CAPITOLO TERZO

Axile

Tarquinia, 641 a.C.
Quattro anni dopo

Demarato piombò nella stanza durante una noiosissima lezione di regolamenti civili. «Il re di Roma è morto!» disse a bruciapelo, rivolto solo a Ekphantos.

Luchmon mise da parte uno dei Libri Rituales, approfittando della rivelazione per allungare le gambe sotto il tavolo e stiracchiarsi un po’. «Chi, quello che era diventato matto?» ridacchiò.

«Tullo Ostilio» precisò il padre, annuendo impercettibilmente ma senza voltarsi. Poi proseguì, sempre all’indirizzo del maestro: «Si dice che Tinia stesso l’abbia incenerito con un fulmine per porre fine alla sua pazzia. È stata indetta una seduta straordinaria del Consiglio. Sto andando anch’io a vedere cosa intendono fare».

«Credi che decideranno di attaccare?» domandò Ekphantos.

«Quello che credo, o quello che dico, non ha nessuna importanza» rispose Demarato. «Anche se ci permettono di parlare, le opinioni di noi greci non vengono mai prese in considerazione.»

«Allora perché ci vai?» volle sapere Luchmon.

«Perché è sempre bene sapere cosa succede. Non viviamo in un bozzolo, e un conflitto con Roma ci coinvolgerebbe tutti. Tu e tuo fratello potreste dover partire come soldati, e la situazione di incertezza creerebbe senz’altro problemi ai nostri commerci. Però potrebbe essere un’occasione irripetibile per distruggere i romani, anche perché in questo momento sono senza re. È gente pericolosa, grandi combattenti. Avete sentito cos’hanno fatto a Fidene?»

«Senza contare che potremmo arricchirci con il bottino» fece Ekphantos.

La prospettiva di andare in guerra entusiasmò Luchmon. Era stanco di simulare combattimenti nei quali, al massimo, si poteva rimediare qualche graffio, e che di solito vinceva tranquillamente. Scaramucce dal rischio minimo e senza gloria. «Parlerai, padre?»

«Se necessario. E se me ne daranno la possibilità.» Poi squadrò il figlio, come se non lo vedesse da tempo. «Vuoi venire con me?»

Sorpreso dalla proposta, Luchmon balzò in piedi facendo cadere la sedia. A sua memoria Demarato non l’aveva mai invitato nemmeno a fare una passeggiata, figurarsi ad assistere al Consiglio. Mentre rialzava la sedia si ricordò di Ekphantos. Rivolse al maestro l’occhiata speranzosa di un fanciullo cui seguì, dopo l’assenso, un sorriso entusiasta.

Quando si trovò a fianco di suo padre lungo le meravigliose vie di Tarquinia sentì di essere finalmente entrato nell’età adulta. Superava di mezza testa il genitore che aveva sempre ammirato da lontano, un uomo ancora maestoso nonostante il progressivo decadimento fisico. Camminò con lui nelle vie trafficate, appena velate da un sottile strato di neve, sulle quali si affacciavano le botteghe degli artigiani che esponevano lavori in terracotta, attrezzi di ferro e bronzo dei fabbri, oggetti di legno, tessuti, banchi con frutta, verdura e carni di ogni tipo. Negli ultimi anni tutte le case del centro erano state ricostruite con blocchi di pietra squadrata collocati alla perfezione in muri lisci e continui come lastre di ghiaccio, edifici sempre più grandi che, in alcuni casi, si elevavano su due piani. Solo in periferia, nel quartiere dei più poveri, rimanevano quelle edificate con mattoni di argilla impastata con la paglia, a rimarcare la differenza di ceto sociale.

La gente comune salutava con affetto Demarato, tributandogli una certa simpatia che andava oltre il rispetto per la ricchezza dell’uomo, mentre ignoravano Luchmon, che fin dal tempo delle prime competizioni si era creato la fama di ribelle e piantagrane.

Anche il padre sembrò accorgersene, e ne approfittò per insegnargli la sua filosofia di vita. «Mantenere buoni rapporti con le persone è fondamentale per poter vivere bene» spiegò. «Nel caso in cui non vi siano le condizioni per affermare la propria persona, l’unica soluzione praticabile consiste nel ricercare la pace interiore. Io ho seguito questi precetti e posso affermare, oggi, di essere tranquillo. Tu, invece, per soddisfare la sete di gloria e potere ti sei messo a combattere contro tutto e tutti… come se non ti rendessi conto della nostra situazione.»

«Cosa dovrei temere? Siamo ricchissimi!»

«Non basta. I tarquiniesi ci tollerano per via dei nostri beni, ma ci vedono come stranieri. Finché tua madre era viva, grazie all’appoggio della sua famiglia godevamo di una certa considerazione, ma da quando non c’è più siamo tornati a essere trattati come semplici ospiti. E non c’è modo di cambiare le cose.»

«Io invece credo che il modo ci sia» replicò lui, convinto. Non poteva accettare l’inerzia sociale scelta dal padre; lui aspirava al comando, sentiva in cuor suo di avere tutte le capacità necessarie per essere un grande condottiero, in battaglia come nell’amministrazione di una città.

Erano arrivati nei pressi dell’imponente palazzo, emblema della grandezza di Tarquinia, edificato sul modello dei templi greci. Purtroppo gli affreschi che abbellivano il frontone erano sbiaditi, rovinati dalle intemperie, e nessuno pareva intenzionato a farli restaurare. Se fosse stato lui, a comandare, avrebbe portato Tarquinia a livelli di prestigio e bellezza mai visti in Etruria, livelli degni delle più famose città greche: Atene, Corinto, Sparta!

Scosse la testa, salì i tre gradini dietro al padre e si infilò sotto il portico.

Robuste colonne correvano lungo tutto il perimetro, attraversato dalla luce dorata del sole in deboli fasci luminosi. Demarato appoggiò la mano su una di queste e squadrò Luchmon con severità. «Anche se fosse, non è questa l’occasione per discutere. Non cercare di metterti in mostra, e non ti azzardare a fare una delle tue solite piazzate. Rimani in silenzio e osserva.»

Luchmon annuì convinto. Quindi si mischiò tra la piccola folla che assisteva al dibattito. Sul palco, per la prima volta, c’era anche Axile, da poco nominato camthi, una specie di portavoce dei giovani tarquiniesi. Aveva ottenuto la carica direttamente dal padre, generando una certa invidia in Luchmon, che pure vi aspirava. L’odio reciproco nel corso degli anni era via via cresciuto, una sorta di rivalità che aveva visto Axile prevalere spesso, soprattutto agli occhi della gente. In questi casi la potenza politica di Axile si manifestava in tutta la sua forza.

Interventisti e pacifisti discussero a lungo, senza che nessuna delle due fazioni riuscisse a prevalere sull’altra. Le argomentazioni a favore del conflitto si scontravano con il diffuso timore per un’eventuale sconfitta. In quel caso Tarquinia si sarebbe indebolita al punto da diventare una preda ambita anche per le stesse città etrusche, da sempre pronte ad approfittare delle reciproche fragilità. Quando prese la parola Ceisus Thefrinai il brusio di fondo cessò. Tutti gli occhi puntarono il vecchio sacerdote, che si alzò in piedi con il suo solito fare solenne.

«Gli dei mi hanno parlato» declamò sollevando in alto il lituo di bronzo. «Sono di fronte a voi, ancora una volta, per riportarvi il loro volere.» Fece una pausa teatrale, quindi sospirò per rimarcare quanto il suo ruolo fosse gravoso, accentuandone così l’importanza. «Maris vede con favore uno scontro con Roma, e sarebbe con noi, nella guerra, a conferma che il dio ammira e protegge il nostro popolo. Il saggio Veitha, invece, teme che la terra tarquiniese si bagni del sangue dei nostri giovani, e perciò suggerisce di ponderare bene vantaggi e svantaggi, prima di prendere la decisione finale.» Unì le mani in una specie di muta preghiera, accennò un inchino e tornò a sedersi.

Il pubblico reagì con un mormorio di delusione.

Luchmon, che aveva imparato a conoscere le divinazioni di comodo del sacerdote, comprese che Ceisus aveva scelto di lasciare ad altri il verdetto, segno che riteneva troppo rischioso per il mantenimento del suo prestigio appoggiare una fazione o l’altra. Era la stessa tattica usata da Demarato: anche suo padre, che nel frattempo si era spostato in fondo alla sala, optava spesso per una “non decisione”, in modo da non dispiacere nessuno.

Fu poi la volta di Thucer Spurinna. «Prima di prendere la decisione definitiva cedo la parola a mio figlio» disse, una volta cessato il mormorio. «Sarà lui a darci testimonianza della volontà dei nostri soldati.»

Axile avanzò pieno di boria, ascoltò un suggerimento del padre, sussurrato nell’orecchio a suo esclusivo beneficio, e si piazzò nel bel mezzo del palco. «Vi parlo in qualità di portavoce» esordì, con la sicurezza garantita dall’essere uno Spurinna, «e lo faccio a nome dei giovani tarquiniesi, che ardono dal desiderio di scendere in battaglia. La guerra non li spaventa. I loro cuori cercano la gloria, i loro corpi fremono dal desiderio di scontrarsi col nemico, e io provo le stesse, identiche emozioni. Ma, come rappresentante, non posso trascurare i nostri doveri verso Tarquinia. Se scendessimo in battaglia, lasceremmo la città sguarnita. Chi la proteggerebbe dalle incursioni degli altri popoli latini? Chi la difenderebbe dalle scorrerie dei banditi?» Fece una pausa, lasciando ai presenti il tempo di interrogarsi sui quesiti appena posti. «Ve lo dico io: nessuno. Non la salverà nessuno. Per questo, a malincuore, suggerisco di ignorare Roma per concentrarci sulla nostra città. Lavoriamo per renderla ancora più forte e sicura.»

«È una scelta da codardi!» gridò Luchmon. Lo disse senza riflettere, accecato com’era dall’odio verso il rivale, e si pentì di avere espresso ad alta voce il suo pensiero ancora prima che i muri rimandassero l’eco delle parole di Axile.

Tutti gli occhi gli si puntarono addosso come spille dolorose e intorno a lui, ancora una volta, si creò una specie di vuoto. Avanzò allora con coraggio, fino a fronteggiare il nemico di sempre, che però lo sovrastava da sopra il palco.

«Tu sei un misero straniero!» gli ringhiò contro Axile, chinandosi per fissarlo negli occhi. «Non hai il diritto di parlare!»

Thucer intervenne tirandolo indietro. Axile, saggiamente, tornò al proprio posto, consapevole che suo padre lo avrebbe difeso.

Luchmon si voltò per cercare il supporto di Demarato, ma questi, come al solito, rimase nascosto. Maledisse la propria lingua avventata ma soprattutto la pavidità del genitore, che non gli veniva in soccorso. Se con Axile poteva comunque discutere, il carisma di Thucer non gli avrebbe lasciato scampo.

«Mio figlio ha ragione» dichiarò il signore degli Spurinna. «In condizioni ordinarie non ti sarebbe concesso parlare. Tuttavia stiamo discutendo di qualcosa di estremamente importante, per questo dobbiamo concedere a tutti gli abitanti la possibilità di esprimere il proprio parere. Tu hai espresso il tuo, riducendo una discussione portata avanti da persone nobili e sagge a una mera faccenda di coraggio» concluse, allargando le braccia con finta benevolenza. «Ne prendiamo atto, giovane Luchmon, ma ora ti prego, fatti da parte e lascia decidere i grandi.»

Una risata esplose nel salone.

Lo zilath attese che la platea si sfogasse, poi alzò una mano per richiamare il silenzio.

Luchmon si voltò verso l’uscita. Un corridoio gli si aprì di fronte, segno evidente che nessuno dei presenti voleva avere a che fare con lui. Così, a testa bassa, abbandonò il salone. Azzardò una fugace occhiata in direzione del padre, rintanato in un angolo in fondo alla sala, ma Demarato aveva lo sguardo fisso davanti a sé. E scuoteva la testa.

Corse fino a casa articolando un immaginario dialogo tra la parte benevola della propria coscienza, impegnata a cercare giustificazioni, e quella critica, che invece gli faceva notare la sua stupidità, dandogli dell’idiota perché non riusciva mai a rammentare i preziosi insegnamenti di Ekphantos. Con quell’uscita fuori luogo aveva mostrato a tutte le persone più importanti di Tarquinia che era ancora immaturo, un ragazzo forse coraggioso, di sicuro irriverente e poco sveglio. Come se ciò non bastasse era riuscito a deludere suo padre in una delle rare occasioni in cui aveva la possibilità di passare del tempo con lui, e magari dimostrargli che ormai doveva essere considerato un uomo.

Quella sera, a cena, nessuno affrontò l’argomento. Non lo toccò suo padre, che con lui fu come sempre distaccato, occupato più che altro a conversare con i suoi ospiti per accertarsi dei loro progressi artistici. Non vi accennò Ekphantos, che a malapena gli rivolse la parola. Il maestro pareva avvilito a causa del suo comportamento; di certo si sentiva in qualche modo tradito, sminuito nel ruolo di insegnante che non riesce a compiere il suo dovere solo per la scarsa volontà del suo allievo. Ostentare silenzio era il modo di comunicare la totale disapprovazione per le sue azioni. Nessuna allusione nemmeno da Arunte: suo fratello si era da poco fidanzato e in quel periodo parlava solo di Ramtha, la sua ragazza.

Perfettamente conscio della situazione e del concreto rischio di diventare bersaglio di scherno, i giorni successivi Luchmon evitò di farsi vedere in giro. Complici il freddo e le intense precipitazioni invernali, tentò di impegnarsi con nuovo vigore nelle pratiche artistiche, alla ricerca di una qualsiasi ispirazione. Purtroppo, quel tipo di occupazione non gli si addiceva: l’incapacità di avvicinare la bravura di Ekphantos lo mandava su tutte le furie, così, prima di lasciarsi andare all’ira e distruggere ogni cosa, scappava via: sellava il cavallo e usciva per lunghi giri, incurante della pioggia e del clima ostile.

Quando, dopo oltre una settimana, tornò a farsi vedere in città, la solitudine si fece ancora più evidente. Il suo gruppo di amici, gli emarginati come lui, lo evitavano come se fosse un appestato. Solo Kalaturus si ostinava a seguirlo, tanto che Luchmon iniziò a considerarlo un’inevitabile presenza fissa, una seconda ombra.

La mano di Axile in tutto ciò era chiara, come chiaro era il suo fine ultimo: l’isolamento. Dispensando come suo solito regali o minacce, aveva condizionato l’intera gioventù tarquiniese, facendo in modo che nessuno lo frequentasse più. Ma la vendetta del giovane rampollo degli Spurinna non si era ancora esaurita: l’accusa di codardia, pronunciata di fronte a troppa gente perché potesse essere ignorata, richiedeva un affondo diretto, così, quando per puro caso si incrociarono di nuovo, in una via secondaria, Axile attaccò.

«Signori, un po’ di attenzione» disse bloccando il gruppo che lo accompagnava. Oltre ai fedelissimi Larcio e Leques, c’erano ragazzi di ogni età. «Fatevi da parte. Lasciate passare gli amanti greci.»

Kalaturus arrossì. «Io sono calabro» ringhiò, stringendo i pugni.

«Siccome Tanaquil non ti considera, ti fai consolare da lui?» rincarò la dose il camthi.

Luchmon gettò un rapido sguardo alla compagnia. Per fortuna la ragazza di cui era innamorato e che, si diceva, fosse diventata la fidanzata di Axile, non si vedeva in giro. Accertata l’assenza di Tanaquil tirò diritto, ma Leques lo bloccò, afferrandolo per un braccio. Quel gesto, invece di scatenare in lui una violenta reazione, servì a ricordargli i suggerimenti che Ekphantos gli aveva impartito un paio di anni prima, il giorno della gara di corsa. “Usa la testa,“ aveva detto il suo maestro “e non farti dominare dall’ira.”

Allora si divincolò, con decisione ma frenando la rabbia che sentiva montare. Oltrepassò anche l’ultimo ragazzo senza degnarlo di uno sguardo e proseguì per la sua strada, con Kalaturus alle calcagna. Un coro di insulti e risate li accompagnò finché furono a portata d’orecchio. Lui li ignorò, conscio che le parole lo potevano ferire solo se gliene dava la possibilità.

Sdraiata in mezzo alle coperte della capanna di Axile, ben riscaldata dal fuoco, Tanaquil tentava di frenare l’impeto del giovane fidanzato, che le si era gettato addosso con un’irruenza degna di una gara di lotta. Entrambi nudi, si baciavano con passione, e Tanaquil stava scoprendo che alcune zone del suo giovane corpo, già sviluppato ma non ancora giunto alla completa maturazione, potevano donarle inattesi piaceri. I segnali della dea Turan erano chiari: la via del piacere fisico passava necessariamente per l’altro sesso, e fra tutti i ragazzi che le gironzolavano attorno Axile era quello che più la faceva fremere di desiderio. Per contro, negli ultimi riti propiziatori Tages si mostrava titubante, come se non fosse del tutto sicuro della bontà di quel rapporto. L’incertezza del suo dio favorito le impediva così di aprirsi completamente.

Come a dare credito ai suoi dubbi, Axile le afferrò il seno e lo strizzò con violenza.

Tanaquil sentì una fitta e gemette.

Scambiando forse il dolore per piacere, il ragazzo le fece scivolare la mano libera tra le gambe. Le sue dita, però, erano come i tizzoni della brace: incandescenti ma ruvide.

Tanaquil scattò indietro, come se la stessa Turan si fosse manifestata attraverso il suo corpo per metterla in guardia. Si avvolse in una pelliccia, si alzò in piedi e si allontanò di qualche passo.

«Corri troppo» lo rimproverò, stemperando il rifiuto con un magnifico sorriso.

Con lo sguardo vacuo, Axile grugnì d’insoddisfazione. Sembrava… assente. Quando emerse dalle coperte in tutta la sua prestanza era il ritratto di un dio. Il fisico poteva benissimo essere quello di una statua scolpita dagli artisti greci, e i capelli biondi, che ondeggiavano al minimo soffio di vento, gli conferivano un aspetto magnifico, quasi selvaggio.

Ma selvaggio fu anche il suo assalto.

Con una mossa da lottatore l’afferrò dietro le ginocchia e la ributtò giù.

Tanaquil gridò.

Lui le tappò la bocca con una mano, con l’altra le strappò di dosso la coperta e le spalancò le gambe, poi la bloccò grazie al suo peso e adoperò entrambe le braccia per fermarle i polsi a terra. Quindi fece scorrere lo sguardo lungo tutto il suo corpo, per bearsi della visione, o forse per godere della posizione di dominio che aveva appena raggiunto.

Ansimante e impaurita, incapace di divincolarsi, Tanaquil lo guardò negli occhi: erano quelli di un animale feroce che fissa la preda. Sicura di non riuscire a opporre resistenza, adoperò l’unica arma a sua disposizione.

«Se lo fai, mi perderai per sempre» lo avvertì. La minaccia colpì il centro del bersaglio come l’ultima fortunata freccia che ribalta il risultato di una gara di tiro.

Axile sbatté le palpebre e dopo alcuni istanti il suo sguardo tornò a essere lucido, presente. La lasciò libera e le si sdraiò accanto, supino, le braccia aperte come chi si è appena arreso.

«Quanto ancora mi farai aspettare?» brontolò.

Tanaquil si rivestì in fretta. «Ne abbiamo già parlato» disse mentre tentava di risistemarsi le lunghe trecce. «Mi avrai solo quando dimostrerai che mi consideri tua pari. Fino ad allora dovrai attendere.»

Sapeva di averlo in pugno. Era considerata di gran lunga la ragazza più bella di Tarquinia, perciò anche la più ambita. I pretendenti non le mancavano e questo le dava la possibilità di scegliere fra tanti giovani, e pure tra qualche adulto che non si era fatto scrupolo a mostrare il proprio interesse.

Accettare la proposta di Axile le era parso naturale. Lo considerava il suo equivalente maschile, un giovane vigoroso e affascinante che spiccava nel marasma di mocciosi o giovanotti insignificanti. In più avevano la stessa smisurata ambizione. Lui l’aveva corteggiata regalandole gioielli, vestiti e oli profumati, doni che di solito bastavano per spalancare ogni porta, ma che lei aveva rifiutato, orgogliosa e decisa a non cedere alle lusinghe di un monile. Si era convinta solo quando aveva percepito una sorta di comunione di intenti, il desiderio di emergere che tanti sentivano e che per loro era addirittura una necessità. Inoltre Tanaquil sperava che, grazie alla sua relazione con uno Spurinna, la sua famiglia, i Velcha, avrebbero riconquistato il prestigio perso per via delle tante scelte sbagliate che li avevano impoveriti, fino a farli sparire dalla scena politica della città.

«Ci sono donne che pagherebbero per avere le mie attenzioni» si lamentò Axile, rompendo il silenzio sceso tra loro.

«Ho visto come ti considerano le mie amiche. Per loro sei una specie di idolo: bello, forte e potente.»

«Non è forse così?» chiese Axile, tornando a ergersi davanti a lei.

Tanaquil emise un gridolino compiaciuto. Il suo sguardo si soffermò sul membro, ancora eretto. Avrebbe voluto toccarlo, stringerlo, sentirlo dentro di sé… tuttavia non era il momento giusto. «Questo è innegabile. Ma per me non basta. Io pretendo il tuo rispetto. Non voglio essere considerata come una cosa da usare, un oggetto di cui disporre a piacimento.»

«Ma io sono il più importante dei giovani tarquiniesi!» si vantò Axile, a corto di argomenti.

«Credi di impressionarmi? Quel ruolo ti è stato regalato da tuo padre, non te lo sei guadagnato» disse. Poi decise di sfidarlo. Lo fece per valutare la sua reazione, ma anche per punirlo della sua violenza che, per fortuna, era riuscita a fermare. «Forse ha ragione Luchmon» sentenziò, senza riferirsi a niente in particolare. Sapeva soltanto che quel ragazzo insolente era l’unico che tentava di opporsi agli Spurinna e, pur non riuscendovi, spesso causava loro non pochi problemi. Nella sua cieca testardaggine c’era qualcosa che la attirava, forse il coraggio di opporsi ai più forti, oppure lo stoicismo con il quale sopportava le angherie. Qualsiasi cosa fosse, si era sentita più volte spinta ad aiutarlo.

Axile strabuzzò gli occhi. «Non starai mica ad ascoltare quel figlio di cagna di un greco?» domandò, incapace di accorgersi della deliberata provocazione.

«Io ascolto tutti quelli che mi girano intorno» replicò Tanaquil con voce calma, soddisfatta di aver colpito nel segno. «E sono parecchi, lo sai» aggiunse sbattendo gli occhi dalle lunghe ciglia.

Axile distese le braccia lungo i fianchi e strinse i pugni.

Il ceffone arrivò, improvviso e veloce come un fulmine di Tinia.

Tanaquil barcollò e indietreggiò di un passo.

«Allora che ci stai a fare, qui?» sibilò Axile. «Per me te ne puoi anche andare!»

Tanaquil lo prese in parola. Senza aggiungere altro si gettò addosso il mantello e uscì con la guancia in fiamme. Fuori faceva freddo, ma quello che sentiva dentro era autentico gelo. Nemmeno il calore del sole, sceso a baciare le acque del mare e pronto a tramontare, avrebbe potuto risollevarle lo spirito. Più che ferita si sentiva tradita. Mormorò una supplica a Tages, pregando il dio di inviarle un segnale chiaro.

Dopo alcuni battiti di cuore, uno stormo di uccelli scuri, forse corvi, spiccarono il volo dirigendosi a ovest. Poi tornarono indietro. Se si trattava della risposta di Tages, non era in grado di interpretarla. In quel momento non sapeva se la sua relazione con Axile potesse avere un futuro, non era una questione che dipendesse totalmente da lei. Di certo era sicura di una cosa: avrebbe padroneggiato l’arte di Tages per diventare, un giorno, la migliore degli aruspici.

Fermo sulla soglia della capanna, Axile osservò Tanaquil allontanarsi nella luce del tramonto, elegante e sinuosa. Fu tentato di richiamarla indietro per scusarsi, ma prevalse l’orgoglio. Lui era Axile Spurinna, e gli Spurinna dominavano Tarquinia. E chi domina, gli aveva insegnato suo padre, non chiede mai perdono. Allora tornò dentro e si masturbò, quasi con rabbia. Solo quando ebbe finito riuscì a calmarsi, come se insieme al suo seme avesse espulso anche l’ira. Tranquillo e rilassato, tornò a stendersi sotto le coperte.

Prima di assopirsi realizzò con dispiacere che il figlio minore di Demarato costituiva il suo maggior problema. Nonostante la figuraccia fatta di fronte al Consiglio, Luchmon gli causava continui grattacapi: era l’unico giovane in tutta la città a ignorare palesemente la sua autorità, il suo ruolo di camthi. Non solo, andava dicendo in giro che lui non valeva nulla e che tutta la sua autorità gli era derivata dal potere del padre… per questo le parole di Tanaquil lo avevano mandato in bestia. Anche se le aveva pronunciate lei, era come se l’avesse fatto Luchmon, come se quel pezzo di sterco si fosse intromesso tra loro nell’intimità della capanna. Doveva trovare il modo di azzittirlo. In passato gli aveva teso una trappola, ma non era stato sufficiente. Avrebbe dovuto alzare il livello. Magari ucciderlo.

Prese a tormentarsi il ciuffo di peli che dal mento scendeva in una treccia, e in poco tempo mise a punto un piano. Poi, crogiolandosi col pensiero della morte del suo rivale, finalmente scivolò nel sonno.

Ekphantos tese in avanti il modello di fegato ricavato sagomando una pietra. «Ora ripeti» ordinò.

Luchmon afferrò l’oggetto ruotandolo nella giusta posizione. «Il cielo è diviso in sedici zone» recitò. Era stato lui stesso a chiedere al suo maestro di essere edotto sull’arte degli aruspici. Riteneva che, esibendo la conoscenza dei riti, Tanaquil lo avrebbe quanto meno considerato. Il fatto che la ragazza si facesse vedere in giro con Axile, poi, lo spronava a moltiplicare le forze nel tentativo di sottrarla al rivale. «Sono le dimore degli dei. A est ci sono quelli propizi, a ovest…»

L’elenco fu interrotto da Kalaturus, che senza preavviso fece irruzione nella stanza con l’impeto di un cinghiale ferito.

Ekphantos lo guardò con evidente fastidio. «Se sei venuto per la lezione, ti faccio notare che sei in ritardo» lo rimproverò. «Se invece sei qui per dire qualcosa al tuo amico, allora hai soltanto sbagliato momento. Non tollero che mi si interrompa mentre spiego.»

Il giovane calabro, che talvolta si tratteneva con loro per ricevere qualche insegnamento, conosceva la severità del maestro e lo guardò impaurito.

Luchmon, che con Ekphantos aveva un rapporto filiale, aveva riconosciuto il tono burbero ma bonario, per cui minimizzò facendo spallucce e gli offrì una scappatoia: «Se è davvero importante sei perdonato».

«Tanaquil ti vuole incontrare» dichiarò Kalaturus solenne, come se fosse stato il messaggero di un dio. Peccato che la bassa statura, la pelle troppo scura e la selva di riccioli incolti in testa lo facessero somigliare più a un piccolo demone dispettoso. «Un’ora dopo il tramonto, nella piazza vicino alla porta settentrionale.»

«Tanaquil?»

L’altro annuì con vigore, come a voler dare maggior peso alle parole che a lui stesso dovevano sembrare incredibili. «Ha mandato Holaie da me. Dice che devi andare da solo.»

«Bene, ragazzo, ora che hai raggiunto il tuo scopo puoi lasciarci ai nostri studi» intervenne Ekphantos.

Luchmon annuì in direzione dell’amico. «Grazie. Ne parliamo dopo.»

Quando finalmente Kalaturus uscì, riprese la tiritera. «A ovest ci sono… ci sono i segni di…»

Ekphantos gli strappò di mano il modello di fegato. «Lascia perdere. Vedo che stai pensando ad altro.»

Più che pensare, Luchmon era impegnato a sentire il battito del suo cuore, accelerato come al termine di una corsa. Tanaquil finalmente si era decisa a incontrarlo: una specie di sogno che si avverava. Per un istante si chiese il motivo dell’improvviso interesse della ragazza, ma ogni considerazione logica fu presto sommersa dall’ondata di eccitazione che lo travolgeva come un maremoto.

«Che intenzioni hai?» chiese Ekphantos, riportandolo alla realtà.

«Cosa intendi dire?»

Il maestro sollevò le sopracciglia. «Non vorrai andarci sul serio?»

«Perché no?» domandò a sua volta Luchmon, anche se nella sua mente cominciava a insinuarsi il dubbio.

In quella di Ekphantos, invece, doveva essere penetrato un animale grande almeno come una talpa. «Non ti viene il sospetto che si tratti di una trappola? Non sarebbe nemmeno la prima.»

«Ritieni impossibile che Tanaquil voglia vedermi?» replicò, offeso.

«Non ho detto questo. Però ci sono elementi che mi fanno pensare che sia tutta una finzione. Perché non ti ha invitato lei di persona? E perché incontrarvi stanotte, al buio, come due cospiratori?»

«Non lo so» fece Luchmon, accigliato. Di solito Tanaquil ricambiava i suoi timidi sorrisi quando si incrociavano per strada, da soli, mentre se lei si trovava in compagnia lo ignorava. Non partecipava al solito scherno, né rideva ai tentativi di umiliazione, ma nemmeno interveniva per porre fine ai continui scontri fra lui e la cricca di Axile. Semplicemente si astraeva, lasciando gli eventi al loro corso, come se avesse già previsto tutto grazie a una delle sue divinazioni. Solo alla fine, quando ormai l’umiliazione era stata portata a termine, si avvicinava per squadrarlo con curiosità, come se fosse stato la più strana delle bestie, per poi assicurarsi che non si fosse fatto troppo male. «Forse perché non vuole che Axile ci veda insieme!» riprese. «Potrebbe reagire con violenza.»

«O forse anziché Tanaquil troverai proprio Axile!»

«Allora cosa dovrei fare?» sbottò, esasperato dalla saccenteria del maestro.

«Non ci andare. Oppure trova il modo di parlare con Tanaquil per chiederle conferma.» Scosse la testa. «Pensaci su, d’accordo? Per oggi abbiamo finito, non credo che con simili pensieri tu possa imparare qualcosa.»

Luchmon riconsegnò il fegato di pietra al maestro, poi, scuro in volto, raggiunse Kalaturus e passò il resto del pomeriggio insieme all’amico a discutere sul da farsi. Dopo avergli riferito i dubbi del maestro, anche il piccolo calabro si sentiva propenso a sconsigliarlo. Poco prima del tramonto decisero di fare un giro per le vie di Tarquinia alla ricerca di Tanaquil, o di Holaie, alla quale avrebbero voluto chiedere delucidazioni, ma entrambe le ragazze parevano essere già rincasate. Fecero altrettanto.

Fermi sulla soglia di casa di Kalaturus, un’abitazione del vecchio tipo a pianta rotonda e con il tetto di paglia ingrigita, Luchmon prese la sua decisione: «Ha ragione Ekphantos» ammise. «È probabile che si tratti di una trappola. Però… se fosse davvero un appuntamento?»

«Allora cosa vuoi fare?»

«Andrò. Ma mi preparo a ogni evenienza.»

«Vengo anch’io» dichiarò Kalaturus. «Potresti avere bisogno di me.»

Il fuoco nella stanza di Luchmon si era ridotto a brace quando lui si fece forza e abbandonò il calore delle coperte, rabbrividendo per il freddo. Indossò una tunica su cui aggiunse la lacerna e un pesante mantello di lana, poi calzò le sue migliori babbucce. Camminando in punta di piedi per non svegliare il sonno pacifico di Arunte uscì dalla propria stanza e, con circospezione, attraversò il disimpegno sperando di non incontrare il padre o qualcuno degli artisti che, a giudicare dal chiacchiericcio, si divertivano nella stanza limitrofa. Quindi recuperò un lungo pugnale che aveva nascosto in precedenza, lo celò sotto le vesti e si avventurò fuori.

Una fitta coltre di nuvole oscurava le stelle. Il vento, gelido, spirava da nord, portando sentore di neve, boschi, tempesta. Infausti presagi che si sforzò di ignorare.

Lievi lame di luce filtravano dalle abitazioni, troppo esigue per rischiarare la notte ma sufficienti a mostrare a Luchmon la strada. Lasciò agli occhi il tempo di abituarsi a quelle condizioni: quando riuscì a distinguere i severi profili degli edifici vicini si decise a muoversi, infrangendo il silenzio notturno con i propri passi, che risuonavano sull’acciottolato. Al primo crocevia notò una sagoma in attesa, a ridosso del muro di una casa. L’ombra si mosse e abbassò il cappuccio: Kalaturus.

«Sei armato?» gli chiese Luchmon in un sussurro.

L’amico scostò il mantello e batté due volte la mano contro il pugnale, fissato alla cintura con una fibula di ferro.

Senza proferire parola procedettero fianco a fianco, come se la reciproca vicinanza potesse infondere loro coraggio. Non che a Luchmon mancasse, ma in quel momento la possibilità che Tanaquil si fosse avventurata in quella notte gelida solo per incontrarlo di nascosto gli pareva estremamente remota. Si stavano andando a ficcare in una maledetta trappola, e lo stavano facendo da soli. Mentre la sua parte razionale si interrogava sui possibili tranelli, ideando al contempo contromosse e strategie, la parte governata dal cuore immaginava dolci parole da parte di Tanaquil e altrettanto romantiche risposte.

Un cane abbaiò, facendoli sobbalzare. Giunsero alla porta settentrionale senza incontrare anima viva.

La zona era debolmente illuminata da due torce appese alle mura. Luchmon comprese subito che c’era qualcosa di anomalo: la guardia posta a difesa dell’ingresso non si vedeva da nessuna parte. In compenso dai lati arrivarono due figure alte, massicce. Per un istante credette di avere di fronte Larcio e Leques, ma questi erano ancora più imponenti. Di una cosa però era ormai sicuro: non si trattava di Tanaquil.

Kalaturus fece per estrarre il pugnale, ma Luchmon gli mise una mano sul braccio, bloccandolo. «Attacca quando sono vicini» sussurrò. «Dobbiamo coglierli di sorpresa.»

Poi, con voce volutamente incerta, chiamò: «Tanaquil, sei tu?».

Dal buio nessuna risposta, solo lo sghignazzare di un’ombra, sempre più vicina, sempre più grande.

Quando arrivarono a distanza di un braccio, Luchmon scattò in avanti, il pugnale teso di fronte a sé, lanciando il suo grido di combattimento: «Per Eracle!».

L’aggressore, un bestione enorme, non si fece sorprendere. In un’unica rotazione riuscì a deviare l’attacco e con la mano libera sferrò un pugno che colpì Luchmon alla testa, facendolo crollare a terra. Poi, stringendo la spada con due mani, la sollevò. Un affondo potenzialmente letale, ma troppo lento perché potesse andare a segno: Luchmon riuscì a schivarlo rotolando via. Ma non si fermò, e con una contrazione dei muscoli della schiena si girò portando un fendente obliquo, che aprì un taglio nella coscia dell’avversario. Questi urlò, forse più per la sorpresa che per il dolore. Emise un ringhio animalesco e roteò la spada in una prevedibile girata orizzontale, un altro movimento macchinoso e inutile. Luchmon lo anticipò balzando in piedi e mollandogli un calcio sul ginocchio.

Il gigante barcollò. «Bastardo!» inveì, reggendosi su una gamba sola per calare ancora la lama. Luchmon la evitò con facilità, quindi affondò il pugnale nel ventre dell’uomo, che si piegò su se stesso e, come una quercia tagliata alla base, crollò a terra.

Era la prima volta che uccideva qualcuno, ma non ebbe il tempo per analizzare le proprie sensazioni. Ansimante per lo sforzo recuperò l’arma e si voltò per aiutare Kalaturus, che indietreggiava incalzato dal suo nemico. Assalì il farabutto alle spalle, senza lasciargli il tempo di reagire, conficcandogli il pugnale alla base del collo. Nello stesso istante Kalaturus lo sgozzò. Il sangue gli imbrattò il viso, senza però impedirgli di esibire un sorriso. «Grazie dell’aiuto, ma ce l’avrei fatta anche da solo» proclamò.

«Sei ferito?» gli chiese Luchmon.

«No, il sangue è tutto loro» lo tranquillizzò Kalaturus. A dispetto della giovane età e dello scarso addestramento, senz’altro non al livello di quello di Luchmon, aveva tenuto testa al suo avversario. «Non valevano molto, come sicari» disse sputando un bolo di saliva e sangue.

«Il mio era soltanto grosso» annuì Luchmon, che adesso cominciava a sentirsi scosso per quanto era accaduto.

«Il mio nemmeno quello» ridacchiò Kalaturus.

Luchmon trasse un profondo respiro ma non si rilassò. Frugò tra le ombre con lo sguardo alla ricerca di altri pericoli, e individuò in lontananza alcune sagome sparire dietro l’angolo di una strada.

«Era Axile con uno dei suoi» affermò indicandole. «Ne sono sicuro.»

«L’ha organizzata lui, questa imboscata.»

«Mi chiedo dove sia la guardia.»

Come in risposta a quelle parole, un soldato armato apparve dalla porta settentrionale. La torcia in una mano, la spada nell’altra, si avvicinò guardingo. «Che succede?» domandò squadrandoli con sospetto.

«Siamo stati aggrediti» rispose Luchmon indicando i corpi a terra. «Ci hanno teso un’imboscata, ma per fortuna sappiamo difenderci.»

La guardia fece luce sui volti dei cadaveri. Erano brutte facce, rese ancora più spaventose dalle ombre tremolanti della fiamma.

Luchmon ebbe l’impressione che li conoscesse. «Sai chi sono?»

Quello scosse la testa con eccessivo vigore, segno evidente che mentiva. «Non abitano a Tarquinia. Devono essersi intrufolati in qualche modo in città» affermò. Quindi roteò la torcia per guardarsi intorno. «Voi tornate a casa, ci penso io a sistemare le cose.»

«Cosa intendi per “sistemare”?»

«Faccio sparire i corpi. Vorrei… risparmiare ai tarquiniesi questa brutta scena.»

La solerzia della guardia nascondeva la volontà di occultare tutto, forse per mascherare la sua scarsa vigilanza.

«Facciamo così» propose Luchmon. «Io vado ad avvisare il tuo superiore, perché magari questi due sono spie di qualche città nemica. Forse ci sarà bisogno di potenziare i controlli notturni.» Indicò Kalaturus. «Intanto il mio amico resta qui con te, casomai ci fosse in giro qualche altro sicario. Che ne dici?»

La debole danza della fiamma non impedì a Luchmon di notare la delusione della guardia, che non avendo argomenti per obiettare dovette per forza acconsentire.

La stanchezza che lo colpì al rientro a casa, facendolo addormentare di botto, non riuscì a garantirgli un riposo tranquillo. Sogni tormentati gli infestarono la mente: spade e sangue, compagni e avversari, il volto di Tanaquil che si sovrapponeva a quello di Axile, ma soprattutto continue visioni del nemico che aveva abbattuto, immobile, il volto distorto dalla sofferenza. E poi i gemiti. Una specie di lamento che sgorgava dal corpo disteso, distante e profondo come un’eco dei tormenti degli inferi. Il suono crebbe e mutò in un terribile ululato, che lo spaventò al punto da svegliarlo, sudato e ansimante.

Dalle finestre filtravano le luci di metà mattina e il solito, quieto chiacchiericcio.

Scostò le coperte, si vestì e fece per raggiungere la stanza comune, da dove giungevano nitide le voci di suo padre e di Ekphantos.

Luchmon si bloccò appena fuori. I due erano già occupati a discutere animatamente su quanto accaduto la sera precedente. Appoggiò la schiena alla parete, poi tese l’orecchio e rimase a origliare.

«La faccenda è preoccupante» stava dicendo Demarato. «È riuscito a farsi odiare al punto che qualcuno ha assoldato due mercenari per ucciderlo. Mi chiedo cosa tu gli abbia insegnato, in questi anni!»

«Così erano mercenari?» domandò Ekphantos. «Ne sei certo?»

Demarato sbuffò. «In realtà erano semplici criminali cacciati da Tarquinia un po’ di tempo fa. Ma qualcuno deve averli pagati per aggredire mio figlio. Chissà cos’ha combinato, stavolta…»

«Luchmon non è come te» disse il maestro con lo stesso tono paziente che adoperava quando faceva lezione. «Ha l’animo del combattente, lo stesso spirito indomito di Tathia. Hai visto quello che ha fatto, no? Si è sbarazzato di quei sicari dimostrando una certa abilità.»

«Hai ragione» ammise Demarato. «Ma tu hai le tue parti di colpa! Non riesci a frenare la sua indole. Non riesci ad addestrarlo, né a fargli apprezzare l’arte. In questi anni non l’ho sentito comporre un brano, né ho visto una sua decorazione su un vaso o un’anfora. Come diamine lo istruisci?»

L’accusa al suo maestro era ingiusta, e Luchmon non la poteva tollerare. Così entrò di slancio. «Non è colpa sua!» gridò rivolto al padre, disteso sul triclinio. «Ekphantos mi ha spiegato tutto quello che devo sapere, e mi è sempre stato vicino. Tu, piuttosto, non mi hai mai insegnato nulla. Per me non ci sei mai.»

Demarato fu preso alla sprovvista e si rizzò in piedi. «Stavi…» balbettò.

«Sì, stavo ascoltando» affermò Luchmon, avanzando fino a fronteggiarlo. Il profumo di suo padre era forte e dava la nausea. Lo guardò negli occhi. Vi trovò la paura. L’uomo potente accanto al quale aveva passeggiato con orgoglio pochi giorni prima se la faceva sotto al pensiero che suo figlio si fosse fatto dei nemici a Tarquinia. Per Luchmon fu un’ulteriore delusione.

«Allora dimmi, chi hai offeso al punto da volerti morto?»

«Non vado d’accordo con Axile. C’eri anche tu al Consiglio, l’hai visto.»

«Gli Spurinna sono i padroni della città,» si lamentò Demarato, scuotendo la testa «e tu ti vai a mettere contro il loro primogenito?»

Il padre era un grandissimo mercante. La sua abilità a valutare merci e a trattarle, il suo intuito e la sua capacità di relazionarsi con le persone avevano arricchito la famiglia fino a farle raggiungere livelli di benessere superiori a qualsiasi altra casata tarquiniese, Spurinna e Thefrinai inclusi. Però gli mancavano gli attributi. Ogni volta che c’era da affrontare un problema, invece di fare la voce grossa preferiva stemperare tutto con una risata o scendendo a patti, anche a costo di rimetterci qualcosa. Se avesse avuto un rivale come Axile si sarebbe di certo sottomesso.

Luchmon era di tutt’altra pasta. «È un gran bastardo!» ringhiò. «Mi ha sempre preso di mira. Mi ha picchiato, mi chiama “sporco straniero” e mi ostacola in tutti i modi!»

«Conosci la sua carica, e quella di Thucer» gli ricordò Demarato, come se i loro ruoli nella società ne giustificassero le azioni. «Se lui è il tuo nemico, allora hai tutta Tarquinia contro di te. Anzi, contro di noi.»

L’affermazione era un’ulteriore prova di egoismo. Demarato non temeva per la sorte del figlio, sebbene l’avesse a cuore, bensì per la sua posizione in società. Quando Luchmon lo comprese si avvicinò al tavolo e vi sbatté sopra entrambe le mani, con violenza. I piatti sobbalzarono, un bicchiere si rovesciò riversando il vino sul legno, e poi a colare sulle pietre ben levigate del pavimento.

Suo padre stava parlando, ma Luchmon non lo sentiva nemmeno. Osservando il movimento lento del liquido, le gocce che cadevano ritmate, riuscì a estraniarsi alcuni istanti dal contesto e a recuperare la calma.

«… chiedere scusa ad Axile» stava dicendo Demarato. «È importante mantenere buoni rapporti con…»

«Non lo farò mai» l’interruppe con voce decisa. Una voce da adulto. «Anzi, ho intenzione di accusarlo di avere organizzato l’aggressione. E voglio farlo subito.»

«Non hai alcuna prova di quanto affermi» gli fece notare Ekphantos, parlando per la prima volta.

«Allora accuserò la guardia di cattiva vigilanza. È colpa sua se quei due sono entrati di nascosto in città, ma non mi meraviglierei se Axile l’avesse corrotta.»

Demarato stava tremando. «Non puoi farlo» balbettò. «Rovineresti la nostra famiglia. Anche se Cipselo ha smesso di darci la caccia non possiamo più tornare a Corinto. Se a Tarquinia ci rendono la vita impossibile, dove andremo?»

«Ci sono tante città, in Etruria.»

«Qui c’è la tomba di tua madre!»

«È lo stesso. La gente deve sapere. E io non intendo rimanere tutta la vita sottomesso ad Axile, agli Spurinna o a chiunque altro.»

Mentre si voltava verso la porta, deciso a correre in Consiglio per spifferare tutto, colse il cenno che Demarato fece a Ekphantos.

Una volta uscito, il suo maestro l’affiancò e lo seguì lungo la via che portava verso il centro della città. Il mattino era freddo ma luminoso, l’aria limpida e il cielo senza nuvole.

«Non giudicare male tuo padre» disse il filosofo. «La sua preoccupazione si estende a te, a tuo fratello e a tutti quelli che ha portato qui da Corinto.»

Luchmon scrollò le spalle, come a voler accantonare la questione.

«In qualche modo si sente responsabile anche per loro» insisté Ekphantos.

«In questo momento non è lui il mio problema. Devo pensare a cosa riferire al magistrato.»

«Racconta solo la verità» suggerì allora il maestro. «Ipotesi, sensazioni e ogni altra considerazione tienile per te.»

«Non voglio coinvolgere anche Tanaquil» disse, perplesso. «E rivelare a tutti che si è trattato di una trappola, nella quale sono caduto come un cretino.»

«Non hai alternative. A meno che tu non voglia mentire e dire che passavi di lì per caso. A quel punto, però, dovresti giustificare le tue azioni.»

«Ci dev’essere un modo per far capire alle persone la verità nascosta dietro le parole.»

Ekphantos si fermò, lo prese per un braccio e lo fece voltare. «Il modo ci sarebbe» disse. «Anche questa è un’arte. Non te ne ho mai parlato, però… credo che impareresti presto. Si chiama “oratoria”.»

«Mi piacerebbe davvero che tu me la insegnassi. Ma non è questo il giorno, né l’ora» concluse tirando dritto. Pochi istanti dopo fecero il loro ingresso nella sala del Consiglio, a interrogatorio iniziato.

Lo conduceva Thucer Spurinna in persona, che, come si confaceva allo zilath, aveva assunto l’onere dell’indagine. Seduto di fronte a lui, sul palco rialzato, stava il soldato di guardia della sera precedente, reo, come prevedibile, di mancata sorveglianza.

Luchmon venne a sapere dai numerosi presenti che si chiamava Calpur e apparteneva a una famiglia tarquiniese senza un briciolo di nobiltà nel sangue. Notò con piacere che la luce proveniente dalle alte finestre lo investiva in pieno, mettendolo in una condizione di disagio acuita dall’insistenza di Thucer. Poco convinto delle risposte dell’uomo, vaghe e contraddittorie, lo zilath lo stava incalzando per sollecitare un maggiore sforzo di memoria.

«Conoscevi quegli uomini?» chiese il magistrato. Dal tono spazientito si percepiva che la domanda era stata posta più volte.

«No» rispose Calpur. Anche da quella distanza Luchmon poteva distinguerne gli occhi cerchiati dalla stanchezza. Di certo non aveva dormito.

«Possibile che tu non li abbia mai visti? Fino all’anno scorso abitavano in città.»

«Non… non me li ricordo.»

«Perché li hai fatti entrare?»

«Io non li ho fatti entrare! Me li hanno mostrati i due ragazzi quando erano già morti.»

«Non hai sentito i rumori dello scontro?»

«No.»

«Prima hai detto di sì.»

«No… Cioè, sì, li ho sentiti, ma quando sono arrivato erano già morti.»

La tiritera proseguì per un po’, una sorta di testa a testa verbale che non portava da nessuna parte. Luchmon notò Axile seminascosto dietro una tenda. Se aveva bisogno di una conferma dei suoi sospetti, l’atteggiamento stranamente prudente del suo rivale lo convinse del tutto. Era stato lui a organizzare il tranello. Solo… non poteva accusarlo in pubblico. Senza prove sarebbe finita come la volta precedente, con un coro di risate a prendersi gioco di lui. Per contro, non poteva nemmeno fargliela passare liscia. Aveva un’occasione per vendicarsi e doveva per forza sfruttarla. Così, con l’aiuto di qualche spintone giunse in prima fila e si preparò a intervenire.

«Chiedo di poter parlare» disse, nel primo momento di pausa.

Thucer lo degnò appena di un’occhiata. «Siediti e aspetta il tuo turno. A tempo debito sentiremo anche te.»

Luchmon deglutì a vuoto. Temeva che non lo avrebbero ascoltato, ma non poté fare altro che obbedire.

L’interrogatorio della guardia si protrasse a lungo. Intanto la sala si era riempita e Kalaturus l’aveva raggiunto, avvertendolo con una leggera spallata accompagnata da un aperto sorriso, per poi accomodarsi accanto a Ekphantos. Uno dopo l’altro erano arrivati tutti i personaggi in vista della città, persino Ceisus Thefrinai, che di solito disertava simili occasioni; si era presentato insieme ai suoi migliori allievi, il figlio Aker e Tanaquil.

Splendida come sempre nonostante il pesante mantello in cui era avvolta, e che ne nascondeva le forme, la visione della ragazza sembrò fornire ad Axile il coraggio di uscire allo scoperto. Il camthi andò a posizionarsi al suo posto, nella zona riservata ai consiglieri.

Alla fine Thucer, stufo di non concludere nulla, ordinò di incarcerare Calpur con l’accusa di negligenza. Questi si fece trascinare via da due soldati, a testa bassa e senza protestare.

«È il tuo turno, figlio di Demarato» annunciò lo zilath. «Vieni e racconta cos’è successo ieri sera.»

Il magistrato aveva lo sguardo arcigno, quasi cattivo, come se avesse di fronte il colpevole, non la vittima di quanto era accaduto. La voce poi era severa, con una sfumatura di scetticismo che avrebbe scoraggiato chiunque.

Luchmon si fece forza, avanzò nella stanza e prese il posto del soldato.

«Ieri sera mi è stato teso un tranello» iniziò con voce incerta. Mentre un filo di sudore gli colava lungo la schiena, il rossore salì a imporporargli le guance. «Avevo un appuntamento alla porta settentrionale, ma invece della persona che aspettavo ho trovato quei due bastardi che mi hanno aggredito.»

Si guardò intorno temendo le risate del pubblico. Non ve ne furono. Aveva su di sé l’attenzione di tutti, facce estremamente serie in attesa di ascoltare la sua versione dei fatti; persone che riponevano in lui la speranza di chiarire la dinamica dell’accaduto. Forte di quella convinzione, Luchmon scacciò la paura e continuò a esporre l’accaduto, narrando ogni dettaglio del suo duello.

Mentre parlava spostava lo sguardo alla ricerca dell’approvazione dei presenti, ma senza soffermarsi troppo su nessuno di essi. Non guardò mai in direzione di Axile.

«Finito il mio avversario ho aiutato Kalaturus a sbarazzarsi del suo. Ci sarebbe riuscito da solo,» concluse, scambiando un’occhiata d’intesa con l’amico «ma in due abbiamo fatto prima. La guardia è accorsa solo allora. Da come ha reagito quando ha visto i due sicari a terra è stato evidente che si aspettasse un altro esito.»

Thucer arricciò le labbra. «Accusi quindi Calpur di… cosa?»

Luchmon strinse i denti. «Non posso fare nessuna accusa. Non è mio compito, e comunque non potrei provarlo. Però mi è sembrato strano il suo tempismo; pareva che i criminali aspettassero proprio me. E mi è sembrato» aggiunse, dopo una pausa che gli era venuta naturale «che qualcuno abbia assistito nell’ombra, per poi dileguarsi a scontro concluso. Sono sicuro che fossero coloro che hanno organizzato l’agguato.»

«Hai idea di chi possano essere?» chiese Thucer.

Luchmon esitò. Si guardò le mani, congiunte in grembo, poi alzò gli occhi e fissò il magistrato. Quando fu certo di avere la sua attenzione li mosse in direzione di Axile. Fu un movimento impercettibile, riservato solo allo zilath, che comprese al volo.

«No» rispose poi. «Non sono riuscito a vederli.»

Anche Axile si accorse dell’occhiata: se gli avesse puntato contro il dito non avrebbe potuto essere più efficace. Arrossì e affondò la testa tra le spalle. Per fortuna anche Thucer comprese il linguaggio degli occhi e, a tutela del figlio, agì di conseguenza.

«Senza accuse, né prove, non si può procedere oltre» affermò. «E io non ho intenzione di perdere altro tempo con questa faccenda. Abbiamo due morti e un colpevole di mancata vigilanza. Per me può bastare.»

Si alzò in piedi, e tutti lo imitarono in segno di rispetto. La folla iniziò a discutere, un vociare che crebbe d’intensità e scemò subito dopo, a mano a mano che il salone si svuotava. Anche Luchmon fece per andarsene, ma Thucer lo fermò con un imperioso gesto del braccio.

Luchmon si voltò a cercare Ekphantos, ma il filosofo si limitò a fargli un cenno d’approvazione, gratificante quanto mille parole, quindi uscì come tutti gli altri.

Solo quando restarono soli, Thucer parlò di nuovo: «Ora puoi rivelare ciò che pensi, liberamente».

Luchmon lo guardò, ma non rispose.

«Ho apprezzato quello che hai fatto oggi, ragazzo» proseguì il nobile. «Volevi accusare pubblicamente mio figlio ma hai preferito non crearmi problemi. Però mi devi una spiegazione.»

Così Luchmon gli raccontò di Holaie, del fasullo invito di Tanaquil e delle persone che avevano assistito nell’ombra, senza intervenire.

«Non ci sono dubbi» affermò Thucer. «Dietro a tutto questo c’è la mano di mio figlio.»

«Lo pensi anche tu?» domandò Luchmon incredulo.

Le labbra dell’uomo si tesero in un sorriso amaro. «La vostra rivalità è nota a tutti. Inoltre conosco bene Axile. Gli voglio bene, ma so che tende a sopravvalutarsi. Il suo potere deriva direttamente dal mio, così come la ricchezza. Sin da bambino si è abituato a ottenere quello che vuole grazie all’oro e… in città non vedo nessun altro che abbia sufficiente disponibilità economica per ingaggiare due sicari e corrompere una guardia. Oltre alla tua famiglia, intendo.» Fece una breve pausa, poi riprese: «Adesso voglio chiederti un’altra cosa: perché non lo hai accusato? Non puoi averlo fatto solo per riguardo nei miei confronti. Il coraggio non ti manca, mentre sovente manchi di accortezza. Ci dev’essere quindi un motivo più forte».

Luchmon esitò, incerto su quanto rivelare a quell’uomo troppo potente che, fino a quel momento, non aveva perso occasione per umiliarlo. Alla fine scelse ancora la strada della completa e semplice verità. «Accusare uno Spurinna di fronte a tutti, senza prove, equivale a condannarsi da soli» ammise. «E poi… hanno usato Tanaquil come esca. Mi hanno convinto che voleva incontrarmi e io ci sono cascato. Non voglio che si sappia in giro. E non voglio tirarla in ballo.»

Thucer annuì, apparentemente soddisfatto delle risposte. «Bene. Vedo che finalmente hai acquisito un briciolo di saggezza. Adesso puoi andare» lo liquidò.

Luchmon si guardò intorno. La sala, vuota, faceva un certo effetto. Dal centro poteva vedere le pitture murali partire dal livello del pavimento per innalzarsi verso il soffitto dalle robuste travi di legno scuro. Pareva più grande e più bella del solito. Averla usata per trattare con la più alta carica cittadina, da pari a pari, o quasi, lo fece sentire importante. A ciò si aggiungevano altri piccoli piaceri: aveva parlato in pubblico con l’attenzione di tutti, era riuscito a trovare il giusto equilibrio tra le parole e i gesti, tra il dire e il non dire e, cosa più importante, aveva smascherato Axile, guadagnandosi quanto meno un po’ di rispetto da parte dello zilath.

Compiaciuto, si avviò all’uscita.

Dopo pochi passi la voce imperiosa di Thucer lo bloccò di nuovo.

«Luchmon.»

Si voltò.

«La faccenda si chiude qui. Ti sono debitore di un favore, ma non t’illudere di poter controllare me o la mia famiglia. Io resto ancora lo zilath

Luchmon assentì.

Appena usciti dalla sala del Consiglio, Tanaquil chiese a Ceisus il permesso di assentarsi. Lui glielo accordò con una scrollata di spalle. Per il vecchio Thefrinai non c’era alcun problema.

Aker provò invece a informarsi: «Dove vai?» le chiese.

«Devo sistemare una cosa» rispose lei senza aggiungere altro.

Aveva visto Axile imboccare il vicolo retrostante il palazzo, così corse come una furia per raggiungerlo. Lo superò e gli si mise di fronte, le gambe allargate come a impedirgli la fuga.

«Cane vigliacco» lo insultò, puntandogli contro un dito. «So tutto!»

Axile parve sorpreso. «Cosa vuoi dire?»

«Mi hai usata come esca per attirare Luchmon!»

«Che dici?» balbettò lui.

«Holaie» rivelò Tanaquil, come se affermasse l’ovvio. «Ti sei scordato di lei? Ha avuto paura di essere chiamata in causa, ed è venuta a confessarmi tutto. L’avevi convinta che si trattasse di uno scherzo, eh?»

Axile non seppe come replicare. I suoi capelli biondi gli cadevano flosci fino alle spalle, e in quel momento sembravano stoppie che lei avrebbe volentieri incendiato.

«Quegli idioti… hanno travisato» farfugliò infine. «Doveva essere solo un avvertimento, nessuno sarebbe dovuto morire.»

«Vedo che continui a raccontarmi balle!» urlò Tanaquil. Fu in quel preciso momento che si rese conto di dover piantare Axile. Stranamente, quella consapevolezza ebbe il potere di calmarla, lasciandole addosso soltanto un residuo senso di delusione. Non c’era altra soluzione: il primogenito della famiglia più importante di Tarquinia, cresciuto con la convinzione di essere il migliore di tutti, non avrebbe mai concesso a nessuno di innalzarsi fino al suo piedistallo. Con lui sarebbe stata solo una serva; più importante di altre, ma comunque sottomessa. Non lo poteva accettare. «E io che speravo che un giorno mi avresti considerata al tuo livello…»

«Tanaquil, io ti considero più di ogni altra donna» provò a rimediare lui, avvicinandosi. «Ho scelto te perché…»

«Solo perché tutti mi vogliono» lo interruppe. «Conquistandomi, dimostreresti la tua superiorità!» Gli mollò un sonoro ceffone, mettendoci tutta la sua forza. «Almeno in questo adesso siamo pari» dichiarò. Quindi lo oltrepassò e lo lasciò ad accarezzarsi la guancia in fiamme.

Mentre si dirigeva verso casa incrociò Luchmon, che camminava fiero e baldanzoso. Poteva vantare la stessa altezza di Axile ma non i suoi muscoli. Procedeva con un’andatura dinoccolata, buffa ma allo stesso tempo attraente. La barbetta rada, poi, stava a testimoniare lo sviluppo ancora incompleto.

Anche se da bambina aveva più volte ceduto a quello strano impulso che la spingeva ad aiutarlo, una volta cresciuti non l’aveva mai preso in considerazione come uomo: non era un aristocratico e si accompagnava a quel gruppo di ragazzetti senza speranza, destinati in un modo o nell’altro a perdere la battaglia della vita. Tuttavia, il fatto che non avesse citato il suo nome né quello di Holeia, evitando il loro coinvolgimento, era sintomo di una certa nobiltà d’animo. Inoltre, l’ardore sicuro con cui aveva parlato di fronte a tutti e il coraggio dimostrato la sera precedente glielo avevano appena fatto vedere sotto una luce diversa.

Per un attimo pensò di ringraziarlo, poi fu vinta da un’improvvisa e inspiegabile timidezza che le bloccò la voce in gola, così rimase in silenzio e abbassò la testa.

Con la coda dell’occhio notò che Luchmon le sorrideva.

Senza riflettere troppo, ma ascoltando solo l’istinto, alzò il capo e ricambiò.