Vulci, 620 a.C.
Un mese dopo la visita a Ostia, Luchmon abbandonò Roma nottetempo, cavalcando verso nord in compagnia del fidato Kalaturus. Nel pomeriggio del giorno successivo, quando in lontananza avvistò Vulci, spinse la bestia al galoppo, ansioso di arrivare a destinazione per sciogliere i muscoli indolenziti e togliersi di dosso la polvere del viaggio. La sedentaria vita di mercante e faccendiere lo aveva indebolito: anche se non aveva abbandonato l’esercizio fisico, di cui necessitava per sfogarsi, aveva perso in parte la resistenza, e se un tempo quella escursione non gli avrebbe causato alcun fastidio, adesso sentiva fitte di dolore provenire dall’interno coscia e dalla schiena.
Un dirupo si frapponeva tra lui e la città, nascosto dalla vegetazione riparia.
Se ne accorse troppo tardi. Tirò le redini, e Pulum tentò di fermare la propria corsa e riuscì a piantare gli zoccoli nel terreno proprio sull’orlo del baratro. Luchmon si sentì scivolare via sul pelo lucido di sudore dell’animale. Strinse le gambe e afferrò la criniera, riuscendo a rimanere in groppa. Sorpreso, e forse impressionato dall’abisso che si spalancava sotto di loro, Pulum si impennò. Luchmon lo colpì con un pugno sul collo, e solo così la bestia si placò e indietreggiò, riportando entrambi a distanza di sicurezza.
«Hai rischiato, amico mio» gli disse Kalaturus raggiungendolo.
«C’è mancato poco» rispose ancora tremante per lo spavento.
Smontarono entrambi.
Sul lato opposto si estendeva il vasto pianoro di tufo su cui era stata edificata Vulci. A dividerli, il fiume Fiora, che scorreva nel suo letto incassato tra due sponde verticali, una decina di pertiche più sotto.
Luchmon si sporse sullo strapiombo e represse un brivido: in basso, tra le pietre, un ammasso di pali di legno testimoniava il fallito tentativo di costruzione di un ponte.
Seguirono il corso del fiume verso valle finché non raggiunsero un guado. La corrente era forte, ingrossata dalle piogge dei giorni precedenti, ma i cavalli erano robusti e loro sapevano come affrontare la situazione, perciò passarono oltre senza troppe difficoltà.
Da lontano Vulci pareva del tutto simile a Tarquinia, e Luchmon fu colto improvvisamente dalla curiosità. Solo varcando le porte delle mura Luchmon poté vedere l’abisso che divideva le due città. Poche le case con più di un ambiente, ancora più rare quelle di pietra. Si scorgevano per lo più capanne edificate con mattoni di argilla, sparse senza una logica apparente, come un qualsiasi accampamento. Le strade erano nulla più che un reticolo di solchi di fango tracciati in mezzo all’erba, riempiti dall’acqua che vi ristagnava senza poter defluire. A mano a mano che proseguivano verso il centro, però, iniziarono a essere rivestite con grosse lastre che combaciavano alla perfezione. Anche gli edifici migliorarono: sulla via si aprivano le botteghe di ceramisti e intagliatori che avevano reso fiorenti i commerci, portando ricchezza a chi amministrava la città. In prossimità dell’incrocio tra le due vie principali si trovavano palazzi maestosi, rigorosamente di pietra intagliata, tra i quali spiccava quello di Virginio Tarnas. Quando vi giunse, scortato da due soldati della locale guarnigione ai quali aveva chiesto indicazioni, Luchmon valutò che fosse esteso almeno quanto quello di suo padre. Le forme, però, erano del tutto innovative. Il tetto era più alto e, in un angolo, i maestri costruttori avevano perfino innalzato una specie di torretta. Nulla di troppo grande, ma l’ardimento architettonico la diceva lunga sull’ambizione del suo proprietario.
Luchmon smontò da cavallo sotto il portico e lasciò le briglie a un servo. L’interno era altrettanto splendido, e rivaleggiava con la casa di suo padre. Al centro del giardino un piccolo specchio d’acqua con ninfee catapultava gli ospiti in una natura che placava i sensi. Tutto intorno si notava il tocco degli artisti greci invitati ad abbellire l’ambiente con la loro maestria. In fondo, si disse, Tarnas era come un re: incontrastato padrone della città da almeno vent’anni, signore della guerra temuto da alleati e rivali, aveva spadroneggiato in quella parte d’Etruria come un sovrano assoluto.
Le guardie lo precedettero fino all’ingresso del triclinio. Lì bloccarono Kalaturus e si fecero da parte, lasciando entrare solo Luchmon.
La stanza era magnifica, illuminata dai fuochi di una doppia fila di bracieri disposti lungo le pareti affrescate.
Virginio Tarnas si alzò da uno scranno di legno con intagli d’avorio, posizionato sul lato opposto della stanza a mo’ di trono, e gli andò incontro. Aveva i capelli candidi ma ancora folti e lunghi, lasciati cadere morbidi sulle spalle coperte dal lungo tebenno color porpora che scendeva a coprire le gambe.
«Lieto di conoscerti, giovane Luchmon» disse allungando le mani. Lo afferrò per le spalle, poi arretrò di un passo per osservarlo meglio.
«Sei identico a tua madre» considerò l’ometto.
«La conoscevi?» domandò sorpreso.
Tarnas sgranò gli occhi. «Ah, Thaita! L’ho sempre detto a Demarato: quella è la tua più grande fortuna. A tuo padre non ho mai invidiato le ricchezze, ma la persona con cui ha condiviso la vita. Quando è morta ci sono rimasto male, tuttavia se fossi stato in lui mi sarei risposato. Per quanto, trovare una donna di quel livello…»
Luchmon sospirò. I ricordi di Tathia erano ormai sbiaditi da tempo, perché Demarato non aveva mai raccontato troppo, nessun aneddoto, nessun episodio che rivelasse la personalità della madre. Solo Ekphantos gli aveva narrato qualche piccola curiosità, però nulla di troppo personale. Si costrinse a ricacciare indietro il senso di nostalgia che si era insinuato nel petto e tornò a concentrarsi su Tarnas. Era spiazzato sia dalla parlantina, sia dall’intimità della confessione su Tathia, e questo lo rese incerto sul comportamento da tenere e su come proseguire la conversazione.
L’altro dovette accorgersene e scoppiò in una sonora risata. «Perdonami! Ultimamente mi si accusa di rammentare troppo spesso i tempi andati. Ma se sono ripetitivo la colpa è tutta della noia che mi affligge, mentre la faccenda della nostalgia, ecco… è stato il pensiero di tua madre a risvegliare in me tanti ricordi. Alcuni piacevoli, altri tristi. Se vuoi, un giorno li condividerò con te, per il momento limitiamoci a parlare del motivo della tua visita. Ebbene, dimmi, cosa ti conduce qui?»
Fece cenno di seguirlo e si avviò verso una finestra. Lì, prese posto su una comoda sella curule, dalla classica forma a X, imbottita di morbidi cuscini.
Luchmon si concesse uno sguardo fuori: oltre i tetti di paglia scuriti dal sole, il verde dominava l’intera pianura. In lontananza, nella penombra del crepuscolo, credette d’indovinare il mare. Poi sedette di fronte al suo ospite.
Negli ultimi anni aveva affinato l’abilità oratoria. «Sono venuto per chiedere il tuo aiuto» disse diretto, con una franchezza e un ardire che sorpresero lui per primo.
«Lo so. Lo so. Per quanto distanti, le voci corrono, tra le dodici città.»
«E… cosa dicono?»
«Sembra che un numero ingente di mercenari abbia lasciato le proprie abitazioni. Ammetterai che la storia puzza.» Gli occhi di Tarnas erano due feritoie che lo fissavano come per scrutare nel profondo dell’anima. «Sei a Roma da un bel po’, Luchmon: hai intenzione di conquistarla?»
Lui fece una smorfia e soppesò il silenzio. Aveva mandato un paio di fidati collaboratori a tastare il terreno con altri signori etruschi, raccomandando a tutti la massima segretezza. Evidentemente non era servito; Tarnas era più scaltro di quanto aveva immaginato. «Speravo in un po’ di discrezione» si lamentò a cuore aperto, conscio che negare la verità sarebbe stato controproducente.
«Argomenti del genere non possono rimanere nascosti per molto» ridacchiò Tarnas. «Dunque confermi queste teorie?»
«Solo in parte.»
«Coraggio, allora» lo spronò Tarnas, sporgendosi in avanti come a voler raccogliere una confidenza. «Racconta! Dimmi quali sono le tue reali intenzioni. E bada bene, non mentire. Me ne accorgerei.»
Luchmon si abbandonò sullo schienale per il tempo di riordinare le idee. Non sapeva se Tarnas fosse davvero capace di intuire la più piccola menzogna, d’altro canto nemmeno poteva fidarsi completamente, così scelse la sicurezza di una via intermedia e gli propinò una versione della storia appena edulcorata. «Sto cercando di formare un esercito che rappresenti le dodici città, un gruppo di soldati in servizio permanente a disposizione dell’Etruria.»
«Nobile intento. Ma sappiamo entrambi che un esercito può servire a difendere o attaccare. Tu che intenzioni hai?»
«Difendere» lo rassicurò. «Anche se a Tarquinia mi considerano ancora uno straniero io mi sento etrusco, e non voglio combattere contro il mio popolo, ma per esso.»
La sottile patina di verità che avvolgeva la sostanziale menzogna fu spazzata via da Tarnas con la consueta ironia: «E questo cosa c’entra con la tua lunga permanenza a Roma?».
«Si tratta solo di affari» abbozzò.
Lo sguardo penetrante del suo interlocutore conteneva una miscela di severità e comprensione, degna di un perfetto genitore. Forse fu per questo che si convinse a vuotare il sacco. «La verità è che voglio conquistare Roma» disse con un sospiro profondo quanto il vicino dirupo. «Ho provato in tutti i modi a emergere, ma senza esercito non ho nessuna possibilità. Il Senato si aspetta di scegliere il re tra i suoi membri e, come se non bastasse, Anco Marzio sta preparando suo figlio alla successione. Non ho alternative, se voglio il potere dovrò prenderlo con la forza.»
Tarnas scoppiò in una risata divertita. Si batté una mano sulla coscia, ma tornò subito serio. «Sei ambizioso. L’ho detto, somigli a tua madre.»
«E sono ricco abbastanza per foraggiare un esercito. Roma non è inespugnabile, i romani non sono invincibili. Grandi combattenti, certo, ma noi abbiamo molte più armi e cavalli. Però non posso affidarmi unicamente ai mercenari, sai meglio di me che quella gentaglia può abbandonarti alla prima difficoltà. Tu sei il primo signore a cui propongo una vera alleanza. Se mi seguissi, anche gli altri lo farebbero.»
Tarnas si alzò dalla sedia e prese a passeggiare per la stanza. Richiamò un servo per accendere le candele, a un altro ordinò di predisporre la cena.
«Ho bisogno di pensarci su» disse, mentre nell’aria si diffondeva un piacevole aroma di fiori, forse rose. «Stasera sarai mio ospite.»
«Kalaturus…» disse Luchmon.
Tarnas fece uno svolazzo con la mano. «Noi due, soli. Così potremo parlare in pace.» Quindi si avvicinò e lo prese sottobraccio.
Combattendo contro l’istinto di liberarsi, Luchmon lo seguì nella stanza adiacente, decorata con una miriade di losanghe colorate, dal pavimento alle pareti, dove sprofondò tra pelli e cuscini di un comodo letto di bronzo. Ai profumi di fiori si sostituì quello altrettanto piacevole della carne cotta sulla brace, delle spezie e dei vapori del vino. Un musicista attaccò una lenta nenia con il lituo, mentre i servitori iniziarono una piccola processione portando vassoi colmi di vivande.
Ma la bontà del cibo non era la loro priorità.
Discussero per tutta la cena di ogni possibile dettaglio della conquista di una città: tattiche militari e di assedio, numero di soldati, cavalli e cavalieri, masserizie e approvvigionamenti e perfino spie. Preparato in ogni ambito, Tarnas quasi lo travolgeva con le sue proposte, e alla fine gli fornì preziosi consigli.
Solo alla fine, quando ebbero sviscerato pressoché ogni aspetto relativo all’argomento, Luchmon si concesse una malinconica divagazione: «Dimmi, com’era mia madre?».
Tarnas, che non aveva bevuto nemmeno un sorso di vino, si fece riempire una coppa e la vuotò d’un fiato. Con le guance arrossate, per il vino o l’imbarazzo, sorrise comunque, come se fosse lieto di avere una nuova occasione per parlare di lei. «Bella. Senza dubbio. Ma quello che più mi affascinava di Tathia era la grinta. Aveva una specie di forza interiore che la spingeva a emergere sopra tutto e tutti. Tracimava dallo sguardo, da quegli occhi scuri che ti si piantavano addosso come lame. C’era un’energia unica in quello sguardo, una determinazione feroce, che non ho più rivisto in nessun altro. Fino a oggi. Tu le somigli, te l’ho detto.»
«Hai provato a… conquistarla?»
Tarnas scosse la testa. «Macché! È stato Demarato a presentarmela quando ormai erano sposati. Altrimenti…»
«Altrimenti?»
«Gli avrei reso la vita difficile. Anche se non credo che avrebbe scelto me. Per qualche motivo che non mi spiego era davvero innamorata di tuo padre. Credo che fosse attratta dal suo carattere.»
Luchmon tagliò in due un melograno e cominciò a piluccarne i chicchi. «Mio padre era un debole.»
«Attento, giovane Luchmon» fece Tarnas puntandogli contro l’indice. «Mansueto e calmo non vuol dire debole. Se dici così significa che non l’hai mai visto contrattare un prezzo. Era capace di vendere sabbia agli egizi!»
«Ma di fronte agli Spurinna ha sempre chinato la testa!»
«Perché, conosci qualcuno a Tarquinia che non lo faccia?» domandò il signore di Vulci alzandosi. Dal ghigno che gli comparve sul viso si capiva che era una domanda retorica.
Luchmon si mise seduto. «Io mi sono sempre opposto ad Axile. Ho lottato con tutte le mie forze per evitare che fosse nominato zilath, ma sono stato sconfitto.»
«Lo so» disse Tarnas. Aggirò il letto per posizionarsi dietro di lui. Gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle, come a volerlo consolare. «Ho i miei informatori. In questo momento non è possibile togliere il potere agli Spurinna. È impensabile. Come se qualcuno volesse fregare me, qui a Vulci. Tuttavia…»
«Cosa?»
«L’idea di fare un dispetto al figlio di Thucer mi stuzzica. Non mi è mai piaciuto il modo in cui mi tratta. Sembra che si senta superiore a me solo perché ritiene la sua città più importante della mia. Come se il prestigio di un uomo potesse essere misurato solo dalla grandezza del posto in cui vive.»
«Allora mi darai i soldati?» chiese Luchmon impaziente, voltando la testa a scrutare il volto di quell’uomo così coriaceo. La discussione era stata lunga e produttiva, ma Tarnas non aveva mai dato l’assenso finale. Dalle sue labbra non era mai uscito il sì definitivo.
Il vecchio furbastro tornò al suo posto e si grattò la nuca. Negli occhi il dubbio. «Sai perché tuo padre e io siamo diventati così ricchi?»
La risposta salì alle labbra di Luchmon senza che avesse bisogno di riflettere: «Perché siete abili mercanti».
Tarnas scosse la testa. «Sbagliato. Perché il nostro obiettivo finale è sempre stato il profitto. Quindi, io ti domando, giovane Luchmon: cosa ci guadagno?»
Ogni trattativa si compone di dare e avere, Luchmon lo sapeva fin dalla tenera età, per questo era arrivato a Vulci con le idee chiare su cosa poter mettere sul piatto per allettare Tarnas. Con un uomo già ricchissimo il denaro non sarebbe bastato, lo sapeva. Sapeva pure che la differenza tra il mercante in gamba e lo sprovveduto sta non solo nella capacità di stimare correttamente la merce, ma soprattutto nell’abilità di contrattare. «Stipuleremo un’alleanza segreta, tu e io, e con il mio esercito difenderò anche i confini a sud di Vulci» propose allora, conscio che comunque non sarebbe bastato.
«Mi sembra un’offerta misera» disse Tarnas, quasi scandalizzato.
Luchmon finse di esitare, di riflettere. «Dividerò con te il bottino di guerra, in proporzione agli uomini che mi darai» replicò poi d’un fiato, come se quel rilancio gli costasse un enorme sacrificio.
Tarnas scoppiò in una grassa risata. «Sei un provetto venditore» disse. «Si vede che nelle tue vene scorre il sangue di Demarato! Però non mi basta. Quanto ad abilità a mercanteggiare non sono secondo a nessuno, sappilo. Ma prima di farti la mia proposta finale te lo chiederò un’ultima volta: intendi davvero tentare il tutto per tutto, anche rischiare la vita, per conquistare Roma?»
Luchmon chinò il capo. «Lo giuro su Tinia, Uni e Menrva» disse solenne.
Dopo un ultimo, lunghissimo momento di silenzio, Tarnas cedette. «E sia» assentì. «Ti concederò i miei uomini. Terrò per me solo il minimo indispensabile per difendere Vulci. Ma…» si interruppe. Gli occhi diventarono fessure, e divenne serio. Un cambiamento repentino che spaventò Luchmon. «Il giorno in cui conquisterai Roma farai in modo di darmi un seggio in Senato.»
A Luchmon occorse ben più di un attimo per comprendere le implicazioni di quella richiesta. Se un volpone come Tarnas mirava a diventare senatore romano, era segno che, anche secondo lui, la città aveva grandissime possibilità di sviluppo. L’intuizione lo confortò, ma gli lasciò un dubbio. «Abbandoneresti Vulci?»
Tarnas annuì. «Senza esitare.»
«Perché, se posso chiederlo?»
«Te l’ho detto: mi annoio» rispose l’altro alzando gli occhi al soffitto. «È da troppo tempo che sono al potere. Senza avversari. Mai nessuna contestazione al mio operato. Gli abitanti di questa città si sono rassegnati a essere miei sudditi, è una condizione che accettano volentieri e non mi devo sforzare più di tanto per accontentarli. Gli basta quello che faccio per loro che, detto per inciso, è molto. Li proteggo, organizzo i giochi e li aiuto nei commerci con le altre città. E cosa ottengo in cambio? Nulla. Solo cieca sottomissione.»
«Non è male.»
«Non lo è per un anno. Per due, perfino per dieci. Ma dopo tre decadi, dominare un branco di pecore accondiscendenti diventa frustrante. Io ho bisogno di sfide, e tu, giovane Luchmon, me ne hai appena proposta una. Per questo l’accetto. E se riuscirai a diventare re di Roma, allora mi nominerai senatore.»
«Re di Roma…» ripeté Luchmon, gustando appieno tutta la potenza di quella parola. «D’accordo» disse infine. «Quando sarò re ti nominerò senatore. A quel punto però il nostro patto sarà sciolto e dovrai obbedirmi.»
«Mi metterò al tuo servizio. Un ultimo avvertimento, però» sibilò Tarnas con voce minacciosa. «Non provare a fare il furbo. Scordati di usare l’esercito contro le dodici città. Se solo ci proverai farò in modo che tu non esca vivo dalla battaglia. E ricorda, i patti vanno sempre mantenuti. Anche se le condizioni cambiano o il prezzo da pagare aumenta.»