– Ha studiato Medicina ma non si è mai laureato, per questo non riuscivamo a trovarlo. E non sta a Bologna, ma a San Giovanni in Persiceto, piú in su, a nord.
Giannino era ancora eccitato. Non riusciva a stare fermo sul sedile dell’Aurelia e sfregava le palme delle mani sul volante, come se volesse lucidarlo. Avevano parcheggiato in un angolo di piazza Verdi e guardavano una finestra al primo piano di un palazzo, poco sopra di loro. Il finestrino aperto dalla parte di Giannino si era mangiato tutto il tepore del riscaldamento, ma era per sentire il rullare di una batteria che veniva dalla finestra, aperta anche quella. C’erano un paio di studenti che si erano fermati sotto ad ascoltare e uno, una ragazza, schioccava le dita al tempo sincopato dei piatti e del rullante.
– Si ricorda quel negretto che rideva sempre, ingegnere? A casa di Aldino… ecco, diciamo che in questi giorni ci siamo conosciuti meglio, – Giannino era arrossito comunque, – e quando ci siamo visti ieri è saltato fuori questo dottor Pirro, amico di Aldino eccetera eccetera. Oreste Pirro, pensi un po’.
Dal palazzo uscí un signore anziano che mandò via gli studenti, gridò Basta con questa musica di bussolotti! verso la finestra, in dialetto, e poi rientrò. Dopo poco la batteria smise di suonare.
– Il nostro dottor Pirro è uno che mette a posto le ragazze che non sono state attente, non so se mi spiego.
– Aborti, – disse De Luca. – Hai questa curiosa abitudine di non chiamare mai le cose con il loro nome, Giannino.
– Mi scusi, ingegnere. Aborti, sí. Non so cosa c’entri questo con il nostro traffico, però…
– Glielo chiederemo.
– Giusto.
Dal palazzo uscí il ragazzo nero che stava alla festa da Aldino. Stretto in un giubbotto troppo leggero, un berretto di lana calato sulla testa riccia. Giannino aprí la portiera dell’auto e si sbracciò per farsi vedere, anche se non ce n’era bisogno.
– John! John, sono qua!
A parte qualche parola di italiano, le solite e distorte da un forte accento americano, John parlava solo inglese. De Luca lo capiva abbastanza mentre Giannino sembrava addirittura madrelingua.
In due avevano mangiato quattro porzioni di lasagne, piú parte di quella di De Luca, che si era fatto contagiare dall’entusiasmo ma si era fermato prima della metà. Leonida, il padrone della trattoria, un tipo simpatico con un farfallino sulla camicia bianca, era venuto a battergli le mani e a chiedere se volevano il secondo, e tutti e due, John e Giannino, avevano annuito con forza.
– Chiedigli come lo conosce, – aveva detto De Luca, dopo. Giannino aveva tradotto, a bocca piena, e John si era stretto nelle spalle, a bocca piena anche lui.
– Drugs, – aveva sussurrato. – Joint, – facendo il segno di fumare.
– Droga…
– Sí, l’ho capito. E dove sta questo dottore?
Giannino tradusse ancora e John si strinse di nuovo nelle spalle.
– Dice che sta a Cervia. Riceve in uno scantinato, la sera. Dalle otto in poi. Sa che questa sera deve occuparsi di una ragazza che conosce –. Ma lui non c’entra, aggiunse, malizioso.
– Chiedigli se qualche volta ha dormito nella mansarda. Che rapporti aveva con il professore e se ha mai conosciuto Stefania Cresca.
John scosse la testa mentre Giannino stava ancora traducendo, poi si affrettò a rispondere. Parlava a monosillabi e aveva smesso di mangiare.
– Ci ha dormito una volta e il professore lo conosce appena. La signora non l’ha mai vista.
– Sembra che sia spaventato, – disse De Luca. – Chiedigli perché.
John ascoltò, poi riprese a mangiare, gli occhi nel piatto.
– No. I’m not scared, – sussurrò.
– Dice di no, che non è spaventato. Vuole la mia, ingegnere? È un jazzista un po’ tossico e per di piú negro, e ha capito che noi siamo una specie di poliziotti. È normale che lo sia –. Gli mise una mano sulla sua, stringendola forte, e mormorò Don’t worry, no problem.
De Luca aspettò che Leonida tornasse per ordinare il caffè.
Intanto pensava.
C’era qualcosa che non tornava, anche se non riusciva ancora a capire cosa.
Il pomeriggio cominciò a piovere. Gocce di pioggia che bucavano i mucchi di neve come dita.
Giannino avrebbe voluto partire subito per correre all’indirizzo che gli aveva dato John, ma De Luca lo trattenne.
C’era tempo. Voleva sorprendere il dottore nello studio, con la ragazza, per avere maggiore capacità di pressione, bastava che partissero nel tardo pomeriggio.
E poi c’era qualcosa che doveva prendere. E che voleva fare.
Si fece portare alla pensione dove salí a prendere il faldone in cui aveva raccolto tutto il suo caso. Tirò fuori il nastro della macchina da scrivere con le lettere impresse sulla banda rossa e anche l’angolo strappato della busta che avevano trovato nel cestino della carta straccia.
Dottor Pirro Oreste. Oreste Pirro. Pirro dott. Oreste.
C’era qualcosa che non andava e De Luca restò a lungo ad analizzare busta e nastro, appoggiati sul suo letto. Poi prese la pagina di giornale che Giannino gli aveva lasciato alla reception, la sera prima, e si mise a studiare anche quella.
Claudia, giovane mondina, già partigiana, alla festa dell’unità.
Quella sensazione di angoscia, rabbia e paura tornò lentamente, e piú debole, ma piano piano arrivò.
Era diversa da quella che provava pensando al dottor Pirro, erano due cose che non quadravano, che lo rodevano dentro, che lo tormentavano con un fastidio appena controllabile, ma erano diverse.
De Luca pensò che la prima, quella che riguardava il dottore, l’avrebbe risolta nel giro di qualche ora.
La seconda, invece, quella di Claudia, De Luca si era convinto che fosse piú oscura perché riguardava proprio lui.
De Luca.
Era per questo, forse, che gli faceva paura.
Partirono che stava facendo buio, uscirono dal centro, si allontanarono dalle mura e imboccarono la Persicetana. Giannino aveva segnato il percorso su una mappa, con un lapis rosso, perché era una zona che non conosceva. La strada, poi, era male illuminata, e la pioggia fredda spazzata sul parabrezza dai tergicristalli non aiutava di certo.
Ma Giannino friggeva, entusiasta.
– Se per caso si rivela la pista giusta poi me lo dice che sono bravo, ingegnere? Se risolviamo il caso è merito mio, no? No?
– Sí, sí… vai piano, però, che c’è tempo.
Ma Giannino friggeva.
– Stia tranquillo, ingegnere. Questo qui non glielo ammazzo. Magari lei evita di farsi strangolare, cosí non devo sparargli!
De Luca sospirò, scuotendo la testa e gli venne anche da sorridere, assurdamente. Un ragazzino, un ragazzone, Giannino, con una pistola col silenziatore nel cruscotto, manipolato e sfruttato ma furbo, con gli scrupoli morali e l’allegria di un bambino. Che friggeva, adesso, per un giocattolo nuovo.
De Luca staccò la schiena dal sedile, trascinato da una frenata piú netta.
– Mi scusi, ingegnere… c’è quel bischero in motore davanti che mi fa impazzire.
De Luca lanciò un’occhiata oltre il finestrino, al buio che luccicava tra la pioggia e la luna e tornò ai suoi pensieri.
– E c’ha anche un Saturno 500 sotto il sedere, Dio bonino, e corri un po’, allora! Mi faccia il favore, ingegnere, se mi sta seduto cosí contro lo sportello si allacci la cintura.
Tre cose da pensare, mentre Giannino schiacciava i tasti dell’autoradio incassata nel cruscotto che aveva fatto montare il giorno prima, ma non si sentiva bene. – È stata colpa mia, soltanto colpa mia, d’amarti alla follia… tra un mesetto c’è Sanremo, ingegnere, lo so che non gliene frega nulla, ma io ci vado matto. Non mi lusingar, il romanzo finí1… oh, Madonna, questo bischero davanti!
Tre cose da pensare. Una stupida, una importante e una che non aveva ancora capito.
– Vabbe’, abbiamo anche la guida a destra e non si vede una fava, ed è pure una strada stretta… però che due maroni, come dicono a Bologna. Che si fa quando arriviamo, ingegnere, poliziotto buono e poliziotto cattivo, come nei film? Lei che sceglie? Io farei il cattivo…
Tre cose da pensare. Quella stupida: come era finito in quella situazione assurda, Cane da guardia, cane da caccia e cane da tartufo. Cane bastardo. Quella importante: perché far sedere Stefania alla macchina da scrivere, chiunque l’avesse uccisa. Quella che non aveva ancora capito: Claudia.
– Oh, finalmente!
De Luca guardò oltre il parabrezza, schiacciato sul sedile dall’accelerazione improvvisa dell’auto che Giannino aveva lanciato al sorpasso del camion. Nel buio lucido di pioggia vide il fanale posteriore della motocicletta che spariva all’improvviso, indovinò che c’era una curva, una curva stretta, troppo stretta, e pensò No!
Si aggrappò alla maniglia e piantò assurdamente i tacchi sul pavimento dell’Aurelia mentre Giannino bestemmiava, perché l’aveva vista anche lui, la curva, e non solo, anche un ponte subito dopo, e un’altra curva in mezzo, spezzata e innaturale come un gomito fratturato.
Intanto la 1900 li aveva chiusi a destra, attaccata al camion, e gli impediva di rientrare.
– Oh Dio! – gridò Giannino e piantò il piede sul freno, attaccandosi al volante e tirando verso di sé con tutte e due le mani, come se servisse a qualcosa. Per un attimo l’auto sembrò puntare sulla scarpata, ma ormai l’angolo di traiettoria si era già modificato.
– Mamma, no! – gemette Giannino, con una nota di pianto da bambino disperato nella voce mentre scivolavano sulla strada bagnata dritti sulla striscia bianca dipinta sui mattoni del ponte, proprio sull’angolo della spallina che chiudeva la curva.
Lo schianto li prese leggermente sulla destra, schiacciando il muso dell’Aurelia con un colpo cosí forte e secco che li proiettò tutti e due in avanti, staccandoli dal sedile.
De Luca aveva la cintura allacciata e la mano infilata nella maniglia che lo trattennero una frazione di secondo, impedendogli di sbattere con la faccia contro il parabrezza che Giannino aveva già sfondato, quando la spinta gli aveva fatto mancare il volante di qualche centimetro, sparandolo fuori dall’auto come un proiettile, oltre il cofano, oltre il ponte, giú, nel torrente che ci scorreva sotto.
Era già morto prima ancora di toccare l’acqua.