Aprí gli occhi con la sensazione di averlo già fatto prima, ma non ne era sicuro, perché quello che vide gli sembrava cosí nuovo. Il soffitto, il lampadario, la tenda alla finestra, bianca come il soffitto e la lampada, e il comodino di formica, il gesso che gli cementava un polso, anche le lenzuola, giú fino in fondo, troppo in fondo, tutto quel bianco, gli girava la testa.
De Luca tossí e una fitta gli bruciò le costole.
– Commissario… vi siete svegliato.
Pugliese era seduto su una poltroncina a sdraio di liste di plastica intrecciate, bianca anche quella, di fianco al letto. De Luca ci mise un po’ a metterlo a fuoco, ma lo aveva già riconosciuto dalla voce.
– Perché? – chiese. – Dormivo?
– Siete ancora un po’ confuso, commissa’. Chiamo la suora.
– Solo un momento. Sí, sono confuso. Dove sono?
– Ospedale Maggiore. Al traumatologico.
– Da quanto tempo?
– Tre giorni. Vi ricordate cos’è successo?
Sí, se lo ricordava, non l’aveva mai dimenticato. La frenata, lo schianto, la botta. No, invece, qualcosa sí, l’aveva dimenticata.
– Giannino! C’era un altro con me, cosa…
Pugliese scosse la testa. De Luca non disse niente.
– Chiamo la suora.
La suora chiamò il dottore, che fece scorrere un dito davanti agli occhi di De Luca, destra e sinistra, lo tastò strappandogli un gemito, gli schiacciò una mano sulla fronte per sentire se aveva la febbre, poi se ne andò, dopo aver detto qualcosa che De Luca non riuscí a capire.
Gli aveva spiegato che aveva avuto fortuna, che si era soltanto rotto un polso e incrinato un paio di costole, oltre a una commozione cerebrale che, visto l’incidente, era il minimo, poi De Luca aveva perso il filo. Aveva sonno, un sonno irresistibile, che gli pesava sugli occhi come una colata di piombo. Disse Sí e poi Sí, sí, senza sapere a cosa e neppure a chi, e un attimo dopo stava già dormendo.
Quando si risvegliò Pugliese era ancora lí.
– Quanto ho dormito?
– Niente, commissa’, pochi minuti.
– Pugliese… hanno cercato di uccidermi.
Pugliese si alzò, sforzando la gamba rigida, e andò a chiudere la porta della stanza, senza bastone, poi strisciò la sdraio piú vicino al letto.
– Lo so. Hanno usato la stessa tecnica con cui hanno ammazzato il professor Cresca. L’incidente è avvenuto sul ponte della Persicetana, che è una brutta doppia curva dove la gente ci si schianta anche senza aiuto.
De Luca cominciava a connettere, piú lucido. Annuí, senza muovere la testa perché gli faceva male.
– La Persicetana è di competenza di noi di Bologna, come Stradale. Un mio brigadiere ha visto dei tipi strani che si aggiravano sul luogo dell’incidente, ce n’era uno che si era infilato nella macchina quando ancora cercavano di tirarvi fuori, e cosí mi ha chiamato.
Pugliese inarcò la schiena, massaggiandosi le reni. – Non vi preoccupate per i documenti, le fotografie e tutto il resto, commissa’… ce li ho io.
Il maresciallo aveva la faccia di uno che avesse passato la notte in bianco, ed era vero.
– Avevo paura che venissero qui a finire il lavoro, commissa’, e non avevo mica tutti i torti, perché ci sono stati un paio di tizi con una brutta faccia che sono arrivati fino alla porta, ma poi mi hanno visto e sono tornati indietro.
Pugliese si batté la mano sulla giacca, dove si vedeva il rigonfiamento della pistola. – La vostra ce l’ho io anche quella, commissa’.
– Grazie, – mormorò De Luca.
– Di niente, figuratevi. E poi da ieri sono in pensione e non ho piú niente da fare. Si è fatto una notte anche Di Naccio, sapete?
– Grazie, – ripeté De Luca. C’era un’altra cosa che voleva sapere, ma non riusciva a dirla perché non aveva piú voce. Pugliese la capí lo stesso.
– Sí, è venuta una ragazza. Una donna giovane, scura di pelle, è rimasta un po’ a guardarvi dalla porta, poi se ne è andata. Le ho detto che non eravate cosí grave, ma piangeva lo stesso.
De Luca annuí, questa volta per davvero, e un’ondata improvvisa lo fece girare in un vortice aereo, impalpabile ma resistente. Chiuse gli occhi ma gli veniva da vomitare, cosí fissò lo sguardo sul lampadario, ma era peggio, perché aveva cominciato a girare anche quello. Allora strinse le palpebre, e piano piano il vortice si fermò, per diventare un gorgo lento e pesante, che lo trascinava a fondo di un sonno spugnoso, unto e denso, come impregnato d’olio.
Si addormentò di nuovo, proprio a metà di un sospiro.
La terza volta che si svegliò Pugliese non c’era piú.
Al suo posto, sulla sdraio di plastica intrecciata, c’era un uomo che non aveva mai visto. Magro, stempiato, con una calotta di capelli biondi, radi e cortissimi, che gli scendeva sulle tempie in un paio di basette larghe, come le protezioni per le guance di un elmo romano. Sedeva proteso in avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia, il volto tra le mani congiunte, aperte l’una contro l’altra, la fronte sugli indici e il mento sui pollici. Aveva anche lui gli occhi chiusi, ma nel momento in cui De Luca li aprí lo fece anche lui, come se lo avesse sentito. Erano azzurri, di un azzurro chiarissimo, liquido.
– Dov’è Pugliese? – chiese De Luca.
– Lí fuori, – disse lui, – può vederlo.
C’era, infatti, si muoveva nello spicchio della porta socchiusa. Sembrava parlasse con un altro uomo, che si intravedeva soltanto in sagoma, oltre il vetro smerigliato di un’anta.
L’uomo dagli occhi liquidi si alzò, si avvicinò come per stringere la mano di De Luca ma non lo fece.
– Elvani, – disse. – Finalmente ci conosciamo, dottore.
– Non sono dottore, – disse De Luca.
– E come è diventato commissario? C’è sempre voluta la laurea.
– Sono un ventottista. La leva dei funzionari del Ventotto faceva diventare vicecommissari anche senza.
– E lei era sicuramente cosí bravo che l’hanno presa subito. Primo incarico?
– Squadra Mobile.
– Infatti. Sa che mi sono stupito quando D’Umberto l’ha assunta nel Nostro Servizio? – lo disse come se fosse davvero un nome, con le maiuscole. – Di solito non prendiamo mobilieri, di solito i nostri vengono dalle squadre politiche… ma già, lei è stato tutti e due.
De Luca chiuse gli occhi. Quando si svegliava il mal di testa tardava un po’ a farsi sentire, ma quella volta era arrivato prima.
– Non credo sia qui per parlare del mio curriculum di servizio, dottor Elvani.
– In effetti no, dottor… come la devo chiamare? Ingegnere no, commissario neanche… De Luca, va bene?
Elvani spostò la poltroncina per avvicinarsi alla finestra, che era subito dietro. A De Luca era sembrato che ci fossero le tapparelle abbassate, ma no, la penombra grigia che c’era nella stanza era quella del pomeriggio che stava finendo.
– Vorrei farle una domanda, – disse Elvani.
– Rispondo solo al commendator D’Umberto. Il mio capo è lui.
– Non piú. Il commendator D’Umberto ha avuto un incidente. Oddio… – Elvani alzò una mano, – non mi fraintenda. Volevo dire un incidente professionale. Destinato ad altro incarico –. L’aveva detto imitando l’accento meridionale del commendatore, il suo era veneto, leggermente cantilenante e con le r appena arrotondate. Mosse la mano, come per spazzare l’aria. – L’affare Montesi prenderà presto una brutta piega per la parte politica che il commendatore serviva. Non è stato abbastanza bravo da impedirlo e finché non lo rimpiazzano con qualcun altro il capo sono io. Le faccio la mia domanda.
– Gliene faccio una io, prima. Siete voi che avete provocato l’incidente?
– Questo del ponte sulla Persicetana? Sí. Come anche quello del professor Cresca, ma già lo sa. Siamo responsabili anche dell’uscita di scena del camionista e del farmacista, ma immagino sappia anche questo.
– E di Giannino.
Elvani aggrottò le sopracciglia chiarissime, poi annuí.
– Oh sí, il suo giovane assistente. Anche lui.
– E il bambino.
– Il nipote di Cresca? Non sia ingiusto, De Luca, è stato un imprevisto.
– Un imprevisto, sí, – De Luca represse una smorfia di disgusto. – Esiste davvero un dottor Pirro a San Giovanni in Persiceto?
– Non lo so, non credo. Sapevamo che ne stava cercando uno e ce lo siamo inventato noi per farla andare su quella strada. Un’esca, insomma. L’amichetto del suo assistente si è prestato al gioco facilmente, e comunque non avrebbe potuto fare altro.
– Perché uccidere Aldino?
Di nuovo le sopracciglia aggrottate.
– Il farmacista? Perché aveva rapporti con i russi, aveva fatto da tramite col professore che volevano far passare dalla loro parte, inutilmente. Poi si era dedicato al traffico di stupefacenti con la signora e il tipografo. Giorgini falsificava passaporti per i russi, sarà passato alle ricette… – Elvani spazzò l’aria ancora una volta, come per mostrare disinteresse. – Certo, se avesse parlato con voi avrebbe sollevato un polverone piuttosto fastidioso per tutti per cui… credo che non sia dispiaciuto nemmeno ai sovietici.
Elvani sorrise. Parlava molto piano, con una voce piatta ma diretta. De Luca riusciva a sentirlo benissimo ma era sicuro che fuori dalla porta non arrivasse neanche una parola.
– Avete ucciso anche Stefania Cresca?
– No.
– Ma il Tedesco è andato alla mansarda di via Riva di Reno.
– Ovvio. I russi erano arrivati al professore tramite il farmacista e volevamo sapere se c’entrava qualcosa anche lei. La tenevamo d’occhio, e deve anche essersene accorta perché è andata a rintanarsi nell’appartamentino del marito. Hase la stava sorvegliando da un paio di giorni e quando è salito per controllare se fosse in casa ha visto la porta aperta ed è entrato, ma lei era già morta.
– E ha perquisito l’appartamento.
– Sí, ma non c’era niente di interessante. Per noi, almeno.
– Ha notato qualcuno entrare o uscire dal palazzo?
– Era appena arrivato, per questo era salito a controllare.
Elvani si sedette sulla sdraio. Accavallò le gambe e uní le mani aperte, polpastrello su polpastrello.
– Adesso toccherebbe a me chiedere. Avevo una domanda sola, ma temo sia superflua. Volevo chiederle se aveva scoperto chi avesse ucciso la signora.
– No. Non ancora.
– Non piú. Non interessa, non serve, a nessuno. Le revoco l’incarico, De Luca. E stia tranquillo, ho capito che è stato un errore cercare di farla uscire di scena. Non succederà piú.
De Luca avrebbe voluto alzarsi a sedere. Si sentiva a disagio, cosí steso, e gli faceva anche male, aveva messo la mano sana dietro la nuca per tenere sollevata un po’ la testa, ma era faticoso.
– Perché non dite mai le parole giuste? Uscire di scena, ma che significa? Uccidere, ammazzare! Giannino e gli altri, li avete ammazzati tutti!
– Li abbiamo, – disse Elvani. – Ma se preferisce cosí, va bene: li abbiamo ammazzati tutti. Tranne la signora Stefania.
De Luca sfilò la mano da sotto la nuca perché il collo gli si era irrigidito per la tensione. Fissò il lampadario, sforzandosi di vederci dentro il volto di Elvani, ma non gli bastava, cosí piegò la testa di lato, anche se gli faceva male.
– Faccia di Mostro, – disse.
– Prego?
– Il Tedesco, Hase… noi lo chiamavamo Faccia di Mostro.
– Oh, sí, – Elvani sorrise. – Credevo che si riferisse a me, stavo quasi per offendermi. Bel soprannome.
– Perché Faccia di Mostro? Ho sempre pensato che le spie, meglio ancora, i sicari, dovessero passare inosservati, e invece lui… e poi Aldino impiccato che tocca terra con i piedi, il camionista che vola giú nell’ascensore ma abitava al primo piano… cos’è, non era abbastanza bravo a far uscire di scena la gente? Perché tutti questi errori?
– Per gestire l’imperfezione.
– Per gestire…
– L’imperfezione. Mi spiego… – Elvani si sporse in avanti, quasi sul letto di De Luca che adesso lo vedeva bene. – Lo chiedo a un detective par suo… secondo lei il delitto perfetto esiste?
– No.
– Non sono d’accordo –. Elvani si batté la punta di un dito sulle labbra, sembrava piú un professore che qualunque altra cosa, qualunque altra cosa fosse. – Ma ha ragione, De Luca, non è esatto dire che il delitto perfetto esiste, è piú giusto dire che è quello che non esiste piú. Plausibile, spiegabile, comprensibile… un’uscita di scena perfetta, con tutti i dettagli a posto, si autoelimina, come se non fosse mai esistita, appunto. Ma a volte… – Elvani si sporse in avanti ancora di piú, sfiorava il letto di De Luca con i gomiti, – a volte qualcosa per proteggersi se chi ti ha dato l’ordine, un ordine che naturalmente non sta scritto da nessuna parte, ha la necessità di sacrificarti, oppure se hai bisogno tu di ricattarlo per ottenere un vantaggio, insomma, qualcosa da utilizzare serve. Un errore, un dettaglio sbagliato, un’imperfezione.
Elvani si tirò indietro, appoggiandosi allo schienale della sdraio, e annuí soddisfatto.
– Gestire l’imperfezione, sí.
Aveva gli occhi cosí chiari, con quell’azzurro cosí liquido, che ubriacava guardarli. De Luca lo fece solo per un attimo, poi chiuse i suoi. Non voleva piú vederlo, non voleva sentirlo, voleva dormire ancora, e cosí profondamente da dimenticare tutto. Sollevò il braccio sano e si coprí il volto, gli occhi infossati nell’incavo del gomito.
Elvani fraintese il suo gesto.
– La sorprende? Non le piace? Le fa schifo? – quando si arrabbiava la cantilena veneta si sentiva di piú. Sempre la voce bassa e diretta, quasi piatta, ma con le r piú scivolose.
– Non faccia la verginella, De Luca, c’è dentro fino al collo. C’è sempre stato. E non mi faccia la morale. Io non sono un maiale, un facocero venduto come D’Umberto, io non servo qualcuno, servo un’idea.
Lo sentí piú vicino, l’alito asciutto che gli accarezzava una guancia.
– Sí, De Luca, un’idea. Quest’Italia e questo mondo non ci piacciono, non ci piace come sono usciti dalla guerra, ma per adesso non si possono cambiare. Possiamo solo gestirli, con tutto quello che serve per farli rimanere cosí. Siamo i custodi dell’ordine.
– Cani, – mormorò De Luca dentro il braccio, – cani bastardi.
– No, – disse Elvani, – cani da guardia –. E da come lo aveva fatto De Luca capí che si era tirato indietro, e non era piú arrabbiato. Tolse il braccio dal volto, sbattendo le palpebre per riabituarsi alla penombra.
– Io sono un poliziotto, – disse, ma lo fece cosí piano che Elvani non sentí neppure. Si era alzato dalla sdraio.
– La saluto, De Luca, si riposi e si rimetta. E mi creda, il nostro Servizio non è piú interessato alla sua uscita di scena.
Quando Pugliese rientrò nella stanza trovò De Luca seduto sul letto, aggrappato al lenzuolo per non cadere di sotto.
– Maresciallo, per favore… aiutatemi a vestirmi.
– Scherzate, commissa’? Il dottore ha detto che per tre o quattro giorni…
– Quando un funzionario dei Servizi responsabile della morte di almeno quattro persone vi dice che potete stare tranquillo voi che fate, Pugliese, vi fidate?
Pugliese corrugò la fronte, poi si mosse e aprí l’armadietto, bianco anche quello come tutto il resto.
– Avete ragione. Vi aiuto a vestirvi.
Claudia.
Non era soltanto perché aveva paura per sé stesso che De Luca aveva lasciato l’ospedale cosí in fretta. Claudia non c’entrava niente con quella storia, non aveva nessuna relazione con i delitti, conosceva soltanto le persone coinvolte, ma conosceva anche lui, gli aveva parlato a un telefono che avrebbe potuto essere intercettato, e chissà cosa poteva passare nella mente di un assassino come Elvani.
E che la sua paura non fosse esagerata glielo confermò il maresciallo Pugliese, quando gli disse che per sicurezza, prima di cominciare a montargli la guardia in ospedale, aveva spedito sua moglie in vacanza al paese, giú in Meridione.
Quando arrivò in via del Traghetto con la vecchia Topolino del maresciallo e vide che davanti alla trattoria c’era un furgoncino 1100 con «Orchestra Paride Canè» dipinto a svolazzi sulla fiancata, a De Luca la testa girò ancora piú forte. Sarebbe saltato giú dalla macchina per correre dentro, ma dovette aspettare di riprendersi, camminando piano al braccio di Pugliese.
– Facciamo una bella coppia, commissa’, – disse il maresciallo, agitando il bastone.
La trattoria era piena e cosí densa di caldo, di gente e di fumo che a De Luca ci volle un po’ per abituarsi.
Claudia però non c’era. C’era suo padre, bretelle rosse, barbetta stretta sotto il mento, seduto su uno sgabello con un braccio appoggiato alla fisarmonica a tracolla, chiusa. C’erano gli altri musicisti, sparsi in giro, senza gli strumenti, e c’era il vecchio con i baffoni a manubrio, che ricominciò a fissarlo appena lo vide entrare.
Ma Claudia non c’era.
De Luca indicò Paride Canè a Pugliese, con un cenno del mento, perché lo aiutasse ad arrivare da lui. Il rumore, le voci, il fumo dei sigari e delle sigarette gli annebbiavano la mente e sentiva male a respirare, ma aveva fretta di parlargli.
– Ma sa che io l’ho già vista, lei lí, – disse il vecchio, che l’aveva seguito.
– Sono venuto qui l’altro giorno, – provò De Luca, senza molta speranza, e infatti l’uomo scosse la testa come per dire che non intendeva quello.
– Lo conosco anch’io, – disse Paride, – è un amico della Franca… cos’è che mi ha detto che è? Un impresario?
– Anche, – disse De Luca.
– Che le è successo?
– Un incidente. Con la macchina. Niente di grave.
– Si metta ben seduto che non mi sembra mica tanto in forma.
Paride fece un cenno al vecchio, che afferrò una sedia e l’avvicinò tirandola per lo schienale. De Luca si sedette, rigido, trattenendo il fiato. Appoggiò il polso ingessato all’angolo di un tavolo, perché a tenerla giú, sul ginocchio, la mano gli pulsava.
– Se è venuto per i ranocchi ha preso male, – disse il vecchio, – oggi è la serata del bafione. Lo sa cos’è, no? Il pesce gatto, noi qui lo facciamo da Dio.
– Sono venuto per Claudia… cioè, per la Franca.
– Allora ha preso male lo stesso, – disse Paride, – non vuole che si dica, per scaramanzia, ma a lei che è del mestiere… è andata a Roma. Domani c’ha un provino alla Ricordi.
Bene, pensò De Luca, con un sollievo che per un attimo gli fece passare tutto, mal di testa, fitta alle costole, lo rese anche piú lucido e quando lo disse – bene – riuscí a fingere di pensare davvero al provino per il disco.
– Ma bevetevi almeno un bicchiere di vino, lei e il suo amico, cosí brindiamo alla Franchina, che per carità, non ne ha bisogno ma male non fa di certo.
Pugliese ringraziò e si sedette accanto a De Luca, mentre Paride si sfilava la fisarmonica per tirarsi piú vicino, saltando con lo sgabello.
– Ne ha passate tante, quella bambina lí… per me è sempre una bambina, anche se è una donna fatta, ma si sa, i padri, no? In certe cose io l’ho sempre, come dire, un po’ ostacolata, ma non è che… oddio, quei figli di papà del jazz non mi sono mica mai piaciuti e se fosse per me la vorrei sempre dietro, perché so che quando è con noi nessuno me la tocca, nel senso che non ci può far del male nessuno, alla Franchina, e glielo dico proprio, signor?
– Morandi, – disse De Luca. Normalmente avrebbe avuto fretta di chiudere la conversazione e andarsene via, ma gli faceva piacere sentir parlare di Claudia.
– Ecco. Però, a ripensarci adesso, mi dispiace di averla cosí trattenuta, la mia bambina, voglio dire… – aveva gli occhi umidi, – ne ha passate tante da quando è morta la sua mamma, che era una bambina davvero, non come dico adesso, che è una ragazzona, insomma, ne ha passate tante che, boja d’un mond leder, se finalmente è venuto il suo momento se lo merita proprio la nostra Franchina. O no, Baffo?
Batté il pugno sul tavolo, rivolto al vecchio con i baffoni che aveva portato tre bicchieri tenuti con le dita dentro, e una mezzetta di vino rosso. Si vedeva che l’aveva fatto per non commuoversi davanti a tutti, e infatti la voce gli uscí un po’ roca.
– O no, cosa? – disse il vecchio, versando il vino nei bicchieri.
– Senta, – disse De Luca, – immagino che chiamerà presto… ecco, quando lo fa le dice di telefonarmi? È importante –. Stava per dare il numero della pensione ma Pugliese lo fermò e disse quello di casa sua. – Anzi… se mi sapesse dire dove posso chiamarla io…
Il signor Paride gli mise una mano sul polso ingessato, piano, senza scuotere come avrebbe voluto. Sorrise, furbo.
– Io lo so perché ha cosí fretta, – disse. – Ha paura che a Roma le fanno subito il contratto e addio! Guardi che dopo la Franchina non viene mica via a due lire, come noi vecchi poveretti –. Rise, e prese il bicchiere, per batterlo forte contro gli altri ancora sul tavolo.
– Alla Franchina, Dio bono! Che lo stenda secco, il dottor Pirro, va mo’ là!
Il signor Paride vuotò il bicchiere d’un fiato. Pugliese alzò il suo. De Luca restò immobile.
– Chi? – disse, con un filo di voce.
– Chi? – ripeté il signor Paride.
– Ha detto un dottore… il dottor Pirro –. De Luca aveva le labbra secche e quasi non riusciva a parlare. – Il dottor Pirro… chi è?
– Il funzionario della casa discografica che deve farle il provino. È lui che decide. Ma non brinda con noi? Non mi faccia pensar male, signor Morandi, non vorrà mica portar sfiga.
– No, – disse De Luca e ripeté No, no, perché non sapeva piú cosa dire. Batté il bicchiere contro quello del signor Paride e lo vuotò, in fretta. Pugliese lo fissava, senza capire.
– Si faccia un altro bicchiere e un bel bafione alla griglia, che ci sta bene, – disse Paride, e si alzò per prendere la fisarmonica.
In quell’istante il vecchio con i baffi a manubrio mise una mano sulla spalla di De Luca. Ce la mise pesante, stringendo le dita ad artiglio dentro la stoffa del soprabito.
– Adesso ho capito chi sei te, – ringhiò tra i denti. – Te sei un poliziotto. Sei un commissario, c’era la tua foto sul giornale, qualche anno fa. Ti chiami De Luca.
– Andiamo via, – gli sussurrò Pugliese all’orecchio. – Andiamo via, – piú forte, poi lo prese da sotto l’ascella e lo tirò su. – Commissa’, andiamo via! – e De Luca era cosí frastornato, cosí smarrito, che anche se le costole gli bruciavano e gli scoppiava la testa, non se ne accorse neppure, e lo seguí.
Quella notte, a casa di Pugliese, non dormí un minuto. E non solo perché il maresciallo aveva chiuso porta e finestre e teneva la pistola sul comodino.
De Luca passò la notte seduto sul pavimento del tinello, la schiena appoggiata a una gamba del divano, con tutte le fotografie e i documenti del suo caso sparsi attorno come i petali di un fiore. Autopsia, appunti di interrogatori, fotografie di un corpo morto, tracce di sangue e impronte di piedi nudi.
L’angolo strappato della busta, con quelle lettere, DOTT. Il nastro della macchina da scrivere, DOTT. PIRRO ORES.
Era contento che Pugliese avesse salvato il suo dossier, anche se contento non era una parola che andasse bene, per come si sentiva.
Lo provava fortissimo, quell’insieme di angoscia, rabbia e paura, ma questa volta sapeva di preciso da dove venisse. Ci aggiunse anche un senso di vergogna, tutto professionale, per non averci pensato prima.
C’era qualcosa che doveva fare.
Una conferma che poteva ottenere.
Non piú un indizio, una prova: sí o no.
Fece per guardare l’orologio, che però si era rotto nell’incidente, e comunque sul polso sinistro aveva il gesso. Le finestre del tinello erano serrate, ma tra le persiane si vedeva lo stesso che fuori era buio. Ancora buio di notte, non di mattino presto.
De Luca sospirò, inarcò lentamente la testa all’indietro fino a incontrare il cuscino del divano con la nuca e chiuse gli occhi.
Era stanchissimo, completamente esausto.
Ma non dormí.