Mare dei Tirreni, 640 a.C.
Il robusto vento di nordovest sferzava le vesti di Hanipal, torreggiante a prua come la bandiera infissa sul ponte da combattimento dell’Adria. La nave guizzava sulle acque rapida e potente, spinta dalle continue folate che gonfiavano la grande vela rettangolare dell’albero maestro. Accucciato contro una murata, Luchmon studiava il pirata dal basso: da quando erano partiti alla volta della Grecia, quattro giorni prima, aveva osservato con scetticismo crescente quello strano personaggio. Gli uomini dell’equipaggio lo seguivano con fiducia incondizionata, solerti nell’eseguire ogni ordine come alunni ansiosi di compiacere il maestro, tuttavia a Luchmon pareva che oltre l’aspetto esotico e al timore che incuteva ci fosse ben poco, tanto da portarlo a considerare veritiere le voci che lo identificavano come uno sbruffone con in mano un timone.
A bordo si sentiva un estraneo. I marinai formavano un gruppo collaudato, e mal tolleravano la sua intrusione nell’equilibrio dei loro ruoli. Non poteva biasimarli: ai loro occhi era soltanto un giovane e ricco rampollo di famiglia, una presenza fastidiosa e al contempo destabilizzante. Come se non bastasse dovevano insegnargli il mestiere stando attenti che non gli accadesse nulla, una preoccupazione in più che gravava sulla ciurma peggio di nuvoloni neri incombenti all’orizzonte.
Gli unici momenti di svago erano le chiacchierate col comandante, per lo più vanterie al limite dell’assurdo ma tutto sommato divertenti. Mentre lo ascoltava, trascorreva la maggior parte del tempo a ricordare le ultime parole di Tanaquil. Parole chiare, che gli avevano infuso una speranza che non perdeva occasione di cullare.
Le sue riflessioni vennero interrotte da un gesto di Hanipal, che lo invitò a salire sul ponte d’assalto. Luchmon si alzò di malavoglia ma lo raggiunse senza obiettare.
Si trovò di fronte lo spettacolo dello Stretto: la terra sembrava convergere in quel tratto di mare come in un potente abbraccio. In lontananza si ergevano le mura di Messina, la città che pareva sorgere dalle acque.
Hanipal tese il braccio verso ovest, a indicare due barche in avvicinamento. Luchmon si sporse all’infuori, ma impiegò del tempo a distinguerne le fattezze. «Greche» affermò alla fine.
Il pirata si era già voltato, pronto all’azione.
«Ammainate la vela!» gridò. La voce di tuono sovrastò l’intensità del vento. «Gli arcieri sul ponte! Tutti gli altri ai remi!»
Il cuore di Luchmon perse un battito, mentre osservava impietrito Hanipal. Gli occhi accesi, il corpo quasi accresciuto da un misterioso vigore, pareva rapito da qualche demone. Anzi, sembrava che l’intera Adria fosse posseduta: la nave esplodeva di febbrile attività, gli uomini erano pervasi dalla violenta energia del loro comandante.
Hanipal lo tirò in disparte per lasciare spazio agli uomini con l’arco, non più marinai ma pericolosi animali bramosi di battaglia.
Luchmon trovò finalmente la lucidità per protestare: «Che stai facendo?».
«Abbordiamo, ragazzo» rispose Hanipal mentre si recava a grandi falcate verso il timone.
«Questo non faceva parte degli accordi!» protestò Luchmon correndogli dietro. «Dobbiamo svolgere una missione per mio padre, non fare bottino!»
Una sola occhiata di Hanipal bastò a togliere di torno il giovane marinaio che governava la robusta barra. Il comandante la afferrò, e la nave cominciò a virare. «Non preoccuparti, faremo prestissimo.»
«Potremmo affondare!»
«Bah.»
«Non capisci? A Corinto…»
«No, ragazzo, sei tu che non capisci» l’interruppe Hanipal. «In mare comando io. Vale la mia legge, che tu lo voglia o no. Restami vicino e goditi lo spettacolo.»
Quindi il pirata tornò a occuparsi dell’Adria, lanciata verso le due navi, sempre più vicine. Sembrava un grande burattinaio che orchestrasse un teatro di morte.
«Guarda, ragazzo!» urlò Hanipal mescolando le parole a una risata fragorosa e indicando le acque di poppa ben visibili dal timone.
Lì, tra la spuma, Luchmon vide un gruppo di delfini accompagnare giocosi la corsa della nave.
«I nostri antenati ci guidano e proteggono!» tuonò il pirata. «State pronti!»
La ciurma proruppe in un grido feroce. Un frastuono che si ripeté poco dopo, quando il rostro dell’Adria penetrò la fiancata della prima barca, quella più piccola, in uno schioccare d’assi. Schegge di legno schizzarono ovunque. Dal ponte d’assalto una pioggia di frecce piombò sui nemici, semplici marinai che, sebbene pronti a difendersi, non erano attrezzati alla battaglia come l’equipaggio etrusco.
Hanipal ordinò ai rematori di arretrare.
La nave speronata, ormai spacciata, si inclinò e imbarcò acqua. Il pirata allora manovrò in modo da affiancare l’altra.
L’abbordaggio fu preceduto da un ulteriore intenso lancio di frecce, stavolta ricambiato.
La gigantesca mano di Hanipal calò sulla testa di Luchmon, che si accucciò insieme a tutti gli altri. Una punta acuminata colpì l’uomo accanto, che crollò con un grido strozzato, poi le murate si toccarono e gli etruschi si riversarono sul ponte della nave nemica, in un cozzare di ferro e urla.
Hanipal afferrò Luchmon per un braccio e lo tirò su. «Tu resta qui!» ordinò. Quindi, senza ulteriori indugi, balzò oltre il parapetto.
Trattato come un qualunque ragazzino, Luchmon sentì la collera deflagrare dentro di sé. Ma anziché lasciarsi travolgere, come faceva sempre, la imbrigliò per tenerla a freno e sfruttarla al meglio, come se cavalcasse un poderoso stallone. Sfoderò il kopis che aveva al fianco e si gettò nel cuore dello scontro. Puntò dritto verso la zona in cui combatteva Hanipal, deciso a dimostrargli di che pasta fosse fatto. Il primo nemico gli si parò di fronte: un essere tutto pelle e ossa che impugnava un semplice bastone di legno. Luchmon schivò il colpo e affondò la lama diritta nel cuore, in un unico movimento fluido.
Non ebbe il tempo di capacitarsi dell’estrema facilità con cui aveva ucciso perché si trovò ad ammirare Hanipal nel pieno dell’azione.
Il pirata dominava l’intera scena. Forma iconica e bizzarra al contempo, seminava morte tra i nemici senza sforzo apparente, urlando incoraggiamenti ai suoi, che parevano trascinati dall’energia del loro comandante.
Luchmon ne fu talmente colpito che si fermò a osservarlo, ammirato.
Una distrazione che rischiò di essergli fatale.
Un marinaio lo colse di sorpresa, attaccandolo da sinistra.
Luchmon alzò il braccio per parare, ma il colpo in arrivo perse all’improvviso potenza. L’uomo si bloccò a un passo da lui, con il coltellaccio ancora alzato e, piantata nel ventre, la spada ricurva del pirata.
Hanipal lo raggiunse un istante dopo, il volto sudato tirato in una smorfia. «Ora sai perché la chiamano Canto di morte» disse. Facendo leva con un piede, estrasse l’arma dal corpo dello sventurato. Quindi, con la lama sporca di sangue, tornò a gettarsi nel caos della battaglia. Saettava tra i nemici, letale come lo stesso Charun, il dio della morte.
Lo scontro si risolse in breve tempo: i pochi superstiti si arresero presto a Hanipal, che ordinò di metterli al lavoro. Sotto lo sguardo vigile degli etruschi, i prigionieri dapprima gettarono in acqua i compagni deceduti, quindi, muovendosi a fatica sul ponte viscido di sangue ed escrementi, trasferirono a bordo dell’Adria il notevole carico di stoffe, spezie orientali e vino. Fu trasbordato anche un giovane prigioniero, un greco, a giudicare dall’aspetto, probabilmente una delle tante vittime delle continue guerre tra le varie città elleniche.
Con un gesto imperioso Hanipal bloccò un marinaio intento a trasportare un piccolo baule riccamente intarsiato, dando prova di ottimo fiuto. Ne sollevò il coperchio. «Oro!» esultò. «Abbiamo perso poco tempo e fatto ottimi affari.»
Ma quando si rivolse a Luchmon, nella sua voce non c’era traccia di allegria: «Se non sbaglio ti avevo ordinato di rimanere sull’Adria» ringhiò. Poi, senza aspettare una risposta, gli intimò di seguirlo. Lo condusse tra i marinai feriti, radunati in disparte in attesa di conoscere il proprio destino.
Camminò in mezzo a loro per osservarli con attenzione, quindi si arrestò in prossimità di uno che respirava a malapena, un rantolo disperato alla ricerca d’aria.
«Concedigli una morte rapida» ordinò Hanipal offrendogli una delle sue spade.
Luchmon strabuzzò gli occhi, incapace di comprendere il senso della richiesta. Forse una vendetta per avergli disobbedito?
«Forza, ragazzo, è un gesto di pietà e di rispetto» lo incalzò il pirata. In quelle parole, pur sensate, c’era una sfumatura di perverso compiacimento. «Devi imparare a farlo, se vuoi diventare un uomo. Finiscilo!»
Luchmon rifiutò l’arma ed estrasse il kopis. Quindi si chinò sul ferito. Lo afferrò per la nuca e gli sollevò la testa. Il marinaio, scosso da fremiti incontrollabili, riuscì ad aprire gli occhi imploranti, due sfere vitree che gli s’infissero nell’anima. Luchmon ebbe la sensazione di non essere più padrone del suo corpo, quasi stesse osservando la scena da fuori. Si vide sostenere lo sguardo dell’uomo e piantargli la lama nel cuore. Con un ultimo, debole sussulto, il greco si afflosciò sulle luride assi del ponte.
Luchmon restò ancora un istante con la lama in pugno, inebetito, finché la voce severa di Hanipal lo ricondusse in sé. «Ben fatto» si congratulò. «Vedo che il fegato non ti manca. Però hai commesso un errore: se ammazzi per dovere, non fissare negli occhi la vittima. Sarà tutto più facile. Se invece odi chi stai per uccidere, allora fallo. Assapora la sua paura. Nutriti di quell’odio mentre lo finisci, proverai un piacere immenso.»
Mentre rimuginava su quelle parole, Luchmon ebbe l’impressione che la voce di Hanipal fosse davvero quella dello stesso Charun.
Ripensò quasi ogni giorno a quell’episodio. Gli occhi imploranti del ferito lo cambiarono: prima di quello sguardo c’era un ragazzo inconsapevole, dopo quell’incontro un giovane uomo. Si trovò spesso a riflettere sulla morte, nel buio della sua cuccetta, un mucchio di paglia addossato a una delle murate ricoperto da qualche pellaccia rovinata da salsedine e intemperie, domandandosi se quello che si diceva sull’aldilà corrispondesse al vero, se fossero tutti destinati a vagare come ombre, se esistesse un premio per i giusti. Ma soprattutto si trovò a pensare alla sua vittima. Chissà se era stato una brava persona, se aveva passato i suoi giorni a sudare e faticare in mare per mangiare, o se invece si trattava di un poco di buono, un codardo, un falso. Chi poteva dirlo? Di certo il destino, che tesseva la trama dell’esistenza come un sarto divino, aveva intrecciato i fili della loro esistenza per un motivo ben preciso. Alla fine Luchmon si convinse: quel gesto, quella pietosa pugnalata, non era fine a se stessa; il suo significato non si era esaurito su quel ponte insanguinato, ma avrebbe esteso la sua influenza ben oltre. Si sentiva più forte, perché il greco non era morto invano, ma per renderlo migliore.
In breve tempo acquisì più fiducia, più certezze. Seppe di poter guardare Charun in faccia senza paura, vincendo il più grande timore di ogni essere umano: l’ignoto, il buio in agguato oltre la vita, tutto ciò che non avrebbe più potuto attecchire su di lui.
Adesso era pronto ad affrontare ogni sfida.