CAPITOLO DICIASSETTESIMO

Riforme

Roma, 615 a.C.
Un anno dopo

Lucio si strinse nel mantello e respinse i brividi che gli salivano dalle ginocchia: il vento freddo di inizio autunno spazzava Roma con troppa foga per i suoi gusti. Si infilò in Senato contento, per una volta, di trovarsi in compagnia di tante persone: avrebbero contribuito a riscaldare l’ambiente.

Al suo arrivo il brusio si affievolì un istante per poi tornare a innalzarsi. Il gruppo più rumoroso era quello dei senatori più anziani di origine sabina, espressione dell’antica nobiltà romana ancora fedele ad Anco, che non lo avevano votato e insistevano ad avversarlo in tutti i modi. Compatti nell’osteggiare ogni sua decisione, nonostante le gelosie e le guerre intestine che da sempre li animavano, continuavano a considerare un affronto l’ascesa al trono di uno straniero, un etrusco di origini greche.

Lucio li ignorò e sedette sulla sella curule. Al suo fianco aveva voluto Kalaturus, l’unica persona in grado di svolgere, al contempo, le funzioni di guardia del corpo e consigliere politico. Fece scorrere lo sguardo chiedendosi chi, quel giorno, lo avrebbe attaccato per primo, e quale sarebbe stato il pretesto.

Non appena tutti ebbero preso posto, nella sala calò il silenzio imbarazzato dell’attesa.

Non durò molto. Pochi istanti dopo Tarquinio Toscano si alzò in piedi chiedendo di parlare.

Il fedelissimo di Anco Marzio continuava a svolgere il ruolo di suo principale e irriducibile avversario. Lucio aveva provato più volte a farselo alleato: pur consapevole dei rischi, gli aveva lasciato il comando della cavalleria, ritenendolo un gesto di benevolenza nei confronti della precedente monarchia e del popolo romano. Tale concessione, tuttavia, non era bastata a placare l’avversione di quell’uomo, che non perdeva occasione per contestare il suo operato. Toscano non faceva mistero dell’odio che provava nei confronti del nuovo re. «Gli taglierò i garretti del cavallo» aveva affermato un giorno, senza curarsi di abbassare la voce «e farò marcire le sue scorte di cibo.» Nonostante ciò le sue capacità in battaglia e il rapporto confidenziale che affermava di avere con gli dei lo avevano reso un uomo ben visto dagli altri politici, almeno stando alle apparenze. Così, per controbilanciare la sua potenza, Lucio aveva imposto ai vertici della nuova organizzazione militare i suoi uomini più fidati: Kalaturus con gli arcieri e Kagrantos con la fanteria. Una volta arrivato Hanipal, da assegnare alla sua guardia personale, Toscano, pur continuando a controllare il miglior reparto dell’esercito, sarebbe rimasto in netta minoranza.

Diversa era la situazione in Senato. Lì le alleanze mutavano di continuo, i nobili cambiavano pelle più spesso di un serpente e Lucio non sapeva mai cosa aspettarsi. Così, anche in quel frangente, accantonò ogni altra preoccupazione e si concentrò sul rivale, pronto a difendersi.

Tuttavia non fu Toscano il primo ad attaccare. «Stamani mi è giunta notizia che Apiolae si è rivoltata contro di noi» annunciò Publio Taruzio, una mano alzata e l’altra a sorreggere la toga. «Con la morte di Anco Marzio si sentono sciolti dal patto di non belligeranza. Perciò ti domando, Lucio Tarquinio, hai intenzione di porvi rimedio?»

Toscano colse al volo l’occasione: «Dobbiamo saperlo!» gridò. «Hai le palle per muovere guerra o adesso che sei re pensi solo a continuare ad arricchirti?»

Poche parole, ma velenose a sufficienza da scatenare una protesta corale che, una volta tanto, coinvolse la quasi totalità dei presenti. I senatori si alzarono all’unisono berciando verso un unico bersaglio: il sovrano. Lucio contò i pochi che erano rimasti seduti: non arrivavano a dieci. Anche una parte dei suoi sostenitori gli si stavano rivoltando contro; erano ingrati dalla memoria corta, già dimentichi dei favori e dei regali ricevuti. O forse corrotti dai rivali.

Si alzò a sua volta, gridando per ottenere l’attenzione generale. Anche lui era a conoscenza del problema, ma si trattava solo di sporadiche scorribande a cui non aveva dato peso.

«E tu, senatore Toscano, ti preoccupi per quattro sbandati a caccia di qualche pecora in più? Se questa è l’opinione che hai della forza di Roma, non mi stupisco che non ti abbiano voluto come re.»

Toscano aprì la bocca, ma non ebbe la prontezza di replicare.

Allora Lucio proseguì: «Comunque il nostro esercito è pronto. Gli etruschi si stanno integrando bene, diamo loro un inverno di tempo e… a primavera potrai guidare la cavalleria a sbaragliare gli apiolani».

«Perché hai imbastardito il nostro esercito con una torma di soldati stranieri?» l’attaccò ancora Publio Taruzio, seduto a gambe accavallate. «Non ti fidi forse di quelli romani? Credi che con l’aiuto di qualche mercenario tu possa migliorare il nostro possente esercito? Oppure vuoi soltanto metterli al comando per cacciarci via tutti?»

Lucio avvampò. Taruzio era tra tutti il senatore più ricco e influente. I legami profondi che aveva a ogni livello, nonché le ricchezze ereditate da generazioni, gli conferivano un potere in grado di impensierire ogni sovrano. E con quell’arguta osservazione aveva colto nel segno.

In difficoltà, si scervellò per trovare in fretta un modo per controbattere, ma comprese subito di essere caduto in trappola. Non potendo tergiversare oltre, decise di accontentare il Senato.

«E sia» proclamò. «Nonostante l’inverno si avvicini, scenderemo in guerra contro Apiolae. Li annienteremo una volta per tutte, con gli effettivi che abbiamo a disposizione. E lo faremo adesso, prima dell’Armilustrio!»

«Vedo che hai ascoltato le mie parole» affermò Taruzio, arrogandosi il diritto di confermare la sua scelta. Poi, ignorando il sovrano, si rivolse ai senatori. «Quanto a me, mi impongo una missione personale: controllerò io stesso l’operato del re. Perché non tradisca il Senato. Perché non tradisca Roma!»

Alcune grida di approvazione si levarono in risposta, probabilmente non tante quante ne avrebbe volute Taruzio, ma sufficienti a mettere in allerta Lucio. I senatori comunque parvero soddisfatti del provvedimento assunto: i più agitati si placarono e il resto della sessione scivolò via tranquilla. Discussero di commercio e delle leggi necessarie a regolamentarlo, di espansione della città e di nuovi modi per suddividere le terre, di ricchezze attuali e dei sicuri proventi dell’imminente guerra. Lucio mantenne un atteggiamento compassato, mascherando i propri timori. Sapeva fin troppo bene che si trattava di una tregua: la piena era appena passata e ne era uscito indenne, ma presto ne sarebbe giunta un’altra. Avrebbero trovato un altro pretesto per attaccarlo.

Al calar della notte, mentre faceva ritorno sul Gianicolo, residenza che alternava a quella nel palazzo reale dove invece dimorava di malavoglia, si confidò con Kalaturus, che lo seguiva incurante del freddo quasi invernale. «Toscano ci darà delle grane, prima o poi. Non mi piace l’idea di averlo al mio fianco in battaglia» disse, stringendosi ancor più nel mantello di lana. Non riusciva a placare i brividi che lo stavano squassando, un tremore acuito dalla brutta piega che avevano preso gli eventi e che non aveva potuto evitare. Scendere in guerra era un rischio anche per il re di Roma: per quanto scegliesse di tenersi lontano dalla mischia, poteva bastare un arciere dalla buona mira, o dalla fortuna sfacciata, per mettere fine alla sua vita. «Di certo non mi è fedele. Non so quanto Anco gli abbia raccontato dei dettagli del nostro accordo, ma è sicuro che Toscano si voglia liberare di me, come se volesse onorare la memoria del vecchio e trovare il modo di vendicarlo. Oltre che per prendere il potere, chiaro. Se non riesco a fermarlo…»

«Per te saranno guai» concluse l’amico.

«Già. E come se non bastasse c’è pure Taruzio» insisté. «Entrambi mi vedono come un traditore. Lo straniero che ha usurpato il trono. Insieme stanno manipolando il Senato. Devo riuscire a fermarli prima che conquistino la maggioranza.»

«E come? Hai già speso una montagna di denaro per… attirare le simpatie, e dopo neanche un anno quei bastardi ti si sono di nuovo messi contro. Viscidi voltagabbana, non puoi più fidarti di loro!»

«Infatti non lo faccio» disse Lucio. Da tempo rimuginava per trovare un modo di assumere un maggior controllo del Senato, così da non dipendere dalle paturnie di qualche decina di vecchi patrizi, e pur essendo giunto a una conclusione elementare e risolutiva aveva tergiversato per i rischi che comportava. Nondimeno, la situazione si era fatta insostenibile, così aveva deciso di metterla in pratica. Un sorriso furbesco gli comparve sul viso. «C’è un altro modo per raggiungere l’obiettivo.»

«Quale?»

«Basterà raddoppiare il numero dei senatori.»

La sua idea era semplice: avrebbe portato alcuni fidati etruschi nel cuore della politica romana, creando una cordata a lui favorevole guidata da Virginio Tarnas, da poco nominato anche prefetto urbano. Glielo doveva per la parola presa e anche per riconoscenza, ed era certo che l’amico di suo padre non lo avrebbe mai tradito. Come lui, altri nobili sarebbero venuti spontaneamente. Per arrivare al numero necessario, però, avrebbe dovuto agire anche in modo diverso. Dove non c’era spazio per fare leva sui sentimenti avrebbe usato mezzi differenti, un argomento a cui tutti erano estremamente sensibili: il denaro.

Con quello li avrebbe di certo convinti.

A tarda notte Publio Taruzio entrò da solo nel lupanare, quattro mura appoggiate a una roccia in cui erano state scavate tante piccole grotte. Ordinò alla scorta che lo accompagnava di restare nei paraggi, onde evitare sorprese.

La megera che gestiva il locale lo accolse con una carezza sul capo e un bacio, viscido e sdentato, sulla guancia.

«È sempre un grande onore, senatore» biascicò.

Publio trattenne una smorfia di disgusto e rispose con un mezzo sorriso. Quindi si guardò intorno alla ricerca della persona che gli aveva dato appuntamento.

«Il tuo amico ti sta aspettando» disse lei, anticipando la richiesta.

«Non siamo amici» precisò, stizzito. «Che aspetti, dunque? Conducimi da lui e prepara un paio delle tue migliori ragazze per dopo.»

Annuendo, la donna lo condusse in un locale appartato, una sorta di minuscolo anfratto scavato nella roccia, delimitato da una tenda. Lì, seduto a un tavolo illuminato dalle torce, lo attendeva Tarquinio Toscano.

«Senatore» lo salutò con un cenno della testa.

«Spero che tu abbia un buon motivo per avermi fatto venire fin qui» ringhiò Publio, mentre con cura deponeva su una pancaccia il prezioso mantello di stoffa. Con un cenno congedò la vecchia e accettò il vino che l’altro gli offriva. Poi si mise a sedere.

Toscano trangugiò d’un fiato il contenuto della coppa, emettendo un sospiro appagato. «Certo» rispose. Quindi fece un gesto teatrale, rivolto a una zona buia della stanza. Era una parte del locale adibita a magazzino, umida e avvolta nell’oscurità. «Il motivo è lui.»

Da lì emerse la sagoma di un uomo dal passato oscuro, conosciuto da tutti come Biagio. Nessun nomen, tanto meno cognomen. Nessuna importante famiglia alle spalle, ma un grande potere in mano: una rete di spie diffusa in tutta Roma che gli permetteva di carpire i segreti più intimi di ogni cittadino. Vestito di nero, con il cappuccio perennemente calato a coprire la parte superiore del viso, Biagio si chinò per salutarli, esibendo un sorriso falso come la promessa d’amore di una prostituta. «Salute a voi, signori» disse, la voce come una lama che si affila sulla cote.

Publio represse l’istinto di portare la mano al pugnale ma tese i sensi, pronto a reagire a qualsiasi evenienza. Si fidava poco di Toscano, che era un uomo notoriamente imprevedibile, e ancor meno di quel tizio, per il quale, si diceva, uccidere fosse meglio di un amplesso.

Biagio si accomodò al vertice di un ideale triangolo dai lati uguali, fissandolo con un ghigno sardonico.

«Giove in persona mi ha detto di organizzare questo incontro» esordì Toscano, trangugiando l’ultimo sorso di vino. «Credo che tu ne intuisca la ragione.»

«Ti ha sconvolto l’ampliamento del Senato, presumo» disse, un’ovvietà buona per esplorare il terreno e tentare di penetrare nei pensieri fin troppo lineari dell’altro.

«Già. Ha nominato solo uomini a lui fedeli, per giunta etruschi. Siamo finiti in minoranza» precisò Toscano con il tono pastoso acuito dal vino. «Senza contare che un uomo come Lucio, con i suoi soldi e tutto quel potere, può solo fare danni a quelli come noi.»

Publio non contemplava alcun “noi”, né in passato, né in futuro, ma evitò di farlo presente. «Allora? Cosa intendete fare?» domandò, camuffando senza sforzo la spontanea diffidenza in sincero interesse.

«Voglio proporti un’alleanza. Noi non siamo amici, ma Quirino in persona mi ha suggerito di rivolgermi a te, visto che abbiamo un legame che ci unisce, anche se fai finta di ignorarlo.»

Publio non ebbe difficoltà a leggere nella mente del dio. «Un nemico comune, Lucio Tarquinio. Dimmi, dunque, in che termini dovremmo collaborare?» chiese dubbioso, la mente già all’opera per pesare il possibile tornaconto ed eventuali svantaggi.

«Lavorando insieme potremmo… spodestare il re. Si tratta di un obiettivo ambizioso, lo so, ma non irraggiungibile, specie con il supporto di Biagio.»

A conferma di quanto asserito, Biagio si tirò su. «È difficile sfuggire a un agguato, se progettato nei minimi dettagli» disse. Nella sua mano comparve dal nulla un coltellaccio, che iniziò a far ruotare sulla punta del polpastrello. Con un movimento fulmineo lo afferrò e lo scagliò contro il muro, dove si conficcò nel legno di una torcia, spezzandola. Una metà cadde a terra in una pioggia di scintille, facendo sfrigolare il fuoco prima di spegnersi del tutto. «E quando me ne occupo di persona colpisco sempre il bersaglio.»

Per un battito di ciglia Publio pensò che si trattasse di uno scherzo. Poi, accertato che quei due intendevano sul serio mettere in atto quanto proclamato, mugugnò la sua perplessità. «I pericoli sono troppi. Il re è sempre ben protetto, senza contare che lui stesso è in grado di difendersi con maestria.»

«Il piano è audace, ma non prevede nulla di particolarmente complicato» ribatté Biagio. «C’è qualche rischio, certo, ma credo che ne valga la pena.»

«E con Lucio Tarquinio fuori dai piedi, noi prenderemo il potere» disse Toscano, allungando le gambe per stiracchiarsi. «Tu hai molta più influenza di me sul Senato. Io posso garantire la fedeltà dell’esercito. Biagio ha i suoi uomini, farà da informatore e collante.» Fece una pausa, lasciandogli il tempo di assimilare le sue parole.

«Facciamolo» insisté Biagio.

Publio non era altrettanto convinto, e si concesse alcuni istanti per riflettere. L’alleanza prometteva bene, erano un trio ben assortito, e alla fine riteneva di poter manovrare entrambi. Solo… pensava fosse prematuro architettare l’omicidio del re. Prematuro e troppo rischioso. «Sapete che cosa succederà se falliamo?» chiese.

Biagio annuì. Tarquinio invece rispose con un’espressione strafottente. «Per possedere una bella donna bisogna rischiare di essere sorpresi dal marito» replicò.

Publio non aveva l’impressione che le due situazioni fossero equivalenti, ed esitò di nuovo; ma l’occasione era ghiotta, e il re si stava facendo sempre più potente. «D’accordo» sospirò alla fine. «Facciamolo. Ma devo porre due condizioni. La prima: non voglio che sia ucciso subito. La guerra contro gli apiolani è ormai prossima e lui deve combatterla. Chissà mai che re Aterys non ci faccia un favore.»

Toscano approvò. «In quel caso ci penserò io ad assumere il comando. L’esercito di Roma non sarà comunque sconfitto.»

Publio acconsentì muovendo appena il capo, poi proseguì. «La seconda: voglio essere libero di agire come più mi aggrada. In Senato, ma non solo. Ci consulteremo, certo, ma non intendo sottostare a nessuno di voi.»

Ricevuto il mellifluo assenso di Biagio, si alzò in piedi. Recuperò il mantello e, con un elegante svolazzo, se lo mise in spalla. «Ora, se volete scusarmi, ci sono un paio di ragazze che attendono le mie cure.»

«Ehi» sogghignò Toscano mettendosi alle sue calcagna. «Siamo alleati, dovremmo dividerci anche i piaceri, no?»

Seppure a malincuore, a suggello della nuova alleanza, Publio acconsentì: «E sia!».

Abbandonato nella paglia del giaciglio, Kyros giocherellava con un capezzolo di Mirva. Ne percorse il contorno con l’indice, in un senso e poi nell’altro. Quindi si chinò a succhiarlo con improvvisa foga, come un neonato svegliato dalla fame.

Due robusti pugni sulla porta lo costrinsero a staccarsi.

Da fuori giunse la voce roca della vecchia matrona. «Mirva!» chiamò. «Fai in fretta! C’è un cliente importante che ha chiesto di te!»

La ragazza si divincolò, quindi gli prese il viso con entrambe le mani. Lo guardò con una dolcezza molto simile all’amore e gli scoccò un bacio sulle labbra, un tenero modo per liberarsi di lui. «Devo proprio andare.»

Kyros la prese per un braccio e la trattenne ancora. Anche se non l’amava, sentiva di volerle bene. In genere alla fine lei lo accarezzava sulla schiena, e intanto parlavano: il suono della sua voce aveva il potere di rilassarlo, e spesso si svegliava di soprassalto circondato dalle sue braccia. Un affetto che andava oltre i pochi pezzi di rame, che iniziavano a circolare a Roma come moneta, pagati per godere della sua compagnia.

Così Kyros la osservò sistemarsi e uscire, e rimase tranquillo a bere il vino avanzato. Solo dopo averlo trangugiato fino all’ultima goccia si decise ad andarsene. Uscì dalla stanza, salutò con una riverenza la megera e, con le gambe appena malferme, uscì nella notte.

Fuori dal lupanare, la luce della luna illuminava la scorta di qualcuno d’importante. Ne fu sorpreso. Di solito i patrizi avevano schiave personali, oppure si facevano condurre le prostitute direttamente a casa. Era davvero inusuale che uno di loro andasse a cercare il piacere in posti del genere.

La curiosità vinse il sonno, e badando a non farsi notare Kyros si appostò per capire chi fosse quel personaggio. Un’informazione che avrebbe potuto usare in mille modi. Si nascose nell’oscurità di un vicolo vicino.

L’attesa fu piuttosto breve. Scorse una figura uscire dalla porta d’ingresso avvolta in un pesante mantello, subito affiancata dai soldati. Riconobbe l’uomo quando questi mosse nella sua direzione. Si trattava di Publio Taruzio. Il senatore non disse nulla mentre si allontanava dal postribolo. Kyros attese che sparisse alla vista, ma quando fece per muoversi altre due figure uscirono dal vecchio caseggiato.

Il greco trasalì e tornò ad appiattirsi contro un muro. Uno dei due era il comandante della cavalleria, Tarquinio Toscano. La vista dell’altro, ammantato di nero ma con la parte inferiore del viso illuminata da una torcia, gli gelò il sangue nelle vene. Ne era certo: era l’enigmatico personaggio che gestiva le scommesse sui combattimenti clandestini. L’uomo che aveva ordinato di ucciderlo tanti anni prima.

Non poteva dimenticarlo.

I due si allontanarono parlottando e guardandosi intorno di sottecchi.

Kyros rimase nascosto ancora per un po’, indeciso sul da farsi. Avrebbe voluto tornare indietro per chiedere a Mirva cosa sapesse di quei tre, ma si trattenne. Se lo avesse fatto qualcuno avrebbe potuto insospettirsi, e non voleva che accadesse. Così fece ritorno alla casa del re, ripromettendosi di tornare al più presto da lei.

La casa costruita da Lucio in cima al Gianicolo era enorme, allegra, accogliente e in continua espansione. L’esatto contrario della domus regia, il cui ambiente freddo e tutt’altro che sfarzoso metteva un’infinita tristezza. Così, escluse le poche attività che doveva svolgere nei panni di nuova regina, Tanaquil passava buona parte del suo tempo nella vecchia abitazione. Quella mattina si trovava in cucina, intenta a preparare del vino speziato, quando uno dei servi annunciò l’arrivo del nipote.

Egerio entrò con il sorriso genuino dei ragazzi e gli occhi che non erano in grado di celare l’attrazione per le sue forme invitanti. Tanaquil era abituata agli sguardi degli uomini che indugiavano sul suo corpo ancora seducente, nonostante il passare degli anni. Quelli del nipote, poi, le facevano tenerezza. Comprendeva il misto di sensazioni, scoperte e pulsioni che animavano quella fase della vita. E sorrise tra sé constatando come Egerio non perdesse occasione per farle visita.

C’era però qualcosa che non andava nel comportamento del ragazzo. Da un po’ di tempo aveva preso a lamentarsi della sua sfortuna e dell’ingiustizia subita per la mancata assegnazione della parte di eredità che gli spettava. Un’ingiustizia che aveva un solo responsabile: Lucio. Le voci circolavano con insistenza, e Tanaquil le aveva udite da troppe bocche perché potesse trattarsi di banali dicerie.

«Buongiorno, zia» la salutò il giovane.

«Buongiorno, caro» rispose Tanaquil voltando appena il capo, senza concedergli il consueto abbraccio.

Egerio rimase perplesso per un istante, rigirandosi in mano un modello di fegato di bronzo. Forse aveva percepito qualcosa di strano nell’espressione di Tanaquil, ma si riscosse subito e cominciò a interrogarla sull’arte degli aruspici.

Tanaquil ascoltò distratta le domande sui momenti migliori della giornata per osservare il volo degli uccelli e le possibili forme dei fegati animali, rispondendo in modo evasivo. Poi si decise ad affrontare la questione.

«Oggi non ho tempo per parlare di religione» lo interruppe. Si pulì le mani con un cencio e lo gettò di lato, quindi si voltò per fronteggiarlo. «Devo dirti una cosa che al momento è più importante.»

«Va… bene» disse Egerio, il volto rabbuiato di chi si sente già colpevole.

«Mi è giunta voce che vai dicendo in giro che tuo zio Lucio è diventato re solo grazie ai soldi di Demarato.»

Egerio dapprima avvampò, poi chinò il capo senza ribattere, confermando la veridicità di quelle voci.

«E non perdi occasione per ricordare che saresti tu l’erede diretto di Demarato, in quanto figlio del primogenito» insisté Tanaquil, affondando l’accusa nel cuore acerbo del nipote senza che il suo tono perdesse però una sfumatura protettiva. «Si tratta di un comportamento scorretto. Tuo zio non ti ha mai fatto mancare nulla. Per lui sei come un figlio, e le tue accuse sono ingiuste.»

«Non è vero!» provò a difendersi il ragazzo rialzando di scatto il capo. Strinse i pugni con forza. «Se sono povero è soltanto colpa sua» aggiunse.

«Lucio è generoso con tutti. Se non sbaglio, quello te l’ha regalato lui» fece indicando il fegato.

Egerio tese la mano, aprì il palmo e glielo offrì. «Ridaglielo pure» sibilò di rimando. «Per me può ficcarselo in quel posto.»

Tanaquil strabuzzò gli occhi. Represse l’istinto di schiaffeggiarlo e si costrinse a concedere al nipote la possibilità di ritrattare. «Vuoi davvero che riferisca le tue parole al re?»

Lo sguardo risentito e cattivo di Egerio non mutò di una virgola. Inconsapevole della gravità della sua affermazione, ripeté la stessa frase, scandendo ogni singola sillaba.

Tutta la pazienza di Tanaquil si dissolse in un attimo, travolta da una vampata di collera. «Vergognati!» fece con voce volutamente cattiva. Lo ammonì puntandogli contro l’indice. «Dovresti prendere esempio da lui. Ammirarne il coraggio e la volontà. Essere orgoglioso di ciò che sta facendo e contribuire al futuro che sogna stando al suo fianco. Invece ti comporti come un moccioso!»

Egerio accusò il colpo, e proprio come un marmocchio viziato fuggì dalla stanza.

Tanaquil non lo seguì, certa che sarebbe tornato di lì a poco. Infatti, il nipote la raggiunse non molto dopo, in giardino.

«Ti chiedo scusa» borbottò il ragazzo.

«Vieni qui.» Tanaquil gli prese le mani nelle sue. Somigliavano incredibilmente a quelle di Demarato. E non era solo quello. Il portamento, alcuni gesti, il modo di incedere, tante cose in Egerio le ricordavano il nonno. «Non basta chiedere scusa. Devi comprendere quello che ti ho detto: tu sei parte di ciò che Lucio sta costruendo, devi aiutarlo a rendere Roma la gloria dell’Etruria.»

«Hai ragione» bisbigliò Egerio guardando solo per un attimo gli occhi di Tanaquil.

Poi, senza aggiungere altro, il giovane azzardò uno dei soliti abbracci, che lei accolse volentieri. Tuttavia Tanaquil ebbe la netta sensazione che qualcosa, fra loro, si fosse definitivamente spezzato.

Anche Egerio dovette provare la stessa cosa, perché si sciolse in fretta dall’abbraccio e se ne andò, ancora immusonito.

Tanaquil rimase a crogiolarsi al sole del mattino interrogandosi sui problemi insiti nel rapporto tra nipote e zio. Sapeva che alla lunga avrebbero potuto rappresentare un problema e che il solo modo per risolverli, o almeno provare a farlo, era affrontarli subito. Così fece preparare la sua biga e, portandosi dietro lo sbalordito Aulo solo per sorreggere una delle anfore appena preparate, andò a cercare Lucio.

Lo trovò nel giardino interno della domus regia, da solo, intento a esercitarsi con la spada contro immaginari nemici, in vista della guerra ormai imminente. I riccioli scuri, che scendevano fin sulle spalle, grondavano sudore e il petto era ansimante per lo sforzo. Indossava il solo gonnellino, mentre i piedi nudi danzanti alzavano piccoli sbuffi di terra.

Non si accorse subito del suo arrivo. Stava facendo roteare la lama nell’aria. Simulò un paio di affondi, la calò con forza verso il basso, appoggiando la punta sul suolo di terra battuta. Infine giunse le mani.

Tanaquil si avvicinò. «Tieni» gli disse versandogli dell’acqua. «Riposati un attimo.»

«Grazie» rispose Lucio riponendo l’arma. Un istante dopo la seguì, abbandonandosi a pancia in su a ridosso di un muro, in mezzo all’erba. «Ne avevo bisogno.»

Tanaquil sorrise, ma dentro di sé pensò che Lucio era diverso dal solito. Il corpo e le parole erano lì con lei, ma non i pensieri.

«C’è qualcosa che ti turba.» Era una constatazione, ma anche un modo per spingerlo a parlare.

«Già. Publio Taruzio e Toscano stanno tramando qualcosa» fece, il respiro ancora pesante. «Kyros li ha visti stanotte, all’uscita di un lupanare. E io sono costretto ad andare a combattere quattro ladri di polli…»

«Manda qualcun altro. Hanipal, per esempio. Non doveva essere già qui?»

«Non c’è più tempo. Tarquinio Toscano si è offerto di risolvere la questione, anche da solo, se necessario. Se gli impedissi di combattere sarebbe facile per lui accusarmi di codardia. Per contro, se lo lasciassi libero di agire e lui riuscisse a sconfiggere gli apiolani diventerebbe troppo popolare. Devo andare di persona, altrimenti passerò per debole. Quanto a Hanipal, lui sta ancora a Gravisca. Mi ha chiesto un po’ di tempo per sistemare i suoi affari, vedrai che arriverà quando avrò davvero bisogno di lui.»

Lucio si allungò verso una parete: una ragnatela di crepe si estendeva fino al tetto, segno che l’intonaco colorato si stava sbriciolando. Ne staccò un pezzo e lo gettò in un angolo senza celare il proprio disprezzo. «Queste quattro mura mi ricordano Anco, sono misere come lui. Voglio costruire un nuovo palazzo. Più grande. Più bello. Tutta la città dovrà esserlo. Basta acquitrini, strade fangose e capanne cadenti! Voglio vie lastricate circondate da case imponenti. Voglio che chiunque visiti Roma rimanga senza parole.»

Talvolta Lucio aveva la tendenza a sommare i tanti piccoli problemi che lo affliggevano trasformandoli in un solo grosso guaio all’apparenza insormontabile. Toccava allora a Tanaquil demolirlo in dimensioni e importanza, ritrasformandolo in semplici grattacapi da affrontare uno per volta. Abbracciò con forza il marito e lo baciò. «Ci penserai al tuo ritorno. In tua assenza Tarnas terrà buoni i senatori e io farò lo stesso con quel moccioso di Agrippa. A Tito invece dovrà pensare Kyros, io non posso certo seguirlo nei lupanari.»

I figli di Anco, per fortuna, per il momento si erano acquietati, ammansiti dalla pressoché infinita disponibilità economica che Lucio aveva messo loro a disposizione con lo scopo di viziarli al lusso, in modo da renderli dipendenti dal denaro e vincolarli a sé. In effetti spendevano parecchio, soprattutto Tito, che aveva da poco scoperto i piaceri di donne e vino.

Lucio rimase così per un po’, nutrendosi del calore di Tanaquil quasi come un neonato avvinghiato alla madre, finché lei lo allontanò con dolcezza. «Porta con te Egerio» disse. «Ha bisogno di uscire dal bozzolo che gli ha costruito attorno Ramtha, altrimenti non diverrà mai un uomo. Deve capire quanto sia difficile portare il peso del comando, quanto sia dura avere sulle spalle il fardello della vita di tante persone. Fai in modo che provi sulla sua pelle anche solo un briciolo dell’enorme carico di responsabilità che ti porti appresso. Forse così diventerà più umile e riusciremo a placare la sua invidia.»

La cima del monte Savello era battuta dalla brezza tirrenica, l’orizzonte era terso e sfavillante. Interamente circondata da mura, Apiolae sembrava un nido di roccia in cima a un colle. Pietra tra le pietre, dava un’impressione di solidità, e re Aterys Numeto si sentiva al sicuro, certo che fosse inespugnabile. Appena fuori dall’unica porta di ingresso, scrutava con il solo occhio che gli restava la campagna che digradava lentamente verso nord, in direzione di Roma. Era un uomo imponente, con i muscoli guizzanti e i capelli sferzati dal vento che battevano contro le spalle, irrequieti e irosi come il suo carattere. Indossava un corpetto di cuoio borchiato e le due spade corte, che amava usare in battaglia, gli pendevano ai fianchi. Pronto alla guerra, come sempre. Come ogni apiolano.

Quando vide i suoi uomini uscire dal bosco, qualche centinaio di passi più in basso, si fece loro incontro, ansioso di conoscere l’esito dell’esplorazione, ma si bloccò subito. Non li guidava Ulpio, il suo più fidato collaboratore, bensì un soldato che non riusciva a identificare. Maledisse ancora una volta il romano che gli aveva lasciato in dono un’orbita vuota, quindi contrasse la fronte e aguzzò la vista. Si accorse quindi che si trattava di un altro romano, spinto in avanti senza troppi complimenti dalle lance puntate alla schiena.

«Bravi» disse appena furono a portata d’orecchio. «Avete catturato uno di quei cani!» Detto ciò estrasse la prima delle spade e avanzò. «Voglio sgozzarlo subito!»

Quando Ulpio si frappose fra loro, Aterys dovette a malincuore rimandare il piacere di dispensare giustizia, ma continuò a tenere l’arma puntata in avanti.

«Si è consegnato a noi spontaneamente» rivelò il suo luogotenente. «Dice che ha una proposta irrinunciabile per te.»

Da sempre convinto di saper valutare una persona soltanto guardandola dritta negli occhi, ad Aterys bastò vedere la faccia butterata del nemico per provare ribrezzo e classificarlo come uno stupido, tuttavia decise che ascoltare non l’avrebbe certo danneggiato. «Qual è il tuo nome, romano?»

«Mi chiamo Pruciu, e vengo da Volterra.»

«Allora che ci fai con quei maiali?»

«Anni fa mi sono arruolato nell’esercito del loro re, quando ancora si faceva chiamare Luchmon. Un esercito etrusco» precisò il soldato. «Messo insieme con lo scopo di conquistare Roma.»

«Però adesso combatti per loro» sbuffò Aterys.

«Luchmon ci convinse promettendo gloria e grandi ricchezze, ma arrivati al sodo ha preferito patteggiare con Anco Marzio e stabilirsi in città.» Pruciu fece una pausa per sputare a terra tutto il suo disprezzo. «Così, invece di arricchirmi con il bottino di guerra mi sono trovato a fare il soldato per un popolo rozzo e con una paga misera.»

«Problemi tuoi» sentenziò Aterys, interessato alla storia del soldato solo nella misura in cui questa confermava l’ipotizzata stupidità.

Pruciu fece una smorfia. «Ho i miei problemi, è vero, ma sono nulla in confronto ai tuoi. Hai visto l’esercito che ti appresti ad affrontare? Sai che è enorme?»

Aterys fece scorrere lo sguardo sui suoi uomini, che annuirono di rimando con brevi cenni del capo. «Non importa» rispose. «Il tempo degli accordi è finito. Sappiamo che Roma intende espandere il suo dominio, perciò siamo giunti alla resa dei conti. Questo è il momento decisivo; combattere ora o soccombere per sempre.»

«Allora soccomberete» affermò Pruciu. «A meno che…»

L’esercito romano si preparò a marciare contro Apiolae in un cupo mattino di pioggia. Obiettivo dichiarato, quello di consolidare i confini e infliggere una lezione all’arrogante Aterys Numeto. Più sottile ma non meno importante, Lucio desiderava dare una dimostrazione di forza al Senato, perciò aveva chiamato a raccolta una grossa parte delle truppe, compresa la cavalleria e tutti gli arcieri. Ai piedi dell’Aventino, appena oltre il confine sudorientale della città, si issò in groppa al proprio cavallo portandosi in testa alla colonna.

«Tutto sistemato» disse Kagrantos.

Lucio annuì, nervoso per l’imminente battaglia. «Di’ agli uomini di muoversi.» Quindi tirò le redini e andò a posizionarsi al centro dell’esercito.

Cavalcò affiancato dal taciturno Kalaturus. Con l’amico di sempre non c’era bisogno di parole, spesso bastava un gesto, a volte anche solo un’espressione del viso per capirsi. Li seguiva suo nipote Egerio, fingendo una spavalda sicurezza ma incapace di proferire parola.

Il cielo di piombo e l’aria pesante li accompagnarono lungo l’intero percorso, finché, poco dopo il mezzo del giorno, l’esercito giunse in vista del colle su cui sorgeva la città rivale.

Tarquinio Toscano, che guidava l’avanguardia, fece fermare i suoi uomini alle pendici del monte Savello, dove la strada si infilava in un bosco fitto che lo stringeva da entrambi i lati e si trasformava in un sentiero che serpeggiava verso l’alto, ricoperto da un tappeto di foglie fradicie.

«Non serve essere Minerva per capire che questo posto puzza di imboscata!» disse, non appena Lucio lo affiancò.

Purtroppo aveva ragione: la vegetazione, particolarmente fitta, costituiva un ottimo nascondiglio per eventuali arcieri e, a eccezione di quell’unico sentiero, pareva avvolgere l’intero colle come un robusto e impenetrabile cappio in procinto di stringersi.

Invece di rispondergli, Lucio si rivolse direttamente a Kagrantos: «Manda avanti gli esploratori» ordinò, senza smontare da cavallo.

Il mercenario sbraitò ordini agitando le braccia per tracciare percorsi e direzioni. Lasciò loro giusto il tempo di dissetarsi, poi due pattuglie di etruschi si infilarono nel fitto della selva, una per ogni lato.

Fecero ritorno nel primo pomeriggio, riferendo che l’esercito apiolano li stava aspettando schierato di fronte alle modeste mura della città.

La cavalleria di Tarquinio Toscano riprese ad avanzare, allungandosi in una sottile fila che si incuneò nel bosco.

Gli alberi parvero agitarsi in risposta a quell’intrusione, ma soltanto Lucio lo notò. Cercò allora di portarsi alla testa della colonna, ma, ostacolato dal suo stesso esercito, bloccato in una sorta di imbuto, poté solo gridare: «Fermi, idioti!».

Troppo tardi. Prima che l’ordine raggiungesse le prime file, gli apiolani colpirono.

Dalla folta macchia una pioggia di giavellotti si abbatté sulla testa della colonna. Toscano fu colto alla sprovvista: i suoi uomini non potevano retrocedere. Scrutarono tra gli alberi alla sinistra cercando un nemico invisibile, impossibile da affrontare, quando un manipolo di guerrieri attaccò dall’altro lato. Demoni scaturiti dagli alberi. Un piccolo gruppo di fanti armati di lunghe picche completò l’accerchiamento, portandosi alle loro spalle e impedendo di fatto la ritirata.

«Maledizione!» imprecò Lucio.

Il suo grido si sommò alla moltitudine dei suoni della battaglia, una cacofonia impressionante che contribuì a diffondere il panico. L’esercito romano sbandò come un giunco al vento; nessun soldato era pronto a reagire, nemmeno i veterani, sorpresi nella loro supponenza.

Lucio si trovò in mezzo alla confusione e al terrore. Mentre cercava di far serrare le linee ai lati, si voltò a cercare Egerio: il ragazzo pareva aver perso il controllo e urlava, incapace di guidare il proprio cavallo, che si agitava al pari del suo cavaliere.

Lucio gli si accostò. Afferrò le redini del destriero e con un paio di strattoni riuscì a calmare l’animale. «Stammi vicino!» gridò poi al nipote, che sembrò svegliarsi dall’incubo in cui era caduto.

Poi allungò il collo e scrutò tutto intorno. Il suo sguardo indugiò a valle, dove la retroguardia stava mantenendo la posizione con qualche difficoltà, quindi si spostò a monte. Toscano stava spingendo i suoi uomini a proseguire in un’avanzata insensata. Presto giunsero dove il sentiero sembrava allargarsi in un falsopiano, separando di fatto la cavalleria dal resto del contingente. Una mossa stupida, pericolosa per lo stesso comandante, che si ritrovò in campo aperto circondato dai nemici.

Lucio non ebbe il tempo di domandarsi se Toscano l’avesse fatto di proposito, magari per salvare la pelle e metterlo in difficoltà, oppure se quella scelta fosse frutto della sua personale follia. Costretto a porvi rimedio, si infilò in un varco sulla sinistra e spronò il cavallo al galoppo verso gli uomini di Kagrantos, diventati tutto d’un colpo l’avanguardia. La sua voce si unì a quella del mercenario, che già tuonava sopra il cozzare del ferro e delle ossa troncate.

Lucio gridò a tutti di compattarsi, di serrare le file e di non cedere alla paura. Giunto nel mezzo di quella sorta di imbuto, però, si trovò impossibilitato a muoversi, facile bersaglio delle frecce nemiche. Quando un paio di esse sibilarono troppo vicino al suo elmo dorato e una terza si conficcò nel collo di un cavallo poco distante, smontò in fretta e costrinse Egerio a stargli dietro.

Estrasse la spada e fece l’unica cosa possibile: ordinò la ritirata. Con fatica i romani arretrarono dal buco dove gli apiolani li avevano costretti. La fanteria di Kagrantos obbedì come un solo uomo. Lucio mulinava morte, decimando coloro che avevano l’ardire di avvicinarsi troppo, ma i nemici sembravano non finire mai. In alto i cavalieri di Tarquinio Toscano, accerchiati, badavano ormai solo a difendersi. Impossibile avere il loro aiuto.

La salvezza prese invece le sembianze di un pirata, un gigante variopinto che disseminava terrore con una lama curva. Al comando di un manipolo di uomini inneggianti il nome di Luchmon aggredì il nemico da dietro, cogliendolo di sorpresa. Mosso dal suo lugubre canto di morte, si aprì la strada verso il cuore dell’esercito romano.

Hanipal Vibenna piombò sul campo di battaglia come un fuoco divino, spazzando via la paura grazie all’energia che emanava dalla sua figura. Le forze si moltiplicarono e le incertezze svanirono. L’urto dei pirati alleggerì il compito della retroguardia, che poté dedicarsi alle incursioni dai lati. La manovra costrinse una parte dei nemici a cambiare fronte di combattimento, e la battaglia volse in favore dei romani. Gli apiolani non esitarono a battere in ritirata, svanendo con la rapidità con cui erano apparsi.

Lucio si guardò intorno: rimasto al sicuro nella pancia della fanteria, Egerio reggeva le redini dei due cavalli, sconvolto e imbambolato ma in salute. Anche Kalaturus e Kagrantos stavano bene, entrambi impegnati a soccorrere i feriti e fare la conta delle perdite. Poi incontrò i denti d’oro di Hanipal e corse ad abbracciarlo.

«Stai perdendo parecchio sangue» disse preoccupato, osservando i tatuaggi delle braccia coperti di rosso.

Hanipal sbuffò, ripulendosi alla meglio con la fusciacca che gli avvolgeva i fianchi. «Sono tagli superficiali» minimizzò. Quindi lo avvinghiò per il collo, come se avesse ritrovato il quindicenne del viaggio a Corinto e non il re di Roma. «Allora, che ne dici dei miei guerrieri?»

Imbarazzato dal trattamento, Lucio si liberò a fatica, poi prese a massaggiarsi il collo. «Niente male, peccato siano lenti come il loro capitano. A proposito, perché ci avete messo tanto a intervenire?»

«Era tutto sotto controllo» rispose Hanipal scacciando l’aria con la mano. «Volevo solo vedere come te la cavavi…»

«Sotto controllo? Sotto controllo un accidente! Siamo stati traditi dai nostri stessi uomini!»

In quel momento arrivò Kagrantos, ancora trafelato, a confermare l’accaduto. «Gli esploratori sono spariti!» riferì rabbioso. Si sfogò conficcando la spada nel petto di un cadavere, che poi allontanò con un calcio.

Anche Tarquinio Toscano li raggiunse, paonazzo e fuori di sé, il volto una maschera di polvere ma nessuna ferita evidente.

«Maledetti etruschi!» sbraitò, sputando in faccia a Lucio le parole con un’acredine che aveva origine lontana e si spingeva oltre l’accaduto. «Bello scherzo ci hanno fatto i tuoi “fidati” esploratori. Per poco non ci ammazzavano tutti!»

Seppure in preda a una collera simile, Lucio si mantenne calmo e reagì con fermezza, la voce decisa. «Troverò chi ci ha tradito e lo punirò a dovere, stanne certo.»

Toscano distorse il viso in una smorfia disgustata. «La tua parola vale meno dello sterco. E un re che non sa scegliere gli uomini non è degno di Roma» attaccò. «Ad Anco Marzio non sarebbe successo.»

«Anco Marzio neanche sarebbe sceso in battaglia! E se mai l’avesse fatto, si sarebbe comportato proprio come te, badando solo a salvarsi la pelle invece di aiutare i compagni.»

«Io ho solo eseguito il tuo ordine» ringhiò Toscano, schiumando rabbia. «Hai detto di andare avanti, e così abbiamo fatto, fino a uscire all’aperto. Non scaricare su di me la tua inettitudine!»

«Sì, ma poi dovevi tornare indietro e dare manforte!» insisté Lucio. «Si tratta di semplice buonsenso.»

Con la mano sull’elsa della spada, Toscano si avvicinò. «Per giorni hai blaterato solo dell’assedio, senza preparare piani di riserva.»

Hanipal si mise in mezzo, come a proteggerlo dalla minaccia, tuttavia Lucio lo scostò senza complimenti e, il viso a meno di un palmo, tornò a fronteggiare quel pazzo. «Per distruggere Apiolae non servono piani» dichiarò a voce alta, in modo che tutti potessero sentirlo, ma continuando a guardare Toscano dritto negli occhi. «Domani lo dimostrerò.»

Con il respiro affannoso, Toscano sembrò sul punto di replicare ancora, invece, come se un dio gli avesse sussurrato prudenza all’orecchio, girò sui tacchi, biascicò un insulto a mezza bocca e se ne andò verso i suoi uomini, chiamandoli a raccolta per organizzarli.

Lucio non distinse chiaramente le parole dell’offesa, così finse di non averlo udito. Rimase a osservarlo mentre si allontanava, soppesandone la pericolosità, e si convinse che il mancato aiuto di Toscano non era stato casuale. Quell’uomo era disposto a tutto pur di danneggiarlo, persino a rischiare la vita, e lo avrebbe fatto anche a discapito del futuro di Roma. Voleva la sua distruzione a ogni costo.

«Un alleato più nocivo che utile» disse Hanipal ponendogli una mano sulle spalle, quasi gli avesse letto nel pensiero.

«Senza scrupoli, sì» confermò Lucio. «Ho fatto bene a tenerti nascosto fino all’ultimo. Ma d’ora in avanti dovrò stare più attento.»

L’assedio cominciò al mattino.

Iniziarono gli arcieri. Una pioggia di frecce cadde sulle mura e in città, costringendo i nemici a indietreggiare e permettendo così ai romani di avanzare. Coperti da robusti scudi, un gruppo di soldati arrivò a distanza di tiro e lanciò all’interno della città una selva di torce incendiarie, che colpirono alcune baracche. Non passò molto tempo che le fiamme divamparono feroci e si estesero. Presto per gli abitanti fu impossibile spegnere l’incendio.

Gli apiolani provarono a rispondere con le stesse armi, ma il grosso dell’esercito romano si trovava oltre la portata dei loro archi, e un solido muro di scudi bastò a proteggere la prima linea degli assalitori.

Aterys dovette ordinare ai suoi uomini di uscire e battersi in campo aperto. In preda al furore della battaglia respinse di persona alcuni assalti con qualche estemporanea incursione, ma i romani erano in numero maggiore.

Apiolae era allo sbando: i nemici arrivavano da ogni dove e i difensori erano decimati e impauriti, certi dell’imminente disfatta.

In piedi di fronte alla porta, Aterys continuava testardamente a tenere la posizione. Un manipolo di uomini riuscì a farsi strada, frapponendosi tra lui e i nemici, uno scudo umano in grado di reggere per pochi istanti.

«La città è persa!» gridò Ulpio. «Dobbiamo metterci in salvo!»

Aterys lo respinse e fece per tuffarsi di nuovo nel cuore degli scontri. «Non fuggirò davanti agli invasori!»

«Non ha senso, mio re.» Il suo uomo di fiducia lo aveva afferrato per un braccio. «Devi fuggire, solo così potrai vendicare la nostra città!» gli urlò in faccia.

Aterys Numeto fu colpito da quella verità, che fino ad allora si era rifiutato di accettare. Sfidare la potenza di Roma era stata una decisione senza senso. La disperazione gli serrò lo stomaco. Ma di una cosa era certo: non sarebbe mai fuggito. «Lotterò fino alla morte!» gridò.

La maggior parte del suo esercito abbandonò lui e la città ormai in fiamme. Solo un pugno di coraggiosi rimase, uomini che avevano creduto in lui a costo di sacrificare le proprie vite e quelle delle loro famiglie.

Il re li vide cadere uno dopo l’altro, dilaniati dalle terribili spade romane.

La sua sorte fu decisa invece da una strana scimitarra, impugnata da un terrificante demone che pareva appena uscito dall’Ade e sembrava deciso a ritornarvi in fretta con quanti più nemici possibile. Aterys fu certo di vedere una zanna dorata spuntare da quella bocca ghignante. Spaventato, afferrò un soldato per la spalla e glielo gettò addosso solo per avere il tempo necessario a fuggire.

La cavalleria di Tarquinio Toscano rintuzzò prontamente le ultime sortite dei nemici, mentre Kalaturus e Kagrantos guidavano numerosi attacchi diversivi per distrarre i nemici e fiaccarli. Gli uomini di Hanipal, invece, si occupavano della porta.

Lucio rimase nelle retrovie a dirigere e osservare, pronto a intervenire in caso di necessità, spiegando a Egerio, ancora terrorizzato, i meccanismi della battaglia. Apiolae crollò dopo un’intera giornata come un lottatore esausto che si accascia senza fuggire sotto i colpi di un avversario troppo forte.

Il saccheggio che seguì fu brutale: i romani sciamarono all’interno delle mura e dilagarono nelle vie della città in un’esplosione di violenza, passando a fil di spada i soldati latini feriti e facendo prigionieri gli altri, al pari di donne e bambini.

Lucio ordinò che si prendesse ogni ricchezza, senza dimostrare alcuna pietà, e costrinse il nipote a partecipare. Non gli risparmiò nulla, incitandolo a considerare quanto un re dovesse dimostrarsi forte, sicuro, senza tentennamenti, facendogli assaporare il prezzo del potere, e concludendo quel processo formativo ordinandogli di giustiziare alcuni dei traditori etruschi. Riservò per sé soltanto l’ultima esecuzione, quella del più vile, colui che aveva ideato il piano. E quando affondò la spada nel cuore del volterrano chiamato Pruciu, rigirandola senza pietà nelle carni, si abbeverò del turbine di espressioni che comparve su quel viso butterato: terrore prima, poi dolore, infine un indescrivibile strazio. Quando poi vi lesse la pace che spesso si accompagna alla morte, provò lo stesso sentimento, come se l’avesse assorbito attraverso l’elsa.

Prima di ordinare la ritirata fece incendiare tutto quanto era stato risparmiato dal fuoco. Se ne andarono da Apiolae lasciandosi alle spalle una città ancora preda di fiamme rossastre che salivano alte nel cielo.

Se il popolo romano accolse il ritorno dell’esercito festeggiando per un giorno e una notte, il Senato non fu altrettanto benevolo.

Alla prima riunione a cui Lucio si presentò, tre giorni dopo il rientro, sugli scranni dell’aula si accese subito la polemica. A innescarla fu Publio Taruzio, che lo accusò di adoperare le ricchezze conquistate per finanziare opere inutili o al solo fine di alimentare la propria gloria personale.

Tarnas intervenne in difesa del re, elogiandone la condotta in battaglia e spiegando nel dettaglio come Lucio avrebbe impiegato le nuove risorse. Fu tutto vano.

Gli altri senatori lo tacciarono di essere un bugiardo e uno straniero al soldo del sovrano, e da quel momento il Senato si trasformò in una baraonda di voci che si alzavano sempre più forti, come se gridare bastasse a rendere veritiere le proprie affermazioni. Le urla delle rispettive fazioni ricordavano quelle di un campo di battaglia, e si placarono solo quando Tarquinio Toscano si alzò per prendere la parola.

Lucio si accigliò, preparandosi alle menzogne che certo avrebbe udito.

«Molte cose sono state già dette, e pur condividendole non le ripeterò» esordì il comandante della cavalleria. «Voglio però contestare la ricostruzione del senatore Tarnas, che ha dato merito a Lucio Tarquinio di avere vinto la battaglia contro Apiolae. Ebbene, io ero lì, e vi posso assicurare che non vi è stato alcun merito. I nostri nemici erano inferiori di numero e male armati. E, nonostante questo, più di cinquanta romani sono caduti a causa di una cattiva strategia! Costui» proseguì indicando Lucio «non è degno di essere il successore del grande Anco Marzio!»

Nel Senato tornò a regnare il caos.

Furente, Lucio strinse i braccioli della sella curule finché le incisioni del legno non gli fecero troppo male. Allora prese un paio di respiri profondi, quindi si alzò in piedi e levò le braccia per ottenere l’attenzione di tutti. «Se gli apiolani erano pochi e senza armi, perché lo stesso Anco ha stipulato con loro un trattato di pace?» domandò, lo sguardo fisso su Toscano. «Se erano così deboli, perché il sovrano che tanto rimpiangi non è riuscito a sconfiggerli?»

«Perché è meglio avere una città con cui commerciare che una città distrutta.»

«A me pare invece che negli ultimi anni Anco avesse perso la forza di combattere. Quanto all’accusa di non essere degno del mio ruolo,» proseguì «vi ricordo che sono stato acclamato in questa stessa sala. Siete stati voi ad avermi scelto!»

Detto ciò, voltò le spalle a tutti e si allontanò, accompagnato da Kalaturus. Uscirono sotto una pioggia insistente e fin troppo fredda. Si strinsero nei mantelli e, senza parlare, si avviarono di buon passo verso il palazzo reale. Qui, mentre tendevano le mani e i corpi nudi verso un grande braciere, finalmente al riparo dalle intemperie e da orecchie indiscrete, furono raggiunti da Kyros, latore di cattive notizie.

«Mirva mi ha appena confidato che Taruzio e Toscano hanno intensificato i loro incontri, segno che stanno tramando qualcosa di grosso» confidò il greco, liberandosi degli abiti bagnati. Il suo corpo bianchissimo, magro e affilato, contrastava con i fisici robusti degli altri.

«Sì, ma cosa? Hai idea di quali siano le loro intenzioni?»

Kyros si portò a ridosso di un braciere e si strinse nelle braccia. «No. Tutto parte da Toscano, è sempre lui a organizzare gli incontri, a dettare i tempi. Taruzio gli serve come appoggio politico, mentre Biagio svolge il lavoro sporco; e se lo ha coinvolto non è certo per andare a cogliere fiori.»

Allora Lucio si lasciò andare. «Non è bastato sconfiggere gli apiolani, riempire Roma con le casse d’oro saccheggiato, le donne e gli schiavi fatti prigionieri» si sfogò. «Mi attaccheranno sempre, e a questo punto temo che non lo faranno solo in Senato. Hanno perfino la faccia tosta di contestare le mie vittorie, e i senatori a me favorevoli non hanno il carisma necessario a contrastare Publio, e soprattutto Toscano. Ho tentato di farmeli amici. Ho promesso cariche importanti, ruoli di tutto rispetto, ma non è servito. Sto rischiando la mia vita e quella di coloro che mi stanno vicino» concluse pensando a Tanaquil, in quel momento al sicuro nella casa sul Gianicolo.

«Dobbiamo trovare una soluzione in fretta» fece Kalaturus strofinandosi le mani per riprendere un po’ di sensibilità.

Kyros si affacciò alla finestra, fece per parlare ma si fermò di colpo.

Lucio lo raggiunse. Entrambi alzarono gli occhi al cielo. Si rivestirono in fretta e uscirono fuori, lasciando da solo Kalaturus, ancora troppo infreddolito.

Fiocchi di neve scendevano comparendo all’improvviso nell’alone delle torce, e scomparendo a contatto con le mani tese, il viso, il terreno.

Lucio provò ad assaporarne il gusto, tirando fuori la lingua come faceva da bambino, quando giocava spensierato e l’unica sensazione che provava, in momenti come quello, era la meraviglia. Non riuscì a rivivere la stessa gioia. Ricacciò i rimpianti nel passato e si chiese il motivo di quella spasmodica ricerca del potere, una ricerca che lo coinvolgeva nel profondo.

«Se ci pensi, la neve è come la morte» disse. «Quando arriva, copre ogni cosa e porta pace e silenzio.»

Kyros si limitò ad annuire.

Quando rientrarono, ognuno si perse nei contorti meandri dei propri pensieri. Lucio soppesò con calma la situazione. Più rifletteva e più gli pareva percorribile una sola strada. Una soluzione drastica, evidente come un solco nella neve. E rapida.

I cristalli di ghiaccio attutivano i rumori ammantando la terra in un abbraccio insolito, magico.

Kyros procedeva furtivo, avvolto in un mantello nero, disegnando su quella bianca coltre il tragitto del destino. Un’ombra leggera, che pareva veleggiare con la silenziosa agilità di un gatto. Un incedere fluido, elegante e scanzonato al contempo.

Scelse il percorso più sicuro, in una Roma che il freddo aveva reso deserta. Macchia nera sulla neve candida, si mosse ai margini del chiarore della luna e giunse, invisibile, nei pressi della grande casa di mattoni.

Si mise chino a osservarla da dove nessuno avrebbe potuto vederlo. Un brandello di notte tenebroso come la notte stessa. Il silenzio quasi irreale invitava al sonno più profondo. Non c’erano inservienti in vista, nessuna guardia, erano tutti chiusi a proteggersi dal gelo. Si prese il tempo necessario a ripassare mentalmente il piano che aveva elaborato, quindi si mosse deciso verso il retro dell’edificio. Balzò sul davanzale di una piccola finestra e scostò una grande tenda. Si mise in ascolto, attendendo che gli occhi si abituassero all’oscurità dell’interno. Il respiro di un uomo, reso pesante dal sonno, lo raggiunse subito. Poi la vista acuta gli mostrò i contorni indistinti di una grande sala. Sui lati, i giacigli di persone addormentate.

Kyros la attraversò senza fare rumore e andò dritto al suo obiettivo: la stanza da notte di Tarquinio Toscano. Il senatore, così tracotante da dormire indifeso, russava nel suo letto. Nessuno vegliava sul suo riposo.

Il potere annebbia la vista e la ragione e chiede, inevitabile, il suo tributo. Kyros lo sapeva, la vita glielo aveva mostrato da tempo.

Si avvicinò. Toscano sbuffava, disteso su un fianco, il sonno reso pesante dal vino. Lo spartano si prese alcuni istanti per pensare che quelli erano gli ultimi respiri di una vita. Avvertì il senso di onnipotenza che gli derivava da quel pensiero, ma non trovò motivo per goderne, tutt’altro. Dovette scacciarlo prima che quell’idea potesse mostrargli fino in fondo tutta l’amarezza dell’esistenza. Recuperò l’ironico distacco che sempre lo animava e mise mano al pugnale.

È così che il destino giunge sui mortali: una mano a premere forte sulla gola e un movimento fluido della lama. Carne tenera tagliata di netto, e mani che artigliano le braccia nel vano tentativo di liberarsi. Nessun rumore poteva uscire dalla bocca di Tarquinio mentre la vita abbandonava il suo corpo.

Kyros lo osservò morire, poi tornò nella notte.

Non prese la strada di casa, dove il pensiero lo avrebbe soffocato. Andò verso il porto, diretto alle locande, dove la parvenza del piacere avrebbe annullato il rimorso.