Doveva uscire a prendere aria. Dopo le prime due ore del mattino presto passate nella camera della pensione a studiare fotografie, documenti e appunti sparsi sul pavimento non ce la faceva piú a starsene rinchiuso come in gabbia, nonostante il caffè bollito sulla stufetta e quella smania febbrile di capirci qualcosa.
Cosí si vestí, lasciò il cappotto incrostato su una sedia e si infilò nel soprabito, una manica dopo l’altra, le braccia spinte in alto come per afferrare qualcosa sul soffitto.
Pensava, e pensando uscí, prese il primo portico e camminò, risalí la città immersa nel sonno del primo dell’anno, deserta e chiusa, sporca di tappi di bottiglia, cicche di sigaretta, coriandoli e neve pestata, girò per i vicoli e si fermò davanti a un vecchio che stava seduto su uno sgabello all’angolo di una strada. Vestito di nero, con un basco rotondo calcato su una sciarpa che gli copriva la testa, la barba bianca infossata dentro il bavero del cappotto, aveva un altro cappello sulle ginocchia, con una moneta dentro. Sembrava piú un prete, o un frate, che un mendicante.
Alle sue spalle c’era un negozio di gastronomia, chiuso, le vetrine sbarrate da una saracinesca a maglie larghe, che lasciava vedere una cascata di tortellini, rotondi e gialli come anelli d’oro, che copriva uno scaffale a cassettoni. Dietro, sotto una cornice di festoni argentati, prosciutti, mortadelle e barattoli di vetro pieni di sottoli. «Buone feste!» scritto a mano sul retro di un cabaret di cartone.
Il contrasto gli fece perdere il filo dei pensieri in cui era immerso. Fino a quel momento si era lasciato trascinare da impronte di piedi insanguinati, vestiti scomparsi, le scarpe sí ma il resto no, buste strappate, tasti premuti da un fantasma e poi lividi da strangolamento, acqua nei polmoni, caos, la porta aperta, i dischi rotti, Stefania Cresca nuda, rossa e morta sul pavimento del bagno della mansarda.
Poi, all’improvviso, era scomparso tutto e De Luca si sentí la testa leggera e frizzante come l’aria di quel mattino invernale a Bologna.
Si infilò una mano in tasca, raschiando la fodera con le dita e trovò una monetina. Stava per gettarla nel cappello dell’uomo, ma poi la rimise dentro, tirò fuori il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni e prese una banconota, la prima che trovò. La lasciò cadere nel cappello, l’uomo alzò gli occhi sotto le sopracciglia cespugliose e lo guardò per un attimo, mormorando quella che sembrava una benedizione. Era un prete, allora.
– Grazie, – disse De Luca. Inspirò l’aria col naso, quasi potesse ripulirgli il cervello come una ventata fresca da una finestra spalancata. Poi sentí lo scampanellare di un tram e gli venne un’idea.
Aveva fatto bene a tenere la monetina, la corsa costava proprio venti lire e cosí il tranviere con la borsa a tracolla che sembrava dormire in piedi non dovette dargli il resto.
Andò a sedersi in fondo, sull’ultima panca di legno, lontano anche dall’unico passeggero, un uomo con un berrettino a visiera calato sugli occhi, che lui sí, dormiva. Restò per un po’ con la fronte appoggiata al vetro freddo, a guardare distrattamente i portici che correvano fuori dal finestrino, assecondando l’ondeggiare che gli imponevano le accelerazioni del tram sui binari.
Poi cominciò finalmente a pensare.
Pensò per piste, in omaggio all’immagine dei binari.
La prima era quella di Mario Cresca.
Caso risolto. Ucciso da Faccia di Mostro su ordine del commendator D’Umberto e del suo vice, dottor Elvani. Responsabili del servizio per cui lavorava anche lui, ma su questo scivolò rapido, perché cosí da solo, nel silenzio che gli scorreva sotto, era una cosa che lo metteva a disagio. Movente: spionaggio, in un certo senso. Apparentemente nessun legame con la morte di Stefania Cresca.
La seconda era quella dell’autista del camion.
Caso risolto. Ucciso molto probabilmente da Faccia di Mostro perché c’era rimasto cosí male nell’aver provocato la morte di un bambino che aveva deciso di parlare.
La morte di un bambino.
De Luca ebbe uno scatto che gli fece battere la nuca contro le liste di legno dello schienale. Anche su quella cosa non aveva riflettuto con abbastanza intensità, e adesso, in quella mattina bianca e concentrata, gli risultò insopportabile. Si alzò e fece qualche passo tra i sedili, tenendosi alle maniglie che correvano sopra la sua testa, perché il tram stava curvando. Si era aggiunto un passeggero, un ragazzo con la faccia coperta di brufoli che sembrava ancora ubriaco dalla notte prima.
De Luca tornò a sedersi al suo posto in fondo, piú calmo. Evitò di pensare al bambino.
Allora, Faccia di Mostro, omicidio preventivo, probabilmente d’accordo con i committenti del servizio per cui lavorava anche lui – Non adesso, lascia stare – quantomeno con Elvani, se non addirittura con D’Umberto. Comunque, caso chiuso, nessun rapporto con la morte di Stefania Cresca.
L’autista del tram suonò il campanello e il controllore gridò Stazione! Capolinea! Si scende!
De Luca guardò fuori dal finestrino, erano fermi nel piazzale davanti alla stazione. Scese per ultimo, poi gli venne un’idea, un’altra, e risalí un paio di scalini, affacciandosi all’interno.
– Scusi, – chiese all’autista, – per le cave?
– Col tram? Fin lassú?
– No, prima… intendevo la zona. Dove c’è una trattoria che fa i ranocchi.
Per un attimo si sentí ridicolo, ma non ce n’era ragione, perché l’autista si illuminò.
– Via del Traghetto, – disse, – ma a quest’ora sarà chiusa.
– Non importa, devo andare lí vicino.
– Se prende il taxi fa prima.
– No, voglio stare su un tram. Va bene, lasci perdere.
– Il 31 barrato, quello che va giú per il ponte, poi lí cambia e prende quello per via Zanardi. Stia su perché è lunga, ma ci passa davanti, a via del Traghetto.
– Grazie.
– Se poi prende i ranocchi se li faccia fare fritti. Sono buoni anche in umido, ma là, fritti, li san fare da Dio.
– Grazie.
Il tragitto del 31 barrato era troppo corto per mettersi a pensare, e poi il cuore aveva cominciato a battergli, e non riusciva a concentrarsi.
Anche aspettare seduto sulla panchina della fermata in fondo al ponte lo distraeva, faceva freddo e c’era un uomo che cercava di mettere in moto una 500, che prima guaiva, poi abbaiava, poi tossiva e poi si fermava.
Soltanto quando arrivò un tram con sopra una enorme insegna del Campari De Luca capí che avrebbe potuto ricominciare le sue riflessioni.
Era vuoto anche quello, a parte una ragazza con un fazzoletto stretto sulla testa e una sporta di paglia sulle ginocchia. Aveva di nuovo le venti lire giuste, perché sul 31 si era fatto cambiare una banconota che il controllore aveva scrutato a lungo, controluce, prima di metterla nel borsello.
Non c’erano portici da fissare, solo alberi spogli e case isolate, perché la periferia lí sembrava già campagna, ma funzionò lo stesso. De Luca si afflosciò contro lo schienale, avvolto in quel tepore ondeggiante, e ricominciò a pensare.
Pista Aldino. Ucciso da Faccia di Mostro. Perché? Perché aveva deciso di parlare con loro. E cosa gli avrebbe raccontato? Del suo traffico di stupefacenti? Dei russi?
De Luca strinse le labbra, pensoso. Stava guardando dritto davanti a sé, senza davvero vedere, e non si accorse che la ragazza lo stava fissando anche lei, stretta alla sporta di paglia, spaventata, perché era proprio sulla traiettoria del suo sguardo. Si alzò, addirittura, e andò a sedersi piú vicina all’autista.
Comunque ucciso da Faccia di Mostro. Il tipografo, invece, ucciso da Aldino. Per sbaglio, in seguito a una discussione provocata da lui e Giannino a quella festa, tanto per smuovere le acque. Caso risolto.
Relazione con Stefania Cresca? Il traffico di stupefacenti.
L’aveva uccisa Aldino, la signora Cresca? L’aveva tenuta sott’acqua con le sue manine?
O era stato Giorgini?
O quel dottore, quello sulla busta e sul nastro della macchina da scrivere, il dottor Pirro?
O Faccia di Mostro.
E perché? Perché ucciderla, perché non portare a termine subito l’azione, perché costringerla a sedersi al tavolo con i suoi piedi insanguinati, perché rubarle i vestiti, perché, perché, perché.
Non c’erano piú piste da seguire, dopo la morte di Faccia di Mostro.
De Luca lo pensò al momento giusto, stava passando davanti alla trattoria dei ranocchi e se fosse stato ancora assorto nei suoi pensieri chissà dove sarebbe finito.
Era sceso dal tram con il cuore che gli batteva impazzito, bagnato da un sudore assurdo che gli si ghiacciava sotto il soprabito.
Aveva attraversato di corsa il cortile per bussare forte al portoncino di legno, pronto a qualunque cosa, a qualunque scusa, chiunque gli avesse aperto.
Ma non c’era nessuno.
Vide un uomo con un grembiule di gomma, un signore anziano con un paio di baffoni a manubrio ormai troppo sottili, e un’aureola di capelli bianchi. Era uscito dalla trattoria con una ramazza per sgombrare il cortile dagli ultimi resti di neve.
– Sa mica se… – iniziò De Luca, indicando il portoncino, ma l’uomo scosse la testa.
– Tutti fuori. La Franca e Paride. Sono via con l’orchestra.
– E sa mica quando…
– Un paio di giorni, tre… sono andati nelle Marche. La Franca non stava molto bene, Paride ha detto che la fa cantare poco perché presto ha il provino. Deve fare un disco, sa?
De Luca sorrise. Un sorriso sincero che sarebbe piaciuto a Claudia.
L’uomo si avvicinò lisciandosi i baffi con la mano aperta.
– La conosco, io?
– Non so, non credo, – disse De Luca, soprappensiero, perché aveva ancora in mente Claudia.
– Non l’ho già vista da qualche parte?
Campanello d’allarme. De Luca fece un passo indietro, come per andarsene.
– Forse. Sono venuto qui a mangiare… qualche volta.
– Davvero? Strano, perché sono uno di quelli che non si dimentica mai una faccia. Cioè, una volta, adesso quasi mai. Ha preso i ranocchi?
– Sí, – disse De Luca, un altro passo indietro, verso l’uscita del cortile.
– E come glieli abbiamo fatti?
– Fritti –. Un altro passo, ormai era fuori.
– La prossima volta che viene glieli do in umido. Sono buoni anche fritti, ma in umido, qui, li facciamo da Dio.
Quando tornò alla pensione era quasi sera. L’uomo dietro il banco della reception lo fermò che era arrivato alle scale.
– Deve chiamare il suo amico. Ha già telefonato cinque volte, – disse seccato.
– Grazie. Mi dà un gettone?
– Non ce l’ho, – seccato.
– Allora uso questo, – disse De Luca con la decisione della stanchezza, e l’uomo non osò replicare. Gli lasciò prendere l’apparecchio che aveva sul tavolo, che De Luca mise sul bancone per comporre il numero di Giannino.
– Ingegnere, finalmente! È tutto il giorno che la cerco, mi stavo preoccupando.
– Sono stato in giro, dovevo pensare. Che c’è?
Si capiva che smaniava, Giannino, anche senza vederlo. Doveva giocare con la rotella del telefono perché ogni tanto, per una frazione di secondo, la voce spariva.
– Ho due cose per lei, ingegnere. Da quale vuole cominciare, quella piú piccola o quella piú grossa?
De Luca sospirò. – Giannino, ma quanti anni hai?
– La piú piccola o la piú grossa?
– La piú piccola.
– Allora eccola. Ho lasciato una cosa per lei al portiere.
De Luca guardò l’uomo con aria interrogativa e quello capí subito. Tirò fuori da sotto il banco un giornale vecchio, piegato in quattro. De Luca lo osservò senza capire.
– Prima le spiego, – disse Giannino, al telefono. – La mia mamma dice sempre che non so fare niente in cucina, e in linea di massima ha ragione, però invece una cosa c’è: la ribollita. La minestra di pane alla toscana, ha presente, ingegnere?
– Giannino…
– Il segreto sta nel cavolo nero, che deve essere fresco. Qua non si trova, però la portinaia della casa dove sto quando lo trova me lo prende…
– Giannino, scusa…
– Cosí questa mattina, sullo zerbino del mio appartamento, ho trovato un bel cavolo avvolto in un giornale…
– Giannino!
– Gliel’ha dato, il giornale? È il «Giornale dell’Emilia» perché è di luglio e «il Resto del Carlino» ha ripreso il suo nome solo da un paio di mesi, però se guarda dentro, alla cronaca di Bologna… c’è andato, ingegnere?
De Luca sfogliò le pagine spiegazzate, tenendo la cornetta tra la spalla e la guancia, scomodissimo, e stava quasi per chiedere spiegazioni a Giannino quando la vide.
C’era una fotografia, nella cronaca di Bologna. Un gruppo di mondine che marciavano per la strada, affiancate e in riga, come un plotone militare, ma sorridenti. Ce ne erano due che tenevano uno striscione con sopra scritto: «Festa nazionale de l’Unità» come una bandiera. Portavano tutte cappelli di paglia e fazzoletti attorno al collo sulle camicette aperte, erano scalze e il fotografo le aveva prese dal basso, forse si era steso per terra, perché avevano gambe lunghissime che correvano fin dentro i risvolti dei calzoncini corti, si vedevano anche le piante dei piedi, sollevate, nere dei cubetti di porfido bolognese della strada.
La terza nella prima fila era Claudia e si capiva, dalla bocca aperta e dallo sguardo felice, che stava cantando. Era piú giovane, perché anche se il giornale era di luglio si vedeva che la foto risaliva a qualche anno prima. – È la sua ragazza, no? – disse Giannino. – Vero che è lei?
– Sí, – disse De Luca e mentre lo diceva si sentí stringere il cuore. Sorrise, per un momento, come un adolescente, pensò, ma smise subito.
C’era qualcosa che non andava.
Non capiva cosa, un fondo di angoscia, no, di rabbia, neanche: di paura.
Tutte e tre le cose insieme.
Perché, si chiese, ma non fece in tempo a rispondersi.
– Ora l’altra cosa, quella piú importante, – disse Giannino. Friggeva, entusiasta, gli scoppiava la voce nella cornetta del telefono. – E mi dica che sono stato bravo, ingegnere, ma per forza, con un maestro come lei, che vuoi fare?
– Giannino, per Dio!
– Abbiamo un’altra pista, ingegnere. Ho trovato il dottore.