca, – lo sai qual è il mistero piú grande di tutta questa storia? Sei tu.
– Io, ingegnere?
Era uscito fuori Porta, lungo via Saragozza, e si accostò a un caffè la cui insegna brillava accesa sotto un portico.
– Devo bere qualcosa, – disse.
– Stai cercando di cambiare discorso?
– No, ingegnere. Perché?
De Luca teneva la mano nella tasca del cappotto, sulla pistola, anche il dito sul grilletto. Guardò Giannino fisso negli occhi. Pensò che era incredibile quanto sembrava sincero.
– Come facevano a sapere di Aldino? Come facevano a sapere che ci saremmo incontrati proprio questa mattina? Era davvero alle dieci il nostro appuntamento? E perché te ne sei andato con una scusa, lasciandomi da solo con Faccia di Mostro?
Avrebbe contato le domande sulla punta delle dita, ma non poteva perché impugnava la pistola, spingendola dentro la tasca, verso Giannino. Gli avrebbe sparato attraverso la stoffa del cappotto se avesse fatto il movimento sbagliato.
Giannino invece non fece niente. Sembrava non essersi neppure accorto, della pistola, guardava De Luca con la bocca aperta, sempre piú sul punto di mettersi a piangere.
– Ma… – disse, – ma…
– Non mi prendere in giro. Ti hanno mandato qui per aiutarmi, ti hanno assegnato a me con l’incarico di spiarmi e di sabotare la mia indagine. Che fai, esegui gli ordini? O ti ricattano perché sei…
Alzò la mano libera ma la tenne ferma a mezz’aria, perché l’espressione di Giannino era cambiata. Gli occhi sí, sembravano sempre sul punto di piangere, ma le labbra si erano tese in uno dei suoi sorrisi ironici, non divertito, questa volta, un sorriso di rabbia.
– Perché sono? Perché sono cosa, ingegnere? Un invertito? Un culattone, un frocio, un sodomita? La parola che va di moda sui giornali è capovolto, a Bologna si dice busone, noi a Firenze invece si dice buco, – con la c cosí aspirata che gli venne da tossire. – Lei come dice, ingegnere? Che voleva fare con quella mano, cosí? – si sventolò il bordo di un orecchio con la punta delle dita. – O cosí? – spingendo in avanti il polso sotto il pungo chiuso, come uno stantuffo, e lo fece cosí forte che prese nel clacson, strappando un colpo di tromba.
De Luca sobbalzò sul sedile e mollò la pistola, perché stava per contrarre il dito sul grilletto. Non si aspettava quella reazione, soprattutto non si aspettava quel tono, cosí non disse niente e restò in silenzio, dando il tempo a Giannino di calmarsi un po’.
– Ma certo che mi ricattano, è ovvio! Non mi avrebbero preso se non fossi stato ricattabile. E lei? Per cosa crede che l’abbiano assunta, ingegnere, solo perché è bravo? L’hanno presa perché possono tenerla per le palle, come me! E guardi che non è un doppio senso.
Sorriso ironico, però di rabbia, perché si era calmato ma solo un po’. De Luca continuava a stare in silenzio. Abbassò gli occhi.
– E poi è ovvio che mi hanno incaricato di spiarla, Madonna bona, ovvio! Non si fidano di lei, perché dovrebbero? Il commendatore me l’ha detto chiaro e tondo, riferiscimi tutto quello che fa il commissario, stagli attaccato al culo, e questo non lo so se era un doppio senso –. Niente piú sorriso. – Solo che non l’ho fatto! Gli ho raccontato il minimo indispensabile, le scoperte piú banali, e da qualche giorno non mi sono piú fatto sentire. Aldino all’inizio faceva parte del minimo indispensabile, non sembrava cosí importante, ma non gli ho detto di Faccia di Mostro, non gli ho detto dei russi, non gli ho detto delle ricette. E non gli ho detto della ragazza. E lo sa perché, ingegnere?
De Luca scosse la testa, anche se era ovvio che Giannino non si aspettava una risposta. Infatti continuò, di slancio.
– Perché lei mi piace. Nel senso che mi è simpatico. Non si metta in testa strane idee, ingegnere, non è il mio tipo, è troppo magro e troppo vecchio. Però mi è simpatico, e mi fa tenerezza, e poi sono curioso anch’io di sapere chi è stato ad ammazzare la tipa, sembra un romanzo giallo. E, se mi permette il francesismo, sono stanco di essere tenuto per le palle e per una volta vorrei essere io a metterglielo nel culo, a quelli, – e aggiunse Scusi il doppio senso, ironico e anche un po’ divertito.
– Ma allora come facevano a sapere che questa mattina… – iniziò De Luca, ma si fermò subito, perché sapeva già la risposta.
– Il telefono, – disse Giannino. – Lo sa meglio di me, ingegnere, il mio babbo mi dice sempre che ai suoi tempi, e intendo i suoi di lei, ingegnere, quanti erano gli italiani sotto intercettazione? Be’, oggi magari sono meno, ma non sarà cosí diverso. Siamo stati due fave a chiamarlo a casa, l’Aldino.
Sí, pensò De Luca, sí, e si sentí molto stupido. Aveva chiamato Claudia dal telefono della pensione, forse ascoltavano anche quello.
– Andiamo, – disse, tirando la levetta della maniglia per aprire la portiera. Sapeva che gli avrebbe bruciato lo stomaco fino alle lacrime, ma aveva bisogno di un caffè.
Giannino prese una sambuca, che sorseggiò piano, perché ormai la voglia di bere qualcosa di forte gli era quasi passata.
– Sa, ingegnere, – disse con un sorriso che adesso non era piú di rabbia, ma neanche ironico, soltanto un po’ triste, – lo capisco che non si fidi di me, nel nostro mondo nessuno si fida di nessuno, ci mancherebbe, è normale. Quello che mi dà noia è che abbia pensato che volessi farla ammazzare. Glielo giuro, le avevo dimenticate davvero quelle ricette in macchina.
De Luca annuí. Non era bravo a parlare di certe cose come chiedere scusa o esprimere i sentimenti. Finse che non fosse successo niente, come faceva di solito in certi casi.
Cosí represse un rigurgito di caffè dallo stomaco ferito, strinse i denti e disse: – So chi è Faccia di Mostro.
– Hans Helmut Hase, – disse Giannino, e De Luca aggiunse: – Detto il Tedesco.
Appena gli aveva raccontato di aver riconosciuto Faccia di Mostro e aveva accennato a chi avrebbe potuto essere, Giannino aveva schioccato le dita. Poi si era fatto dare dal barista una manciata di gettoni e si era attaccato al telefono appeso al muro accanto alla porta del bagno.
Adesso che era tornato giocava con uno dei dischetti bronzo scuro che gli erano rimasti, lo faceva roteare sul piano del tavolino con un rumore sottile e fastidioso, che urtava i nervi. Ma De Luca era troppo interessato a quello che Giannino stava dicendo per farci caso.
– Mio padre lo conosce bene. Ci andava lui a raccogliere certi tedeschi che rischiavano particolarmente la pelle alla fine della guerra ma che sarebbero serviti dopo. SS, Gestapo, servizi segreti di Himmler… questo Hase l’ha tirato fuori da un armadio dove era rimasto nascosto quattro giorni, in un paesino fuori Milano.
De Luca annuí. Aveva conosciuto Hase quando era un ufficiale delle SS che faceva da collegamento tra le forze di polizia italiane e quelle tedesche nella zona in cui operava il gruppo di cui era parte anche lui.
Se lo ricordava, il Tedesco, anche se ancora non ce l’aveva, la faccia da mostro, perché non gli era mai piaciuto, non gli piaceva quello che faceva e neppure il modo. Era uno dei motivi per cui aveva chiesto di andarsene dalla polizia politica per passare a quella criminale, pensò.
Un pensiero rapido, un po’ perché aveva fretta di saperne di piú, su Hans Helmut Hase, e un po’ perché quella riflessione lo imbarazzava. Era cosí? O se ne era andato soltanto perché aveva paura anche lui di fare una brutta fine?
– Comunque, – continuò Giannino, – mio padre se l’è caricato su una jeep con la stella americana, sotto una coperta militare, e via. Prima l’hanno mandato in Germania, nel gruppo Gehlen, ma siccome le sua specialità erano piú i comunisti italiani che quelli della Ddr, l’hanno rispedito qui. Sotto falso nome, naturalmente.
– Per chi lavora? – chiese De Luca.
– Prima con gli inglesi, adesso con noi… nel senso di noi italiani: Sifar, Ufficio affari riservati, servizi vari… ma non è organico, è una specie di battitore libero.
– Di sicuro ha lavorato anche per noi, – De Luca lo disse con fastidio, quel «noi», – visto che ha ammazzato Cresca per conto dell’Ufficio operazioni speciali del nostro, – ancora fastidio, – servizio. Bisogna vedere se ha continuato con noi o con qualcun altro. Di certo non i russi, viste le sue idee politiche –. De Luca scosse la testa. – Questo è un intrigo tutto italiano. Si sa come è diventato Faccia di Mostro?
Giannino aveva cambiato gioco. Faceva roteare il gettone, ma invece di riprenderlo quando stava per fermarsi e girarlo di nuovo tra le dita, adesso lasciava che cadesse per vedere se si posava sulla faccia con la scanalatura centrale o su quella con la scritta «Teti» impressa nel bronzo. Era troppo anche per De Luca, che allungò una mano e lo prese.
– Si sa, – disse Giannino, malizioso. – Si sa. Al nostro amico tedesco piacciono le ragazzine, non le bambine, almeno quello… basta che sembrino giovani giovani, di primo pelo. Gli piace entrare dall’ingresso posteriore, non so se mi spiego, – Giannino si inclinò sulla sedia e si batté una mano sulla natica, un paio di volte. Poi si raddrizzò, perché era arrivato il barista con i caffè.
De Luca era cosí assorto che quasi non se ne accorse. Gli stava venendo un’idea, appena distratta dall’odore amaro dell’espresso.
– È stata una delle prime cose che ha chiesto quando l’hanno arruolato, ingegnere. Un sacco di soldi, un nome nuovo e una ragazzina ben disposta –. Giannino rise. – Lei non lo conosce mio padre, è un gran moralista, un puritano, ha sposato una dama di San Vincenzo, ma gli è toccato trovare una tizia che sembrasse una scolaretta e portargliela al rifugio in cui lo avevano nascosto –. Giannino si chinò sulla tavola, abbassando la voce, anche se non ce ne era nessun bisogno. – Il problema è stato quando si è arrivati al boccone del prete, – altri due schiaffetti sulla natica. – Alla signorina non glielo avevano detto, si è rifiutata, l’amico nostro si è arrabbiato parecchio e lei gli ha tirato una botta con un attizzatoio del camino. Gli ha spaccato la testa, un sopracciglio, lo zigomo, – Giannino si disegnò con l’unghia del pollice una riga che dai capelli scendeva fino alla bocca, – e cosí è diventato Faccia di Mostro.
– E la ragazza? – chiese De Luca, istintivamente. Ma lo sapeva. Giannino alzò le spalle.
– L’ha ammazzata –. Congiunse le dita a mezz’aria, come per stringere qualcosa, forte. De Luca corrugò la fronte, pensoso, poi prese il suo caffè. Era diventato freddo ma lo bevve lo stesso. Allungò la mano aperta.
– Dammi un altro gettone, – disse, – devo fare un paio di telefonate.
La prima chiamata la fece a un numero che sapeva a memoria.
Erano passati cinque anni ma dubitava che fosse cambiato e infatti quando sentí in sottofondo il picchiettare della macchina da scrivere, lento e scandito, da questurino che batte con due dita, capí che era quello giusto prima ancora che il piantone gli rispondesse.
– Squadra Buoncostume, comandi.
E anche Di Naccio era ancora lí, maresciallo adesso, come sentí urlare dal piantone che glielo chiamava, e poteva immaginarselo benissimo come allora, cravattino stretto, giacca floscia sulle spalle spioventi, la faccia lunga e triste, da questura, e il cappello sempre in testa, anche in ufficio, soltanto tirato un po’ piú indietro.
– Commissario! – gli disse, – commissario, che piacere! – E a sentirsi chiamare cosí, con quell’entusiasmo sincero, a De Luca venne un groppo alla gola.
Per la seconda telefonata, il numero dovette leggerlo dal foglietto su cui l’aveva scritto, perché non era mai stato bravo a ricordarli a memoria.
Si era preparato a una serie di squilli a vuoto, e anche un formale Buongiorno, scusi, per cortesia, sto cercando1, ma Claudia gli rispose subito, la voce cosí bassa e roca che lei sí, fece fatica a riconoscerla.
C’erano le macerie della guerra, anche se si vedeva che stavano sgombrando e che ci avrebbero costruito presto. La strada era nuova e bene illuminata dai lampioni, nonostante per il resto sembrasse di essere in campagna. Casolari, pergolati spogliati dall’inverno, cataste di legna, c’era una trattoria aperta, col fumo che usciva denso dal camino per perdersi subito nel cielo scuro della sera. «Ranocchi e pesce» stava scritto dentro un rettangolo tracciato direttamente sui mattoni, e dal rumore che c’era si capiva che era piena.
La casa di Claudia era subito dietro. Per arrivarci bisognava attraversare il cortile della trattoria, che adesso era coperto di neve, ma che d’estate doveva essere bello, con i tavolini fuori e quell’odore di grigliata che sicuramente arrivava piú forte. A De Luca venne anche fame, stranamente, e pensò che se Claudia non aveva ancora mangiato magari poteva portarla lí.
Venne ad aprirgli al portoncino di legno massiccio, De Luca sentí il paletto che scorreva negli occhielli, all’interno. Infagottata in un maglione di lana grezza, a collo alto, tirato su fino al naso, i calzoni di una tuta da lavoro troppo grande e un paio di calzini militari ai piedi. Si vedeva anche solo dagli occhi che aveva la febbre.
Lo tirò dentro, rabbrividendo per il freddo di fuori, e corse fino al divano che stava davanti al camino acceso, ci saltò sopra, infilando le ginocchia sotto il maglione. La stanza era grande, la cucina di un casolare di campagna con una scala che saliva al piano di sopra, e in effetti a parte la zona immediatamente davanti al fuoco il resto era ghiacciato.
– Stai male? – chiese De Luca.
– Non l’hai sentito dalla voce? Ho beccato il raffreddore… se no mica ero qui, stasera. Mi toccava andare in Romagna con l’orchestra di mio padre.
– Voce bassa e roca, molto sensuale.
– Sí, figurati. Per il blues, forse, mica per Bèla Bulagna –. Canticchiò A Bologna c’è tutto di bello, l’è dal mònd la piò bèla zité, ma la voce le si spezzò in un colpo di tosse. Però era vero che cosí morbida e profonda, e anche rotta, suonava molto sensuale.
De Luca andò a sedersi accanto a Claudia, che scivolò sul divano, rannicchiandosi contro di lui. Le mise un braccio sulle spalle, stringendola.
– Pensavo di invitarti a cena, – disse. Claudia indicò una pentola che bolliva sul fornello della cucina economica. Odore di brodo, indubbiamente.
– Non ti facevo uno che invita le ragazze a cena. Non mi sembra che ci dài molto, al mangiare.
– Ho sempre lo stomaco chiuso.
– Sono i cattivi pensieri.
– Sí, forse. Anzi, sí.
– Allora se mi vuoi invitare a cena c’è un motivo speciale. Cos’hai in tasca, l’anello? Ti metti in ginocchio e mi chiedi di sposarti?
Stava scherzando e De Luca sorrise.
– Sono venuto perché ci sono un paio di cose che voglio chiederti e altre che devo dirti.
– Ah sí? Credevo che fossi qui per vedere me.
– Quello sicuramente.
L’aveva detto con tanta istintiva sincerità che a Claudia sfuggí un sorriso, ma non divertito, come quello di De Luca prima, un sorriso felice.
Si alzò in ginocchio sul divano, lo prese per il bavero del cappotto e lo baciò, schiacciandolo indietro, contro i cuscini. Scottava di febbre, De Luca lo sentí quando Claudia si sfilò il maglione da sopra la testa e lui ne ebbe i fianchi tra le mani. Anche le labbra le scottavano, anche la lingua.
– Stai male… – disse di nuovo De Luca, ma lei scosse la testa.
– Non abbastanza.
Si era rimessa il maglione e teneva ancora le ginocchia sotto la lana grezza, ma adesso aveva le gambe nude, sollevate sul divano, ed era scalza. Soffiava su una tazza di brodo bollente. Anche De Luca ne aveva una tra le mani, e aspettava, lo stomaco gorgogliante, perché si era già bruciato la lingua.
C’erano solo le fiamme del camino a illuminare la stanza. Si riflettevano lucide sul viso di Claudia, arrossato dalla febbre, e le segnavano due ombre profonde sotto gli occhi, appena piú scure della sua pelle. Era bella comunque e De Luca immaginò che il suo, di volto, scavato in quel modo ma pallido come quello di un morto, doveva invece assomigliare a un teschio.
– Viviamo qui da subito dopo la guerra, – stava dicendo Claudia. – C’era già la trattoria e mio padre va matto per i ranocchi, quando ha visto che c’era una casa libera l’ha presa subito.
– Mai pensato di tornare ad Asmara? – chiese De Luca. Gli piaceva vederla parlare, sentirla, sí, ma anche vederla. Le labbra che si muovevano, scivolavano sui denti bianchi, la fronte che si corrugava in una piccola ruga tra le sopracciglia, quando si fermava a pensare, tra una frase e l’altra.
– Mio padre non ha mai voluto. Troppi brutti ricordi. I fascisti, le botte, la morte di mia madre.
– E tu? – Le piaceva vederla parlare di sé, quelle piccole rughe ai lati della bocca, quando stringeva le labbra.
– Io non ne ho di ricordi di Asmara. Ero troppo piccola. Cosa volevi dirmi? Hai trovato le prove che Stefania ha ucciso Mario?
– No. Lei non c’entra.
Claudia gli lanciò un’occhiata. Rapida ma intensa. Delusa.
– Anzi… probabilmente non si tratta neanche di un delitto. Probabilmente è davvero un incidente, ecco. Sí. Abbiamo trovato prove che… sicuramente.
Un’altra occhiata, sempre rapida e forte, anche delusa, ma con qualcos’altro dentro. Dispiacere. Sgomento, quasi.
– Cosí la tua indagine è conclusa. Hai finito il tuo lavoro.
Era per quello che era cosí triste? Perché allora lui se ne sarebbe andato?
De Luca appoggiò la sua tazza sul pavimento e si spostò sul divano, piú vicino a Claudia. Si abbottonò i calzoni, perché si sentiva ridicolo, e intanto pensava a cosa dirle. Non era mai stato bravo a esprimere i suoi sentimenti, ci aveva già riflettuto su questo, ma c’erano tante cose, cose che gli pesavano dentro come macigni, che lo strangolavano d’angoscia, fatti, bugie, ricordi, e non ce la faceva piú a tenerseli addosso cosí, come se niente fosse.
Non poteva raccontarle tutto, non voleva, ma almeno qualcosa. Non sapeva da dove cominciare.
– Senti, Claudia… io non sono un investigatore delle assicurazioni.
– Ah no? E cosa sei?
– Sono un poliziotto.
Claudia non disse niente. Fissava il brodo nella tazza come se non avesse sentito, le occhiaie scavate dal fuoco che sembravano ancora piú profonde. Soffiò, anche, un soffio roco che finí in un altro colpo di tosse.
– Io e il mio amico siamo poliziotti incaricati di seguire un’indagine. In incognito.
– Sulla morte di Mario? – sussurrò Claudia, con la voce cosí bassa che De Luca fece fatica a sentirla.
– No. Dimenticalo, il tuo Mario. Quello è stato un incidente.
Prima bugia, pensò De Luca, prima bugia che gli restava dentro.
– Sono qui per indagare sull’omicidio di Stefania Cresca.
Claudia annuí. Aveva gli occhi molto lucidi ma non sembrava che fosse soltanto il raffreddore. Tirò su col naso.
– Quindi, – disse, – non sei un impresario musicale e non sei un investigatore delle assicurazioni. Sei un poliziotto. E come ti chiami, davvero?
– Morandi, – disse De Luca, – commissario Morandi.
Seconda bugia. Pesante come la prima.
– E ce l’hai un nome, commissario Morandi?
– Giovanni, – disse De Luca, o almeno gli pareva. Era sui documenti ma non lo usava mai.
Claudia strinse la tazza cosí forte che sembrava volesse spaccarla tra le dita. Adesso me la tira in faccia, pensò De Luca.
– Sei un poliziotto… uno sbirro. E sei qui per scoprire chi ha ammazzato Stefania, – mormorò Claudia.
– E Aldino.
– Aldino? – Claudia avrebbe urlato di sorpresa se avesse avuto la voce, ma la raucedine gliela bruciò in gola. – Aldino… ma come… quando…
– Questa mattina, – disse De Luca. – Si è impiccato, ma non credo da solo. Domani sarà sul giornale.
Claudia lo bevve, il suo brodo, invece di tirarglielo. Una sorsata lunga, che le schiarí anche la voce, lasciandola ad ansimare, lo sguardo perso nel vuoto.
– Ma perché?
– È una storia complicata. Credo, anzi, sono sicuro che Aldino facesse affari con un dottore e un tipografo, che spacciasse droga attraverso ricette false e che c’entrasse qualcosa anche la signora Cresca.
– E l’hanno ammazzato per questo? Anche Stefania?
– Non lo so. Tu hai mai sentito niente del genere? Aldino, il tipografo Giorgini, il dottor…
– Aldino aveva sempre qualcosa per chi glielo chiedeva. Musicisti, soprattutto, studenti, amici… era un farmacista, no?
– Non me l’hai detto…
– E a chi dovevo dirlo? All’impresario? All’assicuratore? Al poliziotto?
Claudia affondò le labbra nella tazza, perché di nuovo la voce le si era spenta in gola quando aveva cercato di tirarla fuori con rabbia. De Luca fece lo stesso, bevve il suo brodo che gli scese nello stomaco ancora caldo, con un senso di benessere che non era per niente adeguato alla situazione. Lei, intanto, aveva ricominciato a fissare il vuoto con gli occhi lucidi, tirando su col naso. Si era anche allontanata, di poco, ma abbastanza per non toccarlo piú.
– Senti, Claudia, – disse De Luca dopo un po’. – C’è un tipo, grosso, che fa paura, noi lo chiamiamo Faccia di Mostro, perché ha un occhio, – fece il gesto. – L’hai mai visto uno cosí? Prima, adesso, in questi giorni… l’hai mai notato?
Claudia scosse la testa, senza dire niente. Fissò De Luca e dietro quel velo di lacrime, qualunque cosa fossero, c’era uno sguardo che lui non riuscí a capire.
– Vuoi che me ne vada, – le disse, e non era una domanda, già aveva cominciato ad allacciarsi una cintura, ma lei lo fermò con una mano sulle sue.
– Mio padre rientra domani e io non ci voglio stare, da sola, questa notte. Resta con me.
De Luca annuí. Lei tornò vicino a lui, rannicchiata dentro il suo cappotto, come una coperta, i piedi nudi sulla sua coscia, le gambe contro il suo petto e tutto il resto tra le sue braccia, una bambina.
– È tutta la vita che sto in mezzo alle cose false, anche quando sono vere. Sono Claudia e sono Franca, sono italiana e sono africana, canto il jazz e la filuzzi, mi tirano tutti da una parte e dall’altra e io mi ci perdo, non so piú neanche chi sono. Quindi, per favore, almeno tu, commissario Morandi, almeno tu, sii sincero con me. Mai piú bugie.
– Sí, va bene, – mentí De Luca. – Mai piú bugie.
Piú tardi, a letto, abbracciati sotto la trapunta che li copriva fino alle orecchie, Claudia si strinse a lui, bruciante di febbre. Parlavano, a lui piaceva vederla parlare tra le ombre di una candela, adesso. De Luca aveva nominato Aldino.
– Era uno stronzo anche lui, – mormorò Claudia. – Mi dispiace piú che altro per l’Alma Mater. Adesso sono per metà disoccupata.
– Che te ne importa. Stai per fare un disco.
– Sto per fare un provino, – disse Claudia, piano, dopo un attimo di silenzio.
– Andrà benissimo, – disse De Luca, anche quello cosí istintivamente sincero da strapparle un sorriso. – Sei bravissima. E sei decisa. Hai detto che sai quello che vuoi, no?
– E cosa voglio, secondo te?
– Vuoi essere una cantante di jazz.
De Luca la sentí annuire contro il suo petto. Poi la sentí sussultare, come per trattenere i singhiozzi. Stava per dirle qualcosa ma lei lo baciò forte, quasi con rabbia, schiacciandogli le labbra sulla bocca, roventi come il resto del suo corpo nudo.
Dopo, si addormentò subito, respirando piano e tranquillamente per gran parte della notte, come se il raffreddore le fosse passato.
De Luca restò sveglio fino al canto del gallo, la mattina presto.
L’aveva sentita piangere nel sonno, e questo gli aveva sciolto dentro una tenerezza struggente, che aveva diluito le sue angosce, ma non abbastanza da permettergli di addormentarsi. Si era innamorato di una donna alla quale non poteva dire che faceva parte di un’organizzazione che aveva ucciso il suo amico. Va bene, non lo aveva fatto lui fisicamente, non gli piaceva e non lo approvava neanche, ma per lei sarebbe stato lo stesso.
Adesso, come una volta.
Sarebbe bastato dire: «Sono un poliziotto»?