CAPITOLO PRIMO

Lo straniero

Tarquinia, 651 a.C.
Otto anni dopo

Luchmon corse fuori dalla capanna nell’alba gelida e il freddo gli azzannò i piedi, mentre frantumava il sottile manto di brina che il sole appena sorto sull’Etruria faticava ancora a sciogliere. Rallentò per evitare di cadere e, pochi istanti dopo, udì il richiamo di Ekphantos che, ligio agli ordini di suo padre, voleva continuare la lezione quotidiana.

«Torna qui, ragazzo! Non abbiamo finito!»

In giardino trovò suo fratello Arunte, impegnato a esercitarsi con gli aruspici. Luchmon lo oltrepassò veloce, lasciandolo a rimestare con un bastoncino di legno le interiora di un coniglio da poco sacrificato.

«Ehi, non puoi scappare!» gli gridò dietro Arunte. «Nostro padre si arrabbierà.»

Ma quando terminò la frase Luchmon era già lontano.

Con poche falcate raggiunse il centro di Tarquinia. La città fremeva di vita, i germogli sugli alberi spandevano già l’odore della primavera e il vociare degli abitanti, dopo il rigido inverno, pareva un canto allegro. Tuttavia non si fermò.

Proseguì fino alla porta est, fuori dalla quale udì, poco lontano, gli schiamazzi degli amici; un richiamo molto più affascinante delle grida di Ekphantos. Corse a perdifiato fino a una piccola radura sulle sponde del torrente Larthe, il luogo segreto dove, con i compagni più fidati, programmava scorribande e organizzava giochi.

Gli altri erano già lì, ma purtroppo non erano soli.

I tre rampolli della famiglia Spurinna si erano seduti sul ceppo di legno sagomato che lui e i suoi amici consideravano il loro trono. Il legno era stato spezzato in modo da formare anche una sorta di schienale. Non mostravano la minima intenzione di volersene andare. Si davano delle arie di fronte al loro codazzo di amici, un gruppetto di idioti ossequiosi come una vera corte reale.

Ancora prima di conferire con i compagni, Luchmon valutò la situazione. Non erano Larcio e Leques a preoccuparlo, sebbene avessero tre anni più di lui. Il primo aveva un occhio storto che gli conferiva un’aria da idiota impossibile da camuffare, nemmeno fosse stato bello come il dio Aplu, figuriamoci su quella faccia da ceffo. All’altro, invece, non faceva difetto il fisico, bensì la testa: nessuno lo aveva mai sentito formulare un discorso che non fosse costituito da un grugnito, uno sbuffo o al massimo una parola bofonchiata tra i denti. Chi invece lo metteva a disagio con la sola presenza era il terzo cugino: Axile Spurinna, figlio di Thucer, lo zilath, ovvero il magistrato della città. Lui riuniva in sé una certa prestanza atletica, la capacità di persuadere e un’attitudine al comando che sfociava troppo spesso in pura prepotenza.

Luchmon gli invidiava solo i capelli, lunghi e lucenti come l’oro, mentre i suoi erano neri, ordinari come quelli della maggior parte dei tarquiniesi.

«Ecco il greco» lo accolse Axile voltandosi appena. «Ora la squadra dei pezzenti stranieri è al completo.»

Dal gruppo si levarono un paio di mugugni di protesta, ma nessuno ebbe il coraggio di replicare. I tre ragazzi agivano sempre così: sceglievano delle vittime con cui divertirsi, le provocavano fino allo sfinimento e poi godevano nel picchiarle senza pietà al primo accenno di reazione.

Luchmon li fissò con cattiveria, ma non suscitò timore, piuttosto la reazione opposta.

Axile scoppiò in una grassa risata. «Ehi, questo qui ce l’ha con me» disse, dando di gomito ai cugini. «Mette quasi paura! Che c’è, piccola canaglia, vuoi una lezione?»

«Quello è il nostro trono, abbiamo scelto noi questo posto» replicò Luchmon portandosi di fronte ai tre. «Dovete ridarcelo.»

Sospinti dalla sua audacia, i compagni gli si fecero vicini, una minuscola truppa disposta a triangolo con lui come vertice.

Axile si strinse nelle spalle. «D’accordo» concesse. «Ma prima devi battermi.» A rafforzare la sua affermazione si erse in tutta la sua statura, gonfiando il petto.

La truppa si allontanò di qualche passo e il triangolo si trasformò in un semicerchio: al centro Luchmon che, anche mettendosi sulle punte e tendendo il collo, arrivava giusto alle spalle dell’avversario. Incrociò al petto le braccia, filiformi come giunchi, evidenziando ancora di più la differenza con i muscoli guizzanti che già si notavano in quelle di Axile.

Si morse la lingua, come faceva quando era teso, poi iniziò a tremare. Fece per avanzare verso Axile, che lo incitava sogghignando, quando una mano lo ghermì sulla spalla.

Si voltò di scatto. «Arunte!»

«Sei impazzito?» sibilò il fratello tirandolo via. «Quello è il doppio di te!»

Luchmon si divincolò. «Non m’importa! Gliela faccio vedere io, così impara a fare il prepotente!»

«Nostro padre non vuole che litighi con gli altri ragazzi» gli ricordò il fratello cercando di abbassare i toni. Poi, sussurrandogli nell’orecchio, aggiunse: «Specie con i nobili. Non c’è da guadagnarci nulla a farseli nemici».

«Allora tu fai pure come lui! Ridi. Se ti prendono in giro, ridi. Se ti trattano male, ridi. E ridi anche se ti rubano il trono.»

«È un pezzo di legno…»

«È un simbolo di potere. Ekphantos dice che…»

«Ekphantos non sa tutto.»

«Di sicuro ne sa più di te!» concluse Luchmon voltandosi di nuovo verso Axile.

Arunte allargò le braccia. «Fa’ come ti pare» sbuffò mettendosi in disparte.

Luchmon strinse i pugni e digrignò i denti fino a farli scricchiolare. Lo sguardo di Arunte alla fine fece breccia, come sempre. Gli infuse calma, lo portò a riflettere, fino a fargli capire che aveva ragione. Essere impulsivi, come diceva sempre anche Ekphantos, spesso equivaleva a essere stupidi. Proprio come rischiava di dimostrarsi lui in quell’occasione.

«Va bene, Axile, tienitelo pure.» Luchmon si voltò e fece per allontanarsi. «Se ti rende così felice…» Mosse due passi in direzione opposta e gli amici gli si fecero di nuovo vicino. Intanto si erano radunati altri gruppi di ragazzini, curiosi di vedere come sarebbe andata a finire.

«Il solito codardo!» tuonò Axile alle sue spalle. Intorno molti risero, infiammando la prepotenza di quel gradasso.

Il sasso lo colpì un istante dopo.

Il dolore gli esplose nella nuca e per un attimo fu tutto buio. Nessuna traccia degli Spurinna, degli amici o dell’ambiente circostante, solo una sorta di vuoto troppo simile al cielo notturno. Quando tornò la vista, Luchmon allontanò da sé la rabbia e si obbligò a restare lucido. Accarezzò la ferita con le dita, che subito si bagnarono di sangue. Il buonsenso gli suggeriva di correre a casa a medicarsi, tuttavia comprese che non era quella la cosa giusta da fare: doveva battersi, non aveva scelta, o avrebbe perso il rispetto di se stesso e di tutti gli altri.

Con i pugni stretti e le braccia in posizione da combattimento tornò a fronteggiare Axile.

La folla di giovani si ricreò all’istante, dividendosi in tre schiere: quelli più grandi e i nobili si portarono alle spalle degli Spurinna; i bambini, i figli di schiavi e i plebei presero posto sul lato opposto della radura. Chi, invece, non aveva interessi particolari ma era spinto da semplice curiosità rimase a metà, senza scegliere nessuna delle due fazioni.

«Vediamo cosa sa fare questo figlio di una traditrice» disse Axile al suo pubblico che, in tutta risposta, lo incitò.

«Mia madre non era una traditrice!» replicò Luchmon. Lei era morta tre anni prima, nell’infausto tentativo di dare alla luce un altro figlio. Era stata una donna affettuosa e piena di attenzioni. Purtroppo i ricordi piacevoli erano preda dell’incedere del tempo, che li faceva sbiadire con facilità, cosa che non accadeva mai con quelli dolorosi.

«Ha sposato un greco, si è mischiata a un’altra razza» proseguì Axile. Slacciò la fibula in oro che teneva fermo il mantello, lo ripiegò e lo consegnò a Larcio, rimanendo con il solo gonnellino. Sembrava ancora più grosso, così. «Forse hai ragione. Forse era solo una puttana.»

Questa volta la lingua di Luchmon sanguinò e un sapore acre gli pervase la bocca. Gettò a terra il mantello e l’umidità gli aggredì il torace, ma la respinse lasciando spazio solo alla furia.

«Mia madre non era una puttana!» gridò lanciandosi all’attacco.

Il pubblico proruppe in un urlo di approvazione.

Axile sferrò un pugno poderoso ma lento e scontato, che Luchmon schivò d’istinto, senza difficoltà. Si abbassò e passò oltre di slancio, quindi mollò un calcio alla gamba del nemico e si allontanò di qualche passo, dolorante: aveva scoperto suo malgrado che lo stinco dell’avversario era più duro del suo piede.

Iniziò a girare intorno zoppicando, mantenendosi a distanza di sicurezza, come aveva visto fare ai combattenti in difficoltà.

«Ha paura» lo schernì Axile rivolgendosi ai presenti con un sorriso beffardo.

La provocazione lo indusse a scattare ancora.

Il possente braccio del rivale roteò di nuovo, calando come una mazza verso la sua testa. Anche stavolta il colpo fu lento e non andò a segno. Impegnato a evitarlo, Luchmon non si accorse del piede di Axile, proteso per farlo inciampare: il classico e banale sgambetto che lo fece finire lungo disteso nell’erba umida.

Masticò fango e rabbia, sputò e si pulì la bocca con il dorso della mano, quindi si rialzò e corse ancora incontro all’avversario, sospinto da una rabbia stolida e cieca.

Stavolta il pugno gli arrivò diretto sul naso, improvviso come una saetta, senza lasciargli nemmeno il tempo di gridare. Luchmon rimbalzò all’indietro come se avesse impattato contro un muro. Le gambe cedettero e, per un attimo, tutto si fece nero. Quando riprese il controllo dei propri sensi si rese conto di essere sdraiato a terra.

Provò a muoversi, invano: Larcio e Leques gli bloccavano le braccia, inchiodandolo al suolo.

Solo il piccolo Kalaturus accorse in suo aiuto. «Lasciatelo!» gridò.

«Sparisci o le prendi pure tu» ringhiò Axile.

Il bambino comprese che la minaccia era reale e indietreggiò.

Luchmon tossì, sputò, infine riuscì ad aspirare una boccata d’aria. Fu solo un attimo. I tre cugini lo sollevarono senza sforzo, lo issarono sopra le teste tra le grida del pubblico, che li invitava a picchiarlo ancora, e lo condussero in prossimità del torrente. All’altezza di una profonda pozza dove in estate facevano il bagno, fu gettato in acqua.

L’impatto lo squassò fin nel profondo, le membra erano sofferenti e l’orgoglio ferito. Il freddo gli addentò la carne come una belva feroce, ma lo ricondusse anche alla ragione. Soffocò l’istinto di rialzarsi per correre ancora verso Axile e rimase con la testa in acqua per qualche istante, cercando il coraggio di affrontare la realtà; una realtà che aveva le sembianze della sconfitta.

A testa bassa annaspò verso la riva, fradicio e dolorante.

Intirizzito, provò a scaldarsi massaggiandosi con le mani.

«La prossima volta impara a rimanere al tuo posto, straniero» infierì Axile. «Tarquinia è nostra, ricordalo. Tutto quello che possiedi è tuo solo perché il magistrato ha concesso a te e ai tuoi parenti di rifugiarvi qui. Lo stesso vale per voi» concluse, additando il gruppo dei ragazzini di stirpe non nobile. Nessuno replicò.

A conferma di quanto asserito indicò il trono, senza proferir parola. Larcio lo intese al volo: afferrò il ceppo e lo consegnò a Leques che, con la sola forza delle mani, staccò via lo schienale. Quindi gettò i resti a disperdersi tra la corrente del Larthes e si avviò dietro ai cugini, che già si stavano allontanando.

Luchmon sentì le lacrime invadergli gli occhi, provò a soffocarle. Non pensava al dolore del corpo, che pure era forte, ma a quanto gli aveva insegnato Ekphantos parlando di nobili concetti; di giustizia, uguaglianza, libertà. Dov’era tutto ciò? Di quale mondo parlava il maestro? Il sopruso appena subito era la chiara dimostrazione che quei termini erano suoni senza significato, parole vuote.

Alla fine cedette e le lacrime scesero a rigargli il volto, confondendosi con l’acqua che ancora colava dai capelli. Cercò con lo sguardo Arunte, ma il fratello non c’era, di sicuro era fuggito a nascondersi in mezzo ai conigli, bestie con il suo stesso coraggio, a studiare i suoi maledetti auspici.

La folla iniziava a disperdersi. I più erano soddisfatti dello spettacolo, mentre alcuni indugiavano con occhiate pietose che, forse, facevano male più delle botte.

Trovò però lo sguardo di una fanciulla dai capelli lunghi color del miele, con gli occhi strani, pietre lucenti e oblique incastonate nel viso rotondo. Gli era venuta vicino e non c’era né compassione né pena in quelle gemme luminose, profonde come un pozzo senza fine.

«Non te la prendere, sei stato coraggioso» gli disse immergendo le piccole mani nel torrente per poi sciacquargli il viso.

Luchmon restò immobile e chiuse gli occhi per percepire meglio quel tocco delicato. Dolore, rabbia, tutto svanì in una bolla di quiete.

Lei gli sistemò anche i capelli. «Ecco, ora va meglio» disse soddisfatta. Poi si rimise in piedi.

Luchmon si raddrizzò e fece del suo meglio per recuperare la fierezza perduta, per essere degno di tanta ammirazione. Ma, improvvisa com’era giunta, la fanciulla si voltò e corse a raggiungere il gruppetto dei nobili sempre più lontani.

Rimase un po’ a guardare quel passo, lieve come una danza, fin quando Kalaturus non giunse al suo fianco per riportargli il mantello.

«Chi è quella?» domandò all’amico ancora prima di coprirsi.

«Non la conosci? È della famiglia dei Velcha. Credo si chiami Tanaquil.»

Quella giornata segnò Luchmon nel profondo. Quando in seguito tornò a ricordarla gli venne spesso da dire che, sulla riva del torrente in quella mattina di inizio primavera, era nato un nuovo Luchmon. Le parole di ammirazione della bambina furono un’iniezione di fiducia, lo aiutarono a superare in fretta la cocente delusione e lo spinsero a cercarla con costanza. Andò spesso a osservarla mentre giocava con gli altri bambini nobili, e spesso la seguiva senza dare nell’occhio. Altre volte si trovò a incrociare quello sguardo unico e profondo.

Non divennero amici: il gruppetto di nobili a cui lei si accompagnava continuava a trattarlo con disprezzo e le occasioni di parlarle erano rare, tuttavia lei era sempre presente per calmarlo, quando era infuriato per via delle angherie di Axile e degli altri ragazzi più grandi.

Luchmon vi si opponeva con tutte le forze, e sotto la guida del maestro Ekphantos si sottopose a un allenamento fisico continuo. Ore di corsa e di esercizi atletici forgiarono un corpo che passo dopo passo si apprestava alla maturità, e che presto sarebbe stato in grado di tenere testa a qualsiasi Spurinna.

E, forse, di riempire d’interesse lo sguardo luminoso di Tanaquil.