Roma, 609 a.C.
Cinque anni dopo
La lezione impartita ad Apiolae bastò per qualche anno a tenere buone le irrequiete città limitrofe. Lo stesso effetto ebbero, tra gli oppositori interni, le morti ravvicinate di Tarquinio Toscano e di Biagio, scontata conseguenza del temerario attentato al re, tragici eventi che resero la fama di Lucio ancora più sinistra agli occhi di chi lo odiava e calmarono i senatori, orientando i più critici a tenere atteggiamenti più cauti e riflessivi. Tuttavia, per assicurarsi che Publio Taruzio cessasse definitivamente le ostilità e rinunciasse alle macchinazioni, Kyros lo fece svegliare in piena notte da uno dei suoi uomini, con una lama appoggiata sul collo e una minaccia sussurrata all’orecchio.
Ma se i politici impararono bene la lezione, i confinanti tornarono troppo presto a imperversare nelle campagne controllate da Roma, e Lucio non poté fare altro che intervenire. Ancora una volta il celebre motto di Tullo Ostilio, “La pace è per i morti, la guerra per i vivi”, si stava dimostrando fin troppo veritiero.
Se Crustumerium cadde senza combattere, Nomentum tentò quanto meno di sottrarsi all’inevitabile destino di soccombere alla potenza di Roma. Il signore della città organizzò alcune bande di predoni e le spedì a compiere brevi razzie per ingaggiare scaramucce con l’esercito nemico, solo per rallentarne l’avanzata.
Il tentativo fallì.
Lucio distaccò una parte della cavalleria e si presentò sotto le mura con il grosso degli effettivi. L’enorme numero di soldati impressionò i nomentani, che uscirono dalla città innalzando simboli di pace e arrendendosi senza condizioni.
Ancora più convinto dall’esperienza personale che conquistare una città senza usare la violenza fosse il modo migliore per poi riuscire a governarla, Lucio risparmiò gli abitanti, permettendo loro di continuare a vivere nelle proprie case.
Diverso destino scelsero i cittadini di Collazia. Con l’esercito romano accorso in gran numero in vista delle sue porte, fece uscire i soldati in campo aperto in un disperato quanto vano tentativo di bloccarlo e tenerlo a distanza, mentre alcuni messaggeri venivano spediti a chiedere aiuto alle altre città sabine e latine.
Due giornate furono sufficienti alle truppe di Roma per annientare il nemico e penetrare all’interno del basso cerchio di pietre che qualcuno si ostinava a chiamare “mura”. Durante questa battaglia Egerio si distinse, per coraggio e intraprendenza. Fu una piacevole sorpresa, per Lucio. Il ragazzino astioso, incline al complotto e sempre pronto a contestare i suoi ordini si era trasformato in un valido soldato. Un po’ per premio, un po’ per toglierselo di torno, Lucio gli concesse una piccola guarnigione e, con soddisfazione di entrambi, lo lasciò in mezzo a un gruppo di prostitute a festeggiare la nomina a comandante della città.
I suoi uomini invece avevano sfogato i loro istinti con le collatine: nessuna di loro si era salvata dalla violenza che segue ogni conquista. In qualità di sovrano, Lucio non aveva partecipato al gigantesco stupro, perché simili atti non erano degni del suo ruolo, ma soprattutto perché l’unica donna che davvero desiderasse stava ancora a Roma, ad attenderlo nel loro palazzo, a nemmeno un giorno di cavallo dall’accampamento. Purtroppo, viste le circostanze, era come se Tanaquil si trovasse dall’altra parte del mondo.
Erano gli ultimi giorni di primavera. Giorni caldi, indizi di un’estate che si preannunciava torrida, fastidiosa come il polline che turbinava spinto dal vento. Un giorno, nel tardo pomeriggio, a capo di una ridotta delegazione composta da Kalaturus e pochi soldati, Lucio si apprestò alle mura di Corniculum, la quarta delle città ribelli, per trattare la resa. Un prato d’erba folta, già alta, verdeggiava sulle pendici del colle, tagliato quasi di netto da un profondo solco, la principale via di accesso. Dalla sommità dell’ammasso di pietre sapientemente disposte a costituire una robusta cerchia di mura fecero capolino una ventina di teste curiose.
Lucio sperò che quelle persone provassero timore e fossero sagge a sufficienza da arrendersi senza combattere. La proposta andava tuttavia avanzata, così si portò fin quasi sotto le mura, protetto dai soldati pronti a levare gli scudi. Si fermò a portata d’orecchio, mise le mani intorno alla bocca e parlò con voce possente: «Gente di Corniculum! Sapete chi avete di fronte e perché siamo qui. Non voglio mentirvi, non ce n’è bisogno. Vi dirò la cruda e semplice verità: il mio obiettivo è annettervi a Roma, e non intendo retrocedere finché non vi sottometterete. Ma prima di macchiare di sangue questi prati voglio darvi un’alternativa». Fece una pausa, per lasciare alle sue parole il tempo di penetrare anche nelle teste più dure. «Arrendetevi subito. Aprite le vostre porte e lasciateci entrare. Avrete salva la vita e potrete continuare ad abitare nelle vostre case. Altrimenti non avrò alcuna pietà.»
In risposta, una testa sormontata da un selvaggio cespuglio di capelli, senza elmo, si levò più in alto delle altre. «Tu, invece, non sai con chi hai a che fare, pezzo di sterco!» ringhiò. «Io sono Tullio, signore di Corniculum, e non ho paura del tuo branco di cani rognosi.»
«Allora sei soltanto un folle che desidera la morte» rispose Lucio. Aveva sentito parlare di quell’uomo come di un abile combattente, aggressivo, amante del comando e della battaglia al punto da essere spesso definito un guerrafondaio, e le sue parole non facevano altro che confermare le voci.
Anche la risposta non lo stupiva, come non era sorpreso dalla leggerezza con la quale metteva a repentaglio la vita dei suoi concittadini, che parevano avergli concesso un potere assoluto. Quali che fossero i retroscena o le motivazioni, non poteva farci niente.
«Se questo è il tuo volere e la tua gente è disposta a seguirti nella tua pazzia, non ho difficoltà ad accontentarti. Domani i miei lupi assedieranno la città, e giuro su Giove che distruggeranno ogni cosa. Dirò loro di non risparmiare niente. A voi la scelta! Avete tempo fino a mezzogiorno di domani.»
«Non serve aspettare, Lucio Tarquinio» rispose Tullio, pronunciando il suo nome con evidente disprezzo. «Vuoi una risposta? Eccola!»
La sua testa sparì, subito seguita dalle altre.
Gli uomini della scorta scattarono: tre scudi furono posizionati di fronte, altrettanti in alto, a formare un’unica impenetrabile protezione.
L’aria sibilò. Lucio attese l’arrivo delle frecce, ma, invece del suono secco della punta che si conficcava nel legno, udì un tonfo sordo, come quello prodotto dalle palle di neve lanciate dai ragazzini. Schizzi di un liquido freddo, viscido, lo colpirono di traverso, persino in viso. L’odore pungente era inconfondibile.
«Merda!» disse furibondo. «Ci stanno tirando addosso la loro merda. Svelti, andiamocene!»
I soldati si mossero come un sol uomo, arretrando in perfetto sincronismo, sempre attenti a proteggere il loro sovrano. Quando furono a distanza di sicurezza si aprirono per valutare le conseguenze dello scherzo. Gli scudi, il pelo dei cavalli, loro stessi erano ricoperti di escrementi. Niente danni, solo una grossa beffa.
«Sono dei figli di scrofa, ma con un’ottima mira» disse Kalaturus.
Lucio si ripulì alla meglio la fronte con un lembo di stoffa rimasto intonso.
«Te ne vai, romano merdoso?» gli urlò dietro Tullio affacciatosi di nuovo.
Lucio sputò per terra e tese un braccio, indicandolo. «Tornerò presto» rispose. «Quando ti ucciderò con le mie stesse mani, la merda te la farai addosso, bastardo!»
Lucio non aveva alcun timore della battaglia. La morte non lo spaventava, tanto meno in scontri come quelli, in cui la superiorità numerica romana era così netta. Tuttavia non avrebbe mai creduto che quel piccolo manipolo di uomini che si ostinava a difendere la porta della città costituisse un ostacolo così arduo. Ben organizzati e con alcune basilari nozioni di combattimento in formazione, non si erano fatti attirare nella piana antistante, dove la cavalleria li avrebbe attaccati in contemporanea da due lati, ma erano rimasti compatti a formare il piccolo nucleo che faceva da ultimo baluardo.
Stufo di loro e della loro assurda e ostinata tenacia, decise di risolvere la questione di persona. Smontò da cavallo e, alla guida del gruppo di uomini più fidati, penetrò tra le loro file in una danza fatta di affondi, parate e qualche sporadica schivata che non lasciava scampo a chiunque provasse a ostacolarlo.
Giunto in prossimità della porta mulinò ancora la spada, un colpo verticale che tranciò di netto lo scudo dozzinale dell’ultimo avversario e scese a ferirgli il braccio. Senza quasi arrestare il movimento gli staccò la testa con un fendente obliquo, a salire.
«Chi è il prossimo?» gridò anelando altro sangue.
Ma all’esterno delle mura non c’era più nessuno. Restavano solo terra calpestata, cadaveri immersi nel loro sangue, viscere ed escrementi sparsi sul grande pendio fatto d’erba di sangue.
Lucio si guardò intorno, ignorando i gemiti dei feriti.
Rientrato da un viaggio giusto in tempo per prendere il comando della sua scorta personale, Hanipal gli rivolse un sorriso, i denti d’oro brillanti ai raggi del sole.
Kalaturus, in groppa al suo cavallo poco lontano, stava riordinando la sua centuria per un nuovo attacco.
Poco distante vide Kagrantos. I suoi amici più fedeli erano ancora vivi. Sollevò in alto la spada e lo scudo e si voltò verso l’esercito che gli stava alle spalle. «Questi stolti hanno rifiutato la nostra offerta. Non meritano nessuna pietà. Andiamo!» gridò. E fece per correre in avanti, verso l’interno della città.
Una mano gigantesca l’afferrò per la spalla. «Fermati» disse Hanipal con un tono di voce grave e autoritario. «Manda avanti i soldati. Là dentro anche un bambino potrebbe infilarti una freccia su per il culo!»
Il pirata aveva ragione, ma non volle ascoltarlo.
Incapace di tollerare chi si faceva beffe di lui e perciò vittima di una sorta di collera incontrollabile, Lucio si divincolò e corse in avanti pensando solo a scovare Tullio. Sentì comunque che le sue truppe scelte, provenienti dall’Etruria, lo seguivano dappresso.
Mentre correva lungo la strada principale, i sandali a schiaffeggiare l’acciottolato, ebbe il tempo di farsi un’idea di Corniculum: le case di legno, ricoperte da tetti di paglia e abbellite con fiori, parevano solide, ben costruite. Tutto l’insieme dava l’idea di gente abile, tenace e indomita, di una città ambiziosa e pericolosa; non c’era da stupirsi delle difficoltà riscontrate per espugnarne le mura.
Un’ultima pattuglia nemica gli si parò di fronte: Lucio si fermò, lasciando ai suoi soldati il compito di terminare la mattanza. Aggirò i combattenti senza difficoltà e giunse all’unico edificio di pietra. Di certo la casa di Tullio.
Rimasto solo, invece di aspettare rinforzi si fece allettare dall’idea di un duello. Desiderava scontrarsi fisicamente con il suo nemico, concentrare su di lui tutta la rabbia che provava e sconfiggerlo senza il supporto dell’esercito.
Abbatté con un calcio la porta, poi penetrò all’interno dell’unico ambiente. Le torce appese alle pareti illuminavano fiocamente una tavola ancora imbandita, due robuste sedie, qualche utensile di ferro e parecchie anfore addossate alle pareti.
In fondo, una figura stava rannicchiata su un pagliericcio con una coperta tirata fin sul naso. Nell’attimo che impiegò a capire che si trattava di una donna, l’ombra alla sua sinistra si condensò in una mastodontica figura umana.
Lucio alzò il braccio per puro istinto. Con lo scudo intercettò la lama che stava calando sulla sua testa e che invece lo ferì all’altra spalla, la destra. Scattò di lato e si mise in guardia, la spada protesa in avanti.
Ignorò il dolore, e il sangue caldo e appiccicoso che prese a scivolargli fino alle dita, per concentrarsi sull’avversario. L’intera testa di Tullio era un’esplosione di peluria riccia, brizzolata. Il torace possente, solo in parte coperto da una modesta armatura di cuoio, dava prova che l’uomo non trascurava i piaceri della tavola. Tuttavia l’istinto del guerriero continuava ad alloggiare in lui. Pareva ancora agile e pratico a maneggiare la spada, con la quale tentò di sorprenderlo con un affondo.
Lucio si scansò, spostandosi di lato. Reagì con un colpo orizzontale, ma un’improvvisa fitta gli rallentò i movimenti, rendendolo prevedibile.
Tullio lo respinse senza problemi con il proprio scudo. «Cane d’un romano!» gli ringhiò contro. «Mi prenderò la tua vita!»
Il dolore pulsante annebbiava la mente di Lucio, che iniziò a duellare con pazienza, senza rischiare troppo, in attesa dell’occasione giusta per colpire. Non incontrava grosse difficoltà a bloccare i tentativi dell’avversario, ma gli mancavano la forza e la rapidità necessarie a vincerlo; il braccio era sempre più intorpidito, le dita cominciavano a perdere sensibilità.
«All’inferno!» esclamò alla fine, gettando lo scudo verso Tullio. Un diversivo per avere il tempo di impugnare la spada con la sinistra, con la quale in giovane età si era allenato duramente.
Cambiò posizione dei piedi e saggiò il peso dell’arma, flettendo appena il polso. Poi, rapido come un aspide, azzardò un colpo obliquo dall’alto in basso, che l’altro parò con lo scudo. Quindi Lucio schivò d’un soffio il contrattacco di Tullio, portato con la punta. La perdita di sangue unita alla stanchezza accumulata lo avevano indebolito. Sentiva le gambe meno reattive.
Comprese di dover abbreviare lo scontro. Doveva finirlo subito.
Tentò allora di sorprendere il rivale con un affondo all’addome, che però venne deviato con la lama. Al nuovo tentativo di Tullio di colpirlo, Lucio offrì una finta resistenza, poi si spostò di lato all’improvviso, lasciando che l’altro seguisse in avanti il proprio movimento. Roteò la spada e, con tutto il vigore di cui era capace, l’abbatté sulla schiena di Tullio, che si era sbilanciato in avanti.
Il signore di Corniculum cadde in avanti e crollò a terra, dolorante ma ancora vivo. Il cuoio e la pessima angolazione dell’arma avevano impedito alla lama di penetrare in profondità.
Dal fondo della stanza si udì un gemito. «No!»
«Scappa, Ocresia!» gridò Tullio.
La donna obbedì e si lanciò verso l’unica porta.
Lucio fu più rapido e le si parò di fronte, il braccio destro quasi inservibile.
Lei gli si avventò contro, affondandogli le unghie nel viso.
Con il gomito sinistro spinse via la donna, che rovinò sul vasellame, distruggendolo in un frastuono di cocci. Nonostante la botta lei si rialzò, con in mano un coltellaccio arrugginito.
«Ocresia, no!» Il lamento proveniva da Tullio, ancora steso sul pavimento, mentre tentava invano di strisciare verso di loro.
Ma la donna non lo ascoltò e tornò alla carica.
Lucio parò il ridicolo affondo senza sforzo.
In quello stesso istante la lama di Tullio gli lacerò il muscolo del polpaccio in un punto senza protezione.
Gridò di dolore. Prima di accasciarsi calò la spada verso il basso, un fendente rovescio che colpì l’uomo alla testa, spaccandola di netto. Sangue, ossa e pezzi di cervello schizzarono ovunque.
La donna urlò. Un suono isterico che sapeva di paura. «Sei un bastardo!» gli ringhiò contro. Poi tornò ad aggredirlo a mani nude.
Lucio non ebbe problemi a fermarla, avvolgendola da dietro con il braccio buono, in una morsa che la immobilizzò.
Lei voltò il capo e gli sputò in faccia.
La collera spinse Lucio a stringere più forte e poté percepire, sotto le vesti sporche, un corpo sodo e ben formato. L’erezione sorprese lui per primo.
Ocresia, così era stata chiamata, sputò ancora.
Stufo, la gettò a terra.
Il tonfo le tolse il respiro. Tossì per alcuni istanti, che Lucio sfruttò per strapparle la tunica.
La visione del corpo nudo gli ottenebrò la ragione, lasciandolo in balia dell’eccitazione.
La donna provò a opporsi, ma l’animale che si era impossessato di Lucio non ebbe difficoltà ad allargarle le gambe facendo leva sulle ginocchia. Ignorò le ferite che gli bruciavano il viso, il dolore alla spalla e quello, più intenso, alla gamba. Le strinse il seno con forza. Poi le morse un capezzolo.
In quel preciso momento lei emise un lamento, un suono straziante che chissà come si fece strada nella mente di Lucio, obnubilata da violenza e furore, e giunse alla parte consapevole del cervello, bloccandolo prima di portare a compimento lo stupro.
Si voltò sulla schiena e contò cinque sospiri, sufficienti per calmarsi e liberare l’eccesso della tensione accumulata.
Quando la donna iniziò a piangere, Lucio si ritrovò gravido di sensi di colpa. Fu colpito dal pensiero di ciò che aveva appena compiuto: con un solo spregevole gesto aveva usato violenza contro una donna e tradito Tanaquil. Anche se si era fermato in tempo aveva dato inizio a un atto vergognoso, forse tollerabile per un soldato qualsiasi, ma indegno e ingiustificabile per colui che ricopriva la carica di re di Roma.
Si alzò a fatica e fissò Ocresia negli occhi. «Perdonami» boccheggiò. «Non volevo farti del male» aggiunse, rendendosi subito conto di quanto vane e inutili dovessero risultare le sue parole.
Lei si rassettò la veste, poi strisciò a rannicchiarsi in un angolo, vicino al focolare spento. I suoi singhiozzi riempirono il silenzio.
Lucio si guardò intorno. I muri erano ricoperti di fuliggine e la casa, composta da un’unica stanza, appariva più misera di quella di un qualunque artigiano romano.
Da un cesto di vimini recuperò una coperta di lana e la avvolse attorno alle spalle di Ocresia.
Zoppicò a recuperare la spada e si affacciò sulla porta. Dalle strade provenivano sporadiche grida, per lo più femminili, segno che i suoi soldati si stavano occupando delle loro prede.
Presto giunsero Hanipal e Kagrantos.
«Stai bene?» gli domandò il pirata, preoccupato.
Lucio indicò le proprie ferite, poi rientrò all’interno della casa e si sedette.
Hanipal gli esaminò la spalla. «Non è troppo grave» constatò. Quindi si chinò a osservare il polpaccio. «Questa è più profonda, va pulita e fasciata.» Allora si rivolse a Ocresia. «Donna! Porta dell’acqua!»
Ma lei non si mosse.
In un attimo il pirata fu sopra di lei, l’afferrò per un braccio e la tirò in piedi. «Hai sentito cosa ho detto?»
Lucio intervenne: «Lasciala stare» ordinò in tono più rassegnato che autoritario. «L’ho appena…» ma non riuscì a completare la frase.
Hanipal obbedì comunque, e lasciò che lei crollasse di nuovo a terra.
Fu Kagrantos a recuperare l’acqua e a provvedere alla prima medicazione, spalmando un abbondante strato di argilla rossa sulle parti ferite. Strappò dei lembi di coperta e lo fasciò. «Così guariranno alla svelta» disse.
Lucio lo sentì a malapena. Nelle orecchie gli rimbombava ancora l’eco dello strillo di Ocresia. Un grido che, ne era sicuro, lo avrebbe perseguitato nelle notti a venire. Decise di fare l’unica mossa possibile per espiare la sua colpa: si alzò e, zoppicando, si avvicinò a lei. Le si sedette di fronte. Aveva smesso di piangere, non di tremare.
«Ti chiami Ocresia?»
La donna annuì.
«Io sono Lucio Tarquinio, re di Roma.»
«So chi sei» biascicò lei, fissandolo.
Lucio cercò odio in quegli occhi, ma non ne trovò. «Non posso cancellare quello che ho appena fatto» le disse. «Ma ho intenzione di rimediare, se me lo permetterai.»
Ocresia lo guardò con sospetto, senza rispondere.
Allora Lucio continuò: «Corniculum pagherà per la sua ambizione e sarà distrutta. I tuoi concittadini saranno fatti schiavi e venduti. Ho offerto loro di arrendersi ma non hanno accettato, adesso ne pagheranno le conseguenze».
«È stato mio marito a decidere così, non la gente. Risparmiali, ti prego.»
«Non posso. Hanno osato sfidarmi e devono pagare, e la lezione che impartirò loro sarà un monito per tutti gli altri popoli. Ma per te ho in mente un’altra cosa.» Attese, ancora incerto se salvarla da un futuro come schiava. La fissò dritta negli occhi grandi e limpidi, che gli restituirono uno sguardo schietto, genuino. Vi lesse tanta rassegnazione e una tristezza profonda come le acque del mare. Allora si decise: «Farai parte dei miei servitori, e una volta tornati a Roma troverò un luogo adatto per… la moglie di un nobile».
«Non sarò venduta?»
«Ti prometto che nessuno approfitterà più di te» la tranquillizzò, sperando di riuscire a trasmetterle tutta la sincerità contenuta nelle sue parole. Quindi tese un braccio.
Dopo un attimo di esitazione, lei lo prese e lo strinse di rimando. Anche se la stretta fu debole, Lucio sperò in cuor suo che fosse il primo passo verso il perdono. «Vieni con me» le disse.
Quindi si voltò verso Hanipal, che stava ritto in attesa di un comando.
«Seguimi.»
Fuori dalla casa regnava il caos del saccheggio: fanciulli impauriti sfrecciavano per le vie alla ricerca di nascondigli, mentre le loro madri erano oggetto delle attenzioni dei soldati. Gli anziani più intrepidi provavano a opporsi gridando la loro rabbia impotente. I più fortunati se la cavavano con un calcio o una sonora bastonata; gli altri, troppo vecchi per essere rivenduti, venivano passati a fil di spada.
«Fai recuperare il bottino» ordinò Lucio. «Raduna i sopravvissuti e conducili all’accampamento. Poi dai fuoco a tutto. Corniculum sarà cancellata dalla storia» concluse. «Che gli dei mi siano testimoni: questo è ciò che accade a chi si oppone a Lucio Tarquinio.»
Quella sera stessa festeggiò la vittoria, più per dare soddisfazione ai suoi uomini e onorare i caduti che per reale volontà di gioire. Troppe e complicate erano le questioni che lo affliggevano, così appena poté si ritirò nel tranquillo silenzio della sua tenda. Gettò un ultimo sguardo alle fiamme che ancora avvolgevano la città, poi si chiuse dentro. Da fuori giungevano i rumori della festa, schiamazzi e musica ovattati dagli spessi teli, incapaci però di bloccare l’odore di bruciato che ormai permeava l’aria.
Kalaturus lo raggiunse prima che facesse in tempo a spogliarsi. L’indole solitaria del calabro lo portava a rifuggire da ogni amicizia. Lucio sospettava che, se non fosse stato per la fratellanza che li legava, Kalaturus avrebbe scelto di fare il pastore in qualche solitario e remoto territorio di montagna.
«Come va la gamba?»
Il dolore pulsava, infame. Uno dei tanti problemi, ma Lucio fece spallucce. «Guarirà.»
«Allora… cos’hai?»
«Ricordi il messaggero giunto ieri?»
«Sì. Hai detto che proveniva da Tarnas.»
«Non ti ho mentito. Però non portava notizie da Roma» confessò. «Sembra che sabini e latini abbiano chiesto e ottenuto aiuto dagli etruschi.»
«Perché non me lo hai detto subito?»
«Non era il momento adatto. Rischiavo di distoglierti dalla battaglia.»
Kalaturus annuì, poco convinto.
«Una parte del nostro popolo si è rivoltata contro di noi, capisci?» proseguì Lucio. «Chiusi, Arezzo, Vetulonia e persino Volterra.»
«Ormai è passato tanto tempo da quando hai stretto accordi con loro. Le cose laggiù possono essere cambiate…»
«Sia come sia, nei prossimi giorni ci aspettano nuove guerre, perciò devo sapere qualcosa di più sul nostro nemico. Già che sei qui, vai a chiamare Ocresia?»
«Chi?»
«La nuova serva.»
«Vuoi consolarti con lei?» chiese Kalaturus con un sorriso furbesco.
«Ma no! Voglio solo chiederle i nomi degli alleati di suo marito. Di certo mediteranno vendetta.»
Kalaturus obbedì. Uscì dalla tenda e fece ritorno poco dopo, preceduto da Ocresia.
La donna era vestita come una qualunque serva, ma con i capelli pettinati, raccolti in un’unica treccia a incorniciare il viso dai lineamenti gentili. Ripulita dal sangue e dalla sporcizia sembrava un’altra persona.
«Come ti senti?» le domandò Lucio, perdendosi per un attimo in quegli occhi miti.
«Meglio» rispose lei. Pareva aver riacquistato un minimo di tranquillità.
I sensi di colpa di Lucio si attenuarono, e poté interrogarla con più serenità. «Devo farti una domanda. Tuo marito ha stretto qualche patto di guerra?»
«Non ne so molto. Tullio mi usava soprattutto come passatempo, non mi ha mai messo a parte dei suoi accordi.»
«Mi chiedo come hai fatto a sposarlo.»
«Non è stata una mia scelta» precisò Ocresia.
Lucio odiava quel tipo di fatalismo. In un altro momento forse l’avrebbe accusata d’ignavia, ma non voleva innescare una discussione su un tema marginale, appartenente al passato, così si limitò a stringersi nelle spalle. «Vivevi con lui, ti avrà parlato di qualcuno.»
«Ho visto Aterys Numeto. Lo abbiamo ospitato mentre fuggiva da Apiolae, poi è tornato a trovarci per portare i messaggi di vari signori. C’è mancato poco che mio marito mi concedesse anche a lui» confidò con amarezza.
«Tullio ha preso accordi con Aterys?»
«No. Però li ho sentiti nominare spesso un condottiero straniero, un tizio con un nome curioso che si è messo al comando degli etruschi. Xexanar.»
Qualche sera dopo Lucio fece rientro nella sua tenda, stremato al termine di una battaglia. Si sedette a riposare, quando dalla fenditura della sua tenda vide spuntare il volto di Ocresia. Nel suo sguardo non c’era odio, solo curiosità. Tarquinio la fece entrare e gli chiese per quale motivo si trovasse lì. Lei disse soltanto che lo aveva visto rientrare al campo zoppicando, e si offrì di alleviare la tensione dei suoi muscoli. Lucio si spogliò, sdraiandosi prono sul giaciglio. Ocresia adoperò un panno bagnato per ripulire la polvere accumulata, poi gli cosparse la schiena di olio profumato e prese ad accarezzarlo con i polpastrelli prima, con l’intera mano poi.
Lucio si crogiolò al tocco della donna, che ebbe il potere di rilassarlo. Fu solo quando sentì le sue labbra posarsi sul collo che si eccitò di colpo. Cercò di trattenersi, di mantenere il controllo, ma prima che potesse venire a patti con i desideri del proprio corpo le mani di Ocresia si incunearono sotto al ventre, accarezzandogli la pancia, prima, per poi scendere ad afferrare il membro già eretto.
Alla mente di Lucio si affacciò il volto di Tanaquil, ma scomparve subito, insieme a ogni altro dubbio o preoccupazione. Si voltò per facilitare il contatto, spogliò con urgenza la donna e iniziarono a baciarsi con foga. Fu un rapporto estremamente fisico, che li impegnò in una specie di lotta nella quale erano rivali e complici allo stesso tempo, il tutto senza mai sconfinare nella brutalità.
Terminato l’atto, Ocresia rimase appoggiata al suo petto. «Adesso che ne sarà di me?» domandò con un filo di voce.
Per un singolo istante Lucio credette che lei si fosse concessa con il solo scopo di ottenere un trattamento migliore. Quando la fissò negli occhi, però, capì che si stava sbagliando.
«Questa è l’unica volta» la avvertì. «A Roma ho una moglie, e ne sono innamorato.»
Fu proprio in quel momento che realizzò quanto Tanaquil fosse importante per lui. Con Ocresia aveva appagato il corpo, ma una volta raggiunto il culmine del piacere fisico il desiderio era scemato in fretta, lasciando spazio all’amore che provava per Tanaquil. «Non c’è posto per nessun’altra.»
Ocresia annuì con un sorriso amaro. «È una donna fortunata» disse. «Piacerebbe anche a me far parte della tua vita. Ti… ammiro molto.»
«Anch’io ti apprezzo, Ocresia» rispose Lucio, gratificato dal complimento ma deciso a non concederle null’altro. «Però non è possibile, lo sai anche tu. Ti troverò una degna sistemazione presso qualche senatore, magari dal mio amico Tarnas. Ma non potremo più frequentarci. Quindi frena subito le tue illusioni, soffrirai meno.»
«Non mi illudo di niente» replicò lei. «Non più.»
L’estate era giunta alla fine, ma il caldo imperversava ancora nelle campagne intorno al Tevere. Il violento temporale della sera precedente aveva portato un minimo di frescura nell’accampamento, ormai stremato dal lungo conflitto, lasciando ogni cosa zuppa di pioggia. Il terreno, fangoso e viscido, adesso risultava impraticabile per chiunque, decretando di fatto la cessazione delle ostilità, peraltro confermata dai drappelli di esploratori inviati in ogni direzione e rientrati senza aver avvistato traccia del nemico.
L’esercito romano era uscito alfine vincitore. I confini erano stati stabilizzati, le città più ostili distrutte o annesse al regno, e le altre se ne stavano quiete, a leccarsi le ferite inflitte loro dalle milizie romane in quella estenuante campagna militare. Non c’era stata nessuna battaglia campale, solo una serie infinita di scaramucce che, come tante punture di vespe, fastidiose ma non letali, avevano messo a dura prova l’organizzazione dell’esercito romano, la tenuta fisica e nervosa. Qualcuna li aveva lasciati piuttosto malridotti, però alla fine anche le truppe organizzate dalla coalizione avversaria, compresi gli etruschi di Xexanar, erano state spazzate via. Il fantomatico condottiero non si era mai degnato di apparire sul campo di battaglia, di combattere al fianco dei suoi soldati, ma era sempre rimasto nascosto a tramare, a studiare ogni possibile strategia per sconfiggere Roma. Invano.
Finalmente potevano fare ritorno a casa.
Il clima di eccitazione per il rientro coinvolgeva tutti. Anche i feriti, e coloro che avevano perso qualche amico o familiare in battaglia, riuscivano a gioire. Del campo principale, posto a nord del fiume Aniene e a est di Fidene, restava solo un enorme spiazzo marrone macchiato da rari ciuffi d’erba.
Splendido e luminoso come il sole del mattino, già caldo e implacabile, Lucio uscì carico di energia, deciso a celebrare la vittoria nel modo più fastoso possibile, così da mostrare la sua forza a tutto il popolo, soprattutto a quei pochi senatori che ancora si ostinavano a ostacolarlo.
I soldati erano pronti, in attesa dell’ordine di mettersi in cammino.
«Tutta Roma ci aspetta!» gridò. «Andiamo!»
Le staffette a cavallo si avviarono. Dietro di loro si pose in marcia la lunga colonna di prigionieri, alla cui testa c’era lo sconfitto Aterys, catturato nell’ultima e decisiva battaglia, costretto a camminare con due robuste corde di canapa a stringergli i polsi e il collo.
Ai loro lati si era posizionata la cavalleria. Subito dietro, dodici littori che portavano fasci di verghe di betulla bianca tenuti legati da nastri di cuoio rossi che rappresentavano l’unione del popolo romano, con infissa un’ascia di bronzo a ricordare a tutti il potere di vita e di morte del sovrano.
Infine, il cocchio dorato del re, trainato da quattro cavalli bianchi, su cui Lucio salì con un balzo, ricevendo l’acclamazione dei presenti.
Aulo faceva da auriga, mentre di lato si disposero i suoi uomini più fedeli: Kalaturus e Hanipal. Kagrantos era rimasto più indietro, ad assicurare il mantenimento della disciplina nella restante parte dell’esercito, impegnato a smontare le ultime tende, trasportare le attrezzature e a sorvegliare il grosso bottino di guerra accumulato su venti carri.
Lucio si mise in testa la corona di alloro forgiata in oro e impugnò un bastone, sulla cui estremità giganteggiava una maestosa aquila, anch’essa dorata, a rammentare l’animale al quale doveva tanti dei suoi successi. Fu una marcia lunga ed estenuante, ma la fatica fu ampiamente ricompensata con il trionfale ingresso a Roma.
Qualche ora prima del tramonto, Lucio percorse la Via Sacra tra due ali di folla festante, godendo appieno di ogni singolo momento, ogni acclamazione, ogni inno alla sua persona. Accolse dentro di sé quelle sensazioni. Se ne servì per nutrire il proprio ego, che tuttavia non si saziò.
Giunto nel foro salì al tempio di Vesta per rendere un formale omaggio agli dei, atto compiuto più che altro per soddisfare le aspettative della gente. Non credeva infatti che quegli esseri così lontani, distanti e imperscrutabili avessero avuto un ruolo nella guerra appena terminata, del cui successo si riteneva il principale artefice. Dopo aver recitato la parte, come si conviene a un re rispettoso delle tradizioni, seguendo le indicazioni dei sacerdoti e delle vestali Lucio tornò di nuovo a dedicarsi al popolo, che lo acclamò ancora.
Salì sul palco al centro del foro.
Mentre attendeva che la gente si radunasse si sentirono delle grida provenire da sud. La folla si mosse, agitandosi come erba sferzata dal vento, finché emersero due figure a lui ben note.
Kyros, davanti, sbucò sotto il palco. Un solo, semplice sorriso fu sufficiente a rinnovare la loro amicizia. Poi lo spartano si spostò di lato per lasciar passare Tanaquil.
Lucio abbandonò il palco e con un balzo fu di nuovo a terra. Corse incontro alla moglie e l’abbracciò, annusando con forza il profumo dei suoi capelli, inebriandosi dell’odore della sua pelle che per troppo tempo non aveva assaporato.
Solo in quel preciso istante si sentì appagato.
«Mi sei mancata» confessò in un bisbiglio.
«Anche tu» fece lei, di rimando.
Si staccarono. Lucio le afferrò le spalle e ne approfittò per contemplarla. Sfiorò le labbra di sua moglie con un bacio delicato, poi tornò sul palco per fare ciò che andava fatto. Di solito non si preparava i discorsi: amava improvvisare e ci riusciva bene. L’occasione però era speciale, e troppo ghiotta per non essere sfruttata a dovere, perciò sapeva perfettamente quali argomenti toccare.
Iniziò condividendo i meriti. «Popolo di Roma» gridò per sovrastare il rumore della massa che riempiva l’intera spianata. «Oggi è un grande giorno, quello in cui celebreremo la vittoria. La nostra vittoria!»
Fece una pausa per lasciar sfogare la gente, pronto a passare alla seconda fase, la glorificazione.
«Non è stato facile» proseguì quando il boato scemò in un normale brusio. «Abbiamo dovuto combattere contro un’alleanza tra sabini, etruschi e latini, ma ne siamo usciti vincitori. La gloria dei nostri soldati sarà ricordata per secoli» disse, indicando le centurie ancora in formazione. «I confini adesso sono sicuri. Passerà del tempo prima che qualche pattuglia di ladroni si azzardi a fare un’incursione nei nostri territori.»
Lucio passò alla terza parte, il doveroso omaggio ai numi.
«Se la forza di Roma oggi è ancora più grande, dobbiamo rendere grazie innanzitutto agli dei.»
In cuor suo assegnava a se stesso e ai suoi uomini gli unici meriti. Erano stati loro a lottare, a soffrire, a riportare tremende ferite e, in alcuni casi, a morire per Roma. Erano faccende tra uomini, e gli dei, come sempre, non si erano abbassati a sporcarsi le mani. Tuttavia si trattava di una menzogna necessaria, un’asserzione a esclusivo beneficio del popolo.
Poi spostò lo sguardo sul crocchio di nobili che si erano riservati i posti più vicini al palco, ansiosi di raccogliere le briciole del suo successo. Non tutti, però, se lo meritavano.
«Infine voglio rispondere a quanti mi hanno accusato di sperperare risorse pubbliche per fare guerre inutili» continuò. L’ultima parte del discorso era quella che preferiva: la resa dei conti. «Soprattutto, così hanno detto, per magnificare la mia immagine. Oggi, davanti a voi, sono qui a dimostrare che le loro parole sono false, generate dalla malafede e dettate solo dall’invidia.»
Nessuno osò replicare. Fece un cenno. I soldati ebbero qualche difficoltà ma alla fine riuscirono a creare un varco tra la folla, in modo da lasciar passare Kagrantos e i suoi carri. L’oro e le gemme splendevano alla luce obliqua dell’ultimo sole, brillando come gli occhi del popolo irretito, affascinato da quelle enormi ricchezze.
«Quanto allo sperpero di denaro, ecco, guardate. Questo è il bottino di guerra» annunciò. «È destinato a tutti voi. Ognuno avrà la sua parte, avete la mia parola!»
Il boato del popolo fece tremare la terra. Anche il palco ondeggiò, e Lucio ritenne saggio scendere per godersi il meritato riposo.
Nei mesi seguenti Lucio si trovò a dover affrontare la propria coscienza, un nemico invisibile e implacabile con il quale doveva a tutti i costi venire a patti.
Il legame con Tanaquil si era subito rinsaldato. Il lungo distacco non aveva mutato di un’unghia il loro rapporto, come se fossero stati sempre uniti da un filo invisibile e resistente anche ai forti strattoni della nostalgia. Vi era tuttavia il problema del tradimento. Una parte di lui avrebbe voluto confessare tutto, l’altra aveva timore che la rivelazione avrebbe distrutto per sempre la loro magnifica relazione. Infuriato, malediceva se stesso per la propria debolezza, insultava mentalmente tutti gli dei, di certo i principali colpevoli di averlo messo in quella situazione. Se lui provava avversione per loro, di certo la cosa era reciproca. Poteva quasi vederli sghignazzare, contenti della loro piccola vendetta.
Una mattina d’autunno si destò poco prima dell’alba, tormentato dagli stessi pensieri di sempre. Chiuse gli occhi e lasciò passare alcuni istanti, cercando nel sonno un nuovo oblio. L’ansia glielo impedì. Vittima di una sorta di frenesia, con cautela si divincolò dall’abbraccio di Tanaquil e si levò dal letto, abbandonando il piacevole tepore delle coltri.
Si concesse il tempo di piluccare qualcosa in cucina, mentre continuava a lambiccarsi il cervello alla ricerca della migliore soluzione. Esasperato, si recò a casa di Tarnas per spiegare la situazione e cercare consiglio. Il vecchio senatore doveva avere esperienza di simili questioni, chi meglio di lui poteva aiutarlo? Così cavalcò fino al superbo palazzo edificato sulla cima del Gianicolo, passando per le strade che iniziavano ad animarsi. Da qualche parte, dentro di sé, si annidava la pericolosa speranza di incontrare Ocresia, inviata a rimpolpare le nutrite schiere dei servi di Tarnas; speranza che finse di ignorare ma che tornò a farsi sentire mentre percorreva con lentezza i corridoi, indugiando alle finestre o fingendo di ammirare qualche dipinto. Della donna, però, nessuna traccia.
Raggiunse il senatore nel momento della colazione. Accettò l’invito e si unì a lui, sedendo alla tavola imbandita alla maniera etrusca. Mangiò senza appetito, solo per il piacere di gustare ogni primizia: miele dolcissimo, lamponi che il suo ospite aveva fatto venire da chissà dove, focacce d’orzo e pecorino. Solo una volta finito, e congedati i servi, confidò al vecchio il suo dilemma.
«Non vedo quale sia il problema» disse Tarnas con un sorriso sornione. «Le schiave servono anche a quello, no? E in guerra l’uomo ha bisogno di sfogarsi in qualche maniera.»
«In guerra, d’accordo. Ma ora cosa faccio?» domandò, voltandosi per osservare l’origine del rumore di ciotole in frantumi.
Tarnas sghignazzò. «Lasciala qui, con me è al sicuro, nessuno la infastidisce. E quando vuoi venire a spassartela…»
«Non voglio spassarmela!» ringhiò. Tarnas pareva divertirsi, ma per lui si trattava di una faccenda estremamente seria. «Solo di averne cura. Era la signora di Corniculum, le ci vorrà del tempo per adattarsi al nuovo ruolo. A proposito, come si trova?»
«Ci vuol poco a cambiare abitudini» commentò il senatore, giocherellando con un coltello dall’elsa intarsiata. «Se vuoi cercherò di avere più riguardo per lei. Avevo già pensato di risparmiarle i lavori più faticosi.»
«Perché?»
Tarnas spalancò gli occhi. «Non ti sei accorto di nulla?»
«Sono mesi che non la vedo. Di cosa avrei dovuto accorgermi?»
«Be’, ho notato una certa… rotondità del suo ventre. Ho creduto che il giovane Luchmon le avesse lasciato un ricordino. Altrimenti non mi spiego tutto questo tuo interesse.»
Strabuzzò gli occhi. «Quale rotondità?»
«Credo che aspetti un bambino» ridacchiò Tarnas. «Ma tu sei certo di essere il padre?»
Lucio impiegò qualche istante di troppo a capire. Quindi s’inalberò. «Non sapevo nemmeno che fosse incinta!»
«L’unica che può dirtelo è lei. Chiediglielo.»
«Fammela vedere, allora» ordinò scattando in piedi.
«Siediti» lo placò Tarnas. «La farò venire qui. Un re non si reca di persona nella stanza di una serva, a meno di non avere un motivo particolare. E noi non vogliamo dare troppo nell’occhio, giusto?»
Lucio annuì e tornò a sedersi, tutt’altro che tranquillo.
Tarnas chiamò uno schiavo e gli chiese di condurre la donna al suo cospetto.
Quando Ocresia giunse nella stanza da pranzo aveva gli occhi consumati dalle lacrime e i capelli arruffati, sistemati alla meglio ma con alcune ciocche che sfuggivano ai pettini posizionati troppo in fretta. Indossava una tunica informe, che nascondeva l’addome.
Lucio le si parò di fronte. «È vero che sei incinta?» le domandò brusco, indicando la pancia.
Lei vi posò sopra entrambe le mani, poi annuì senza rispondere.
Lucio avvampò di rabbia, che riuscì a controllare a stento. «Perché non me l’hai detto?»
«Quando?» balbettò lei. «Non ti sei mai fatto vedere.»
«Potevi farmi avvertire!»
«Tu stesso hai affermato che nella tua vita non c’è spazio per me» rispose Ocresia abbassando lo sguardo. «Figuriamoci per nostro figlio.»
«Come puoi essere sicura che sia mio?»
«Solo gli dei possono averne la certezza» rispose la donna, fissando il pavimento. «Ma io lo sento. Sì. Il padre sei tu.»
«Non potrebbe essere di tuo marito?»
Ocresia si morse un labbro, incerta. «La sera prima della battaglia mi ha preso anche lui» confessò. Il ricordo fece sgorgare nuove lacrime. Per un attimo Lucio fu tentato di allungare il braccio per frenarne il flusso. Prima che potesse compiere quel gesto, fu lei a portarsi le mani al volto, coprendolo e abbandonandosi ai singhiozzi. «Però… in tanti anni non gli ho mai dato l’erede che voleva.»
Le evidenti tribolazioni della donna placarono il furore di Lucio, che per un attimo ebbe la tentazione di avvolgerla in un abbraccio consolatorio. Invece si voltò, avvicinandosi alla finestra. Osservando l’andirivieni nella via sottostante ritrovò la calma necessaria a meditare.
Un rapido calcolo, fatto a mente fredda, bastò a dargli la consapevolezza: il bambino che Ocresia portava in grembo poteva davvero essere suo. Una volta ammessa questa possibilità, almeno con se stesso, ne valutò le implicazioni: se l’avesse riconosciuto sarebbe stato un bambino illegittimo, un bastardo, comunque il suo primogenito; se al contrario avesse sostenuto la paternità di Tullio, si sarebbe trattato solo di un orfano generato da una serva qualunque. E poi c’era la questione Tanaquil, che aveva rinunciato a un bambino per dare a Lucio tutto il supporto possibile nella spasmodica ricerca del potere, di fatto anteponendo le ambizioni politiche a ogni altra cosa. Al tradimento, già pesante, si aggiungeva quindi un carico ulteriore, un peso così massiccio da far sprofondare il matrimonio in un lampo.
«Che intenzioni hai?» domandò lei.
Lucio si voltò. Lesse nei suoi grandi occhi, limpidi e sinceri, la speranza di essere creduta. Decise di concederle fiducia. C’era tutto il tempo per capire se il nascituro fosse frutto del suo seme. Potevano valutare la somiglianza, il carattere, qualche particolare fisico tipico degli etruschi. In ogni caso poteva tornare utile tenerlo sott’occhio.
«E sia» sentenziò. «Oggi stesso verrai a palazzo reale con me. Abiterai con i servi e starai al mio servizio, ma farò in modo che tu sia trattata come si deve.»
La bocca carnosa di Ocresia si distese in un debole sorriso, che Lucio si affrettò a reprimere. «Questo non cambia il nostro rapporto» le disse, severo. «A Roma ho una sola donna, ed è mia moglie. Non lo scordare mai.»
Ocresia annuì e se ne andò mesta. Tuttavia il suo mento puntava un po’ più in alto rispetto a quando si era presentata.
Lucio invece si trovò a dover fronteggiare il ghigno furbesco di Tarnas.
«Che hai da sghignazzare?» gli domandò.
«Intanto te la porti a palazzo…» ammiccò il senatore.
«Dovrei lasciarla nelle tue grinfie?»
Tarnas alzò le braccia. «Non sia mai!»
«Quello che ho detto è la pura verità. Io amo Tanaquil, soltanto lei.»
«Non lo metto in dubbio» replicò Tarnas. «Dalle mie parti, però, c’è un detto che mi fa pensare.»
«Quale?»
«La moglie non fa la lupa!» sentenziò.
Scoppiarono entrambi a ridere.