CAPITOLO VENTESIMO

Ocresia

Roma, 608 a.C.
Qualche mese dopo

Tanaquil chiuse gli occhi e si rilassò, scacciando ogni pensiero.

Si concentrò sulle sensazioni che le distendevano la mente e il corpo: le dita affusolate di un’ancella impegnata a scioglierle i capelli e il tocco piacevole dell’altra, che le massaggiava il collo. Quasi non si accorse che la veste scivolò a terra, scoprendo il suo corpo ancora giovane e morbido.

«Sei splendida» disse una terza donna, addetta a prepararle il bagno.

«Grazie,» rispose lei «ma non è così. I segni del tempo sono come marchi indelebili.»

«Il tuo corpo è sodo come quello di una ragazzina» continuò la prima, sfiorandole le natiche con i polpastrelli.

Tanaquil si abbandonò all’idea che, in fondo, la serva aveva ragione. Il riso fluì spontaneo dalla sua bocca e contagiò le ancelle. Così si immerse insieme a loro nella grande vasca da bagno dall’acqua calda costantemente rinnovata, ricoperta da petali di rosa e profumata da essenze sempre diverse. Quindi si abbandonò a carezze e sorrisi, lasciando che le membra godessero del tepore e ancor più del tocco delicato delle mani, mentre i pensieri vagavano chissà dove.

L’improvvisa eccitazione fisica la portò a desiderare il corpo di suo marito, ma anziché trarne piacere fu come ricevere un brusco strattone che la riportò alla realtà, gettandola nel pieno delle sue afflizioni. Negli ultimi tempi Lucio si era mostrato meno assiduo, meno appassionato, e dopo attenta osservazione e lunghe riflessioni credeva di averne scoperto il motivo: non si trattava di fatica, fisica o mentale che fosse. Suo marito aveva ormai imparato a gestire le incombenze dovute al suo ruolo. La vera causa, la più dolorosa possibile, l’aveva colpita come un pugno violento: c’era un’altra donna nella vita del re. Ed era giunto il momento di smascherarla.

Inviperita dalle sue stesse teorie scacciò le ancelle e rimase in acqua a lungo. Quando ne uscì stava già calando il sole. Convocò le serve affinché si prendessero cura di lei, lasciò che le asciugassero il corpo e i capelli, rendendoli morbidi e fluenti grazie agli unguenti profumati. Intanto si chiedeva quale strategia utilizzare.

Si avvide che tra loro c’era anche la donna chiamata Ocresia, arrivata proprio dopo l’ultima campagna militare e assegnata a palazzo in quanto moglie del signore di Corniculum. Anche lei era una regina, o almeno così sosteneva Lucio. Gli occhi di Tanaquil scesero a valutarne le forme, senza dubbio avvenenti, quindi si soffermarono sul ventre appena rigonfio, che tendeva la tunica, simbolo di una gravidanza in corso.

Che suo marito ne fosse la causa era un pensiero che covava da giorni. Subdolo, aveva infettato Tanaquil a poco a poco come una piccola larva d’insetto, espandendosi fino a corrompere l’intera anima. Le bastò accorgersi di uno sguardo furtivo, una timida occhiata data di soppiatto, per avere la certezza dei suoi sospetti e spingerla a liberare la rabbia da troppo tempo tenuta nascosta.

Ocresia tornò ad armeggiare con una bacinella, forse fingendo di non essersi accorta del suo sguardo indagatore.

«Tu, vieni qui!» gridò Tanaquil spingendo via le altre ancelle. «Subito!»

Ocresia parve non sentirla, o fece finta di non udire.

«Sei sorda?» la riprese con disprezzo. «Vieni a cospargermi l’olio sul corpo. E voi» proseguì rivolta alle altre «andatevene!»

Se le serve obbedirono, quasi correndo via, Ocresia ci mise un po’, prima di avvicinarsi timorosa. «Non ti avevo sentito, mia regina, scusami» tentò di giustificarsi. Quindi prese a massaggiarla.

Tanaquil percepì il tocco incerto della donna e sentì il ventre gravido che la sfiorava. La consapevolezza di una nuova vita l’ammansì quel tanto che bastava per controllare la voglia sfrenata di prenderla a schiaffi e farle confessare di essere l’amante di Lucio.

«Il figlio che porti in grembo è di mio marito.»

Non era una domanda, piuttosto un’affermazione.

«Non… non è così, mia regina» replicò Ocresia, accompagnando la frase con un lieve gesto di diniego. «L’ho concepito con il mio defunto marito. E poi il re non mi ha mai sfiorata.»

In quelle parole non c’era nulla di vero. La leggera esitazione iniziale, il tono piatto e recitato della voce, tutto stava a indicare una deliberata menzogna. Tanaquil lo capì subito, ma decise di stare al gioco e lasciò che proseguisse il massaggio. Era uno squallido e inutile bottino di guerra, ma con le mani ci sapeva fare.

«Se è così puoi restare a palazzo. A meno che non desideri tornare dalla tua gente. In quel caso sei libera di sparire.»

«Non ho nessun posto in cui andare» rispose lei abbassando gli occhi. «E nessuno con cui stare. Un tempo avevo una vita appagante… non bella come la tua ma dignitosa. Adesso la mia casa è distrutta, e la mia famiglia… sono tutti morti.»

«La colpa è di quello stolto di tuo marito. Se si fosse arreso subito vi avrebbe potuto salvare tutti. Invece ha osato opporsi, per ottenere… cosa? È lui la sola causa delle tue disgrazie.»

Ocresia non seppe replicare. O non volle farlo.

«Quindi intendi rimanere?» la incalzò.

«Se mi è consentito…»

«Bene!» esclamò Tanaquil. «Significa che hai apprezzato l’accoglienza di Roma. Anche Lucio ti tratta bene, no?»

«Non ho più visto il re da quando siamo rientrati a Roma.»

La nuova bugia le rese all’improvviso intollerabile il tocco di quella donna. «Basta così» sbuffò. Poi le indicò una tunica. «Prendila.»

Mentre si faceva vestire mutò atteggiamento, come un predatore che gira intorno alla preda in attesa dell’occasione più propizia per attaccare ancora.

«Come intendi chiamare il bambino?» le domandò.

«Tullio. O Tullia, in memoria del mio defunto marito.»

«Chiamalo Servio» sibilò con cattiveria. «Potrebbe servirti a ricordare la tua nuova condizione. Perché non ne parli con Lucio?»

«Lucio non…»

Tanaquil non le diede il tempo di rispondere. L’ira che a stento aveva trattenuto deflagrò in quel preciso istante. Con un manrovescio la picchiò sul volto. «Lurida puttana! Come osi chiamarlo per nome?»

Ocresia si portò una mano sulla guancia e cadde in ginocchio, senza gridare.

Tanaquil la percosse ancora. Uno, due, tre schiaffoni dati con tutta la forza di cui era capace. La sua rivale teneva le braccia basse, a protezione della pancia. Quando crollò a terra Tanaquil percepì, fortissimo, l’impulso di scalciare proprio in quel punto. Alzò il piede e lo abbassò con tutta la forza possibile.

Ocresia fu lesta a voltarsi, sacrificando la schiena per preservare la creatura che le cresceva dentro.

Con il calcagno Tanaquil imperversò allora sulla sgualdrina. La odiava perché aveva sedotto suo marito usando il corpo in modo da salvarsi la vita, però il suo rancore si estendeva anche a Lucio: l’idea che in guerra si comportasse come un semplice soldato, un animale qualsiasi libero di accoppiarsi con ogni donna che gli capitasse a tiro, la ripugnava profondamente, tuttavia, conoscendo le necessità fisiche degli uomini, era sempre riuscita ad accettarlo. Ma il fatto che fosse arrivato a condurre Ocresia a palazzo, sotto i suoi occhi, non poteva tollerarlo. E più di ogni altra cosa odiava quel ventre gonfio, il simbolo del tradimento e la testimonianza inconfutabile del cambiamento del suo Luchmon, che Roma aveva tramutato nel potente e tracotante sovrano Lucio Tarquinio.

Tanaquil gridò ancora, un ululato che conteneva tutta la sua furia. Afferrò Ocresia per la tunica e la costrinse a rimettersi in piedi. Il nervosismo e la tensione accumulati l’avevano spinta ad adoperare una ferocia che sorprese lei per prima.

«Vai a partorire lontano da qui. Non voglio più vederti, altrimenti ti uccido con le mie mani» le sibilò in faccia.

«Non volevo questo bambino» piagnucolò Ocresia.

«Bene. Sarà più facile sbarazzartene.»

«È successo solo una volta» volle precisare la serva, prima di abbandonare la stanza. «Non volevamo…»

«Immagino quanto vi sia dispiaciuto» disse Tanaquil sputando ancora rabbia. Pareva che le sue viscere ne contenessero una sorgente inesauribile.

«Lui si è subito pentito» replicò Ocresia. Nei suoi occhi non c’era traccia di paura, solo un velo di lacrime che mostrava dolore misto a un’infinita malinconia. «E vuole farsi perdonare.»

«Come? Combattendo ancora la tua gente? Oppure scopandoti ogni sera?»

Quella provocazione non ammetteva risposte. E Tanaquil nemmeno le voleva, stufa com’era di perdere tempo a discutere con quella cagna. Incapace di sopportarne la presenza un istante di più, le gridò contro: «Vattene!».

La osservò allontanarsi a testa bassa, con le mani ancora avvolte intorno al ventre. Ma non provava alcun sollievo.

Scrutò dentro se stessa alla ricerca di una soluzione, un modo per vincere quel malessere che sembrava non volerla abbandonare. C’era un unico rimedio, un’unica medicina in grado di riportare la situazione alla normalità: il bambino doveva morire. E, poiché quella donna non sembrava intenzionata ad abortire, doveva pensarci lei.

Ci ragionò per qualche giorno. In un primo momento aveva pensato di mettere Lucio con le spalle al muro, sbattendogli in faccia la scoperta, chiedendo spiegazioni e, soprattutto, pretendendo l’allontanamento di Ocresia, ma poi si era detta che sarebbe stato inutile. Suo marito non avrebbe mai ammesso il coinvolgimento e, anche se avesse acconsentito a mandarla via, di certo le avrebbe trovato un alloggio comodo nel quale avrebbero potuto continuare a divertirsi alle sue spalle. Scartò anche l’ipotesi di agire direttamente contro Ocresia: Lucio non glielo avrebbe mai perdonato e la vendetta si sarebbe ritorta contro di lei. Così, per mettere fine alla vita del nascituro, decise di ricorrere ancora all’aiuto degli dei.

Attese la prima notte favorevole, quando la spessa coltre di nuvole impediva alla luna di spandere i suoi raggi a rischiarare la città. La notte ideale per invocare l’aiuto di Aita, dio supremo dell’oltretomba. Un dio etrusco, che i greci chiamavano Ade.

Tanaquil uscì dalla camera da letto senza preoccuparsi di fare rumore. A palazzo tutti, da Lucio al più insignificante degli schiavi, sapevano che per lei qualsiasi ora del giorno o della notte poteva essere propizia per una divinazione, così come sapevano che non doveva essere disturbata in alcun modo.

Muovendosi alla luce di una torcia recuperò la bisaccia già preparata con tutto il necessario e uscì dal palazzo.

«Mia regina,» le disse una delle guardie «non è prudente uscire da sola. Lascia che ti faccia da scorta.»

«Non ce n’è bisogno. Devo andare nel giardino esterno, laggiù. Mi puoi controllare da qui, se ti fa sentire tranquillo, ma non ti avvicinare per nessun motivo.»

«Come ordini» si arrese quello.

Tanaquil percorse in fretta la distanza che la separava dal luogo prescelto, dove, quella stessa mattina, aveva fatto scavare un profondo solco, una sorta di fessura che si apriva nel terreno, seminascosta dalla folta vegetazione.

Rovistò nel sacco e ne estrasse una piccola lastra di piombo, una tabella defixionum. Quindi liberò da una stoffa un chiodo arrugginito e gettò a terra il resto.

Recitando una preghiera ad Aita iniziò a scrivere sulla tabella il nome della persona da maledire. L’operazione fu più complicata del previsto: il chiodo, già spuntato, non riusciva a incidere il metallo, per cui dovette ripetere più e più volte gli stessi movimenti. Quando infine riuscì a completare il lavoro portò la lastra verso la fiamma, contemplando soddisfatta il risultato: il nome era ben leggibile. Aita non poteva sbagliare. Sul piombo eterno aveva scritto, in lettere etrusche: “Tullio, figlio di Ocresia”.

Mormorando un’ultima invocazione gettò la tabella nel buco del terreno: un gesto simbolico per avvicinare il nome del nemico agli inferi e al dio che avrebbe dovuto maledirlo.

La defissione era stata portata a termine. Soddisfatta, Tanaquil si crogiolò nella sensazione di onnipotenza che derivava dal rito stesso, dal potere di condizionare il destino di una creatura. Recuperò la bisaccia e fece ritorno al palazzo fiduciosa, convinta di avere ottenuto i favori del dio. Rivolse al soldato un sorriso benevolo per ribadire, a lui come a tutti, che sapeva badare a se stessa, anzi, che era in grado di fare molto di più che prendersi cura della propria esistenza. Poteva anche incidere su quelle altrui! Nell’oscurità dell’androne distese le labbra in un ghigno di compiacimento. Molto presto Aita sarebbe entrato in azione.

Lucio mandò via il servo che si occupava di Ekphantos e si inginocchiò accanto al letto. Immerse una pezza nel secchio lì vicino, quindi la passò sulla fronte del vecchio dormiente, per rinfrescarlo.

Il tocco lo ridestò.

«Maestro…»

Il filosofo emise un lungo sospiro con la bocca semiaperta. Gli occhi appannati lo cercarono nella stanza finché non lo inquadrarono.

«Figliolo. Sei arrivato, infine.»

Ekphantos era stato il suo punto di riferimento, fin da quando era bambino, perciò Lucio provava per lui un affetto senza eguali. Era giunto a Tarquinia non appena aveva avuto notizia dell’aggravarsi della malattia, lasciando indietro i soldati della scorta e sfiancando il cavallo fin quasi allo stremo.

Insieme a loro doveva aver smarrito anche le parole, perché pur avendo mille cose da chiedere, e ancor più da raccontare, proprio non sapeva cosa dire.

«Come stai?» gli domandò.

Le labbra del vecchio si distesero in un debole sorriso. «Il mio viaggio su questa terra è arrivato alla fine» rispose con voce appena udibile. «Ma non sono triste, perché devo iniziarne subito un altro.»

«Resisti!» lo supplicò, ben sapendo che era impossibile. Lucio aveva sempre dato per scontata la sua presenza, e adesso che doveva fare i conti con la sua prossima dipartita in un certo senso si sentiva tradito, ma più che altro provava una sorta di smarrimento che lo confondeva, impedendogli di ragionare con lucidità.

«Ho camminato per molti anni al tuo fianco…»

«Ma sono trascorsi troppo in fretta!» protestò Lucio, col tono lamentoso di un fanciullo in punizione.

Ekphantos esibì un sorriso di comprensione. «Hai ragione, Luchmon» disse, alzando una mano diafana. Se la portò di fronte agli occhi e la mosse dolcemente, come se stesse accarezzando le corde d’una cetra. «Sono sfuggiti via, passati tra le nostre dita come sabbia, troppo fine per trattenerla.»

Lucio gli prese la mano e la strinse, come per infondere un po’ di forza in quel corpo ormai stremato. «Ho ancora bisogno del tuo aiuto.»

«Puoi benissimo farcela da solo. Basta che osservi i granelli, ragazzo.»

«Quali granelli?»

«Quelli che rimangono appiccicati alle dita» rispose Ekphantos. Quindi finse di ripulire la mano con i polpastrelli dell’altra. «Sono i ricordi delle persone che abbiamo incontrato. Io ti ho insegnato tutto quello che sapevo, conservane la memoria e mi avrai sempre con te, in ogni momento. Adesso smettila di comportarti come il piccolo Luchmon e torna a essere Tarquinio, il re.»

Commosso nel profondo, Lucio obbedì. Lasciò la mano e si rizzò in piedi.

«E chiudi la bocca, che ci entrano le mosche» aggiunse il vecchio.

Il sorriso di Lucio si colmò di malinconia. «Farò come dici. Ma resterò a vegliarti, fino alla fine.»

«Non dovrai aspettare molto» sussurrò Ekphantos con un filo di voce.

Quindi chiuse gli occhi e si assopì, per l’ultima volta.

Quando Lucio tornò a Roma, dopo i riti funebri, non ebbe il tempo di indugiare nel dolore ma si trovò ad affrontare gli sbalzi di umore di Tanaquil, che negli ultimi tempi si erano fatti frequenti come quelli di una qualunque ragazzina che stia diventando donna. In certi momenti l’amarezza l’avvolgeva come in un bozzolo, impedendo a chiunque di accedere ai suoi pensieri, in altri si mostrava scorbutica e scostante fino all’esasperazione, rifiutando perfino di elargire i suoi preziosi consigli politici. Poi, senza motivazioni apparenti, da un momento all’altro tornava a essere la donna di sempre, propositiva e pronta a dispensare indicazioni e pareri su tutto ciò che riguardava Roma e il suo regno.

Sulle prime Lucio aveva incolpato se stesso e la sua latitanza in camera da letto. Le sue attenzioni si erano decisamente ridotte, dopo il rientro da Corniculum, anche a causa dell’attrazione per Ocresia, puramente fisica, che lo agitava ancora e gli impediva di provare il trasporto di sempre. Così si era sforzato di riscoprire il corpo di sua moglie e, con rinnovata energia, si era donato a lei con la frequenza di un tempo.

Ma niente era cambiato.

Anzi. Tanaquil era diventata sempre più cupa, e alla fine era esplosa come un vulcano, alzando le mani su Ocresia.

Informato da uno dei servi, Lucio si era arrovellato per decidere come comportarsi. Alla fine aveva propeso per il silenzio. Anche se Ocresia aveva confessato il loro rapporto, la cosa non significava niente. In guerra molti uomini prendevano delle donne, perché non poteva farlo il re? Viceversa, cercando un chiarimento avrebbe dato importanza alla cosa, avallando implicitamente i sospetti di Tanaquil, e così facendo si sarebbe messo nell’odiosa condizione di dover chiedere scusa.

Peraltro Tanaquil stessa, dopo quell’episodio, era tornata al solito stato d’animo, ma quella sorta di quiete insospettì ancora di più Lucio, che iniziò a temere qualche tipo di vendetta. Scelse dunque di sorvegliare sua moglie. Si rivolse a Kyros, e al servo che gli aveva riferito della lite, però assunse su di sé il compito di maggior controllo.

Così, le notti che Tanaquil si levava per andare a eseguire le divinazioni, lui la faceva seguire da un servo a distanza di sicurezza, giusto per assicurarsi che non stesse architettando qualcosa di pericoloso e si dedicasse davvero ai suoi riti. Fu così che capì cosa stava combinando ed escogitò un modo per porvi rimedio.

La resa dei conti avvenne in una burrascosa sera di inizio primavera. Lucio fece ritorno a palazzo dopo alcuni giorni passati ad addestrare l’esercito, fradicio di pioggia. Appena rientrato venne informato del parto: Ocresia stava dando alla luce il suo bambino nelle stanze della servitù.

Lucio corse da lei. Le emozioni coprirono i pensieri, la ragione venne travolta da una mistura ingestibile fatta di sensi di colpa, paura, ma anche di affetto e dell’orgoglio di essere padre. La trovò sfinita dalle fatiche del parto, ma sorridente. Fu il primo vero sorriso che vide sul volto di Ocresia, e pensò che fosse davvero bella.

Una giovane schiava si stava prendendo cura di lei, mentre un’anziana donna, chiamata a palazzo come levatrice, le porse un fagottino urlante. Ocresia se lo pose vicino al seno e il piccolo si calmò subito.

Lucio non poté trattenersi dall’accarezzarla con dolcezza. Poi sfiorò il piccolo con il dorso della mano. Un bellissimo maschietto che già sbraitava per far sentire al mondo la sua voce.

«Come stai?» chiese a Ocresia, mentre continuava ad ammirare il neonato.

«Bene» rispose lei. La consueta tensione aveva abbandonato la sua voce.

«È vivace» aggiunse lui.

Ocresia annuì di rimando, gli occhi lucidi.

Fu allora che giunse Tanaquil. Si fece spazio tra i servi e, senza proferire parola, si chinò sulla creatura per esaminarla. Lo sguardo, dapprima stupito, divenne presto di fuoco.

«Il bambino è sano» la sfidò Lucio.

Lei strinse i pugni. «Bastardo!» gli urlò contro. «Torni dalle tue manovre con l’esercito e anziché venire a salutarmi corri da questa puttanella?»

La sfuriata lo colse alla sprovvista. Tanaquil era fuori controllo e le sue grida coincisero con un brusco ritorno alla realtà. Per una volta non era in grado di trovare parole che potessero calmarla o riuscissero a dargli il tempo di spiegare.

«Confessa» proseguì la moglie, le parole affilate come lame. «L’hai desiderata come fa ogni squallido soldato! L’hai posseduta e quel bambino è la prova del tuo tradimento.»

«Ci siamo uniti soltanto in guerra» replicò Lucio, alzando le mani come a difendersi dalle accuse. «Non sono certo che il bambino sia mio, nessuno può dirlo, ma questo non significa nulla. È mio dovere prendermene cura. Un dovere che devo assumermi davanti al fato che lo ha condotto tra noi.»

Un sussulto scosse il corpo di Tanaquil, mentre Ocresia stringeva il neonato ancora più forte, quasi a volerlo proteggere. «Sai preoccuparti soltanto di lei e del bambino?» lo incalzò. «Non t’importa nulla di me, del mio strazio, di quanto male mi hai fatto? Non ti rendi conto che sei diventato un autentico romano, uno di quelli che criticavi fino a pochi anni fa? Una bestia che mira solo a soddisfare le proprie voglie?»

Lucio le si avvicinò. Vide gli occhi di lei inumidirsi, allora provò a calmarla prendendola per le spalle, ma Tanaquil balzò all’indietro come se fosse stata sfiorata da un tizzone ardente. Lucio insisté, ma lei si divincolò ancora. Poi la regina se ne andò con un gemito che preannunciava lacrime di dolore e rabbia.

Lucio la rincorse, chiamandola per i corridoi.

Lei non si degnò di rispondere e si rinchiuse in camera. Cercò di impedirgli di entrare, ma si trattava di uno scontro impari e Lucio non ebbe difficoltà a penetrare nella stanza. La loro stanza. Il luogo in cui erano soliti fare piani, progetti, discutere di strategie. L’ambiente in cui si confidavano paure e speranze reciproche, dove più di ogni altro diventavano la coppia voluta dagli dei. Lì avrebbero risolto la questione. Viso a viso potevano rinfacciarsi ogni cosa, senza curarsi dei giudizi altrui.

Toccò a Lucio farsi avanti. «Hai provato a maledire il bambino quando era ancora nel grembo di sua madre.»

«Adesso vaneggi» replicò Tanaquil, dura. «Non ho alzato un dito su di lui e…»

«Non mi prendere in giro» la zittì lui. «Ho visto la tabella defixionum con inciso il nome di Tullio. L’ho recuperata dalla buca in cui l’hai sotterrata e ho annullato il maleficio.»

«Come hai fatto a scoprirmi?» l’aggredì Tanaquil con voce acuta, carica d’astio.

«Ti ho fatta seguire. Non potevo permettere che tu facessi del male a quel bambino.»

Lei lo fissò snudando i denti, con una furia animalesca che non le aveva mai visto.

Lucio fu costretto a minacciarla puntandole contro un dito. «Non farlo mai più, se non vuoi subire la mia ira!»

«E tu non provare più a toccare Ocresia» ringhiò Tanaquil di rimando. «Non la devi nemmeno guardare. E soprattutto, non ti azzardare più a mentirmi!»

Lucio la fissò con rabbia mista a diffidenza. Avrebbe voluto rassicurarla, dirle che amava soltanto lei e nessun’altra, ma sarebbe stato come prestare il fianco all’avversario, un inequivocabile segno di debolezza che non poteva permettersi. Con il passare del tempo la tensione si sarebbe dissolta e le cose si sarebbero rimesse a posto, lo sentiva. Inutile forzare. Avevano raggiunto una sorta di tregua armata, e per il momento gli bastava.

«Ho un’altra richiesta» sbottò Tanaquil. «Lo chiamerai Servio. Affinché quella… donna ricordi sempre la sua condizione.»

«E sia» acconsentì lui dopo una breve riflessione. In fondo Servio era un buon nome, e ricordare le proprie origini non poteva certo nuocergli.

«Ora vai a lavarti» concluse lei. «Sei sporco e puzzi.»

Non avendo modo di obiettare, Lucio obbedì.

Affondato nella vasca d’acqua calda, con un’ancella impegnata a strofinargli un panno sulla schiena, prese a dibattersi nella tempesta dei propri pensieri generata dallo scontro di sentimenti opposti.

Solo a notte già inoltrata, con il sonno che era poco più di un miraggio lontano, e schiacciato dagli interrogativi che lo avevano investito in quelle ore, prese una prima decisione: di certo avrebbe tenuto fede alla sua promessa, proteggendo Servio e crescendolo come se fosse suo figlio, facendo in modo che Ocresia potesse vivere serenamente.

Quanto a Tanaquil, comprendeva le sue ragioni: cedere agli istinti lo aveva portato a tradire la sua fiducia, per cui doveva trovare un modo per riconquistarla e persuaderla dell’unica, indiscutibile verità che sentiva nel profondo del cuore. Il suo amore. Di più, doveva convincerla che il bambino non avrebbe ostacolato in alcun modo i loro sogni di gloria.

Passarono giorni amari, tristi, vissuti nel segno del distacco e della freddezza, che mal si addicevano all’allegro clima primaverile. Giorni di furia, di nervosismo, di cieco risentimento ma anche di meditazione, di riflessione e di attesa. Giorni che Tanaquil visse in balia dei tanti stati d’animo che di volta in volta la travolgevano e che non riusciva suo malgrado a governare.

Il rapporto con Lucio si era arenato. Lui, cocciuto e testardo come ogni uomo, ostentava una falsa sicurezza con la quale forse riusciva a ingannare chi non lo conosceva bene, ma non lei. I sorrisi carichi di imbarazzo, gli sporadici slanci affettuosi, i resoconti delle giornate in Senato erano solo alcuni dei tanti gesti in cui suo marito si profondeva nel forzato tentativo di riallacciare un legame che si stava pericolosamente deteriorando. Anni passati insieme a pianificare ogni obiettivo vanificati dall’intrusione di una puttanella qualunque. Era questo che più la faceva imbestialire.

Prima che la situazione si facesse insostenibile, visto che Lucio non pareva in grado di risolvere i loro attriti, Tanaquil comprese che toccava a lei dare una svolta, e aveva un solo modo per farlo, il suo modo: interrogare ancora una volta gli dei.

Ordinò a Numerio, il più fidato dei suoi schiavi, di catturare una lupa, animale dal profondo significato simbolico per Roma e sacro pure per gli etruschi, e poi di tenerla nascosta e al sicuro fuori della città. Ci volle qualche giorno ma alla fine l’uomo le annunciò di aver portato a termine il suo compito.

Al primo momento utile, in un cupo pomeriggio, Tanaquil si fece condurre dall’animale. Vi si recò con la bisaccia per le divinazioni e ai piedi calzari robusti. Al fianco le pendeva un corto pugnale, buono anche per difendersi da incontri sgradevoli. Invece di affaticarla, la lunga camminata nella campagna romana donò alle sue membra un piacevole vigore, così, quando lei e il servo si avventurarono in una parte del bosco più fitta di vegetazione, anziché provare un ragionevole timore si sentì pronta ad affrontare qualsiasi avversario le si fosse parato di fronte, uomo o bestia che fosse.

Numerio scostò le fronde con un robusto bastone, tagliando rami per favorirle il passaggio, finché non si trovarono di fronte a un capanno. Un brandello di stoffa ne copriva l’ingresso.

«Dicono che qui vivesse Lunaria, la prostituta favorita di Tullo Ostilio» spiegò quasi con timore. Poi, visto che lei non si mostrava interessata, accese una torcia ed entrò.

Un ringhio ostile si alzò subito all’interno, tramutato in un lungo guaito di dolore dopo l’inconfondibile tonfo sordo di alcune bastonate.

«Puoi venire, mia signora.»

Tanaquil si infilò nel pertugio. L’odore acre degli escrementi dell’animale le aggredì le narici provocandole un conato. Le fiamme si contorcevano nel piccolo ambiente, ormai preda di erbacce e arbusti, creando un cerchio di luce ben definito solo nella parte centrale. Al limitare dell’ombra, la fiera snudò i canini a rinnovare la sfida con la nuova arrivata.

«Non ne hai avute abbastanza?» la minacciò il servo alzando il bastone, ma Tanaquil lo bloccò con un braccio.

«Basta così» gli disse. «Portala fuori.»

Una volta all’esterno individuò un modesto spiazzo.

Numerio vi trascinò la bestia, legata con un cappio al collo e, intorno alle zampe posteriori, una robusta catena impossibile da mordere. Legò quest’ultima alla base di un albero, poi tese l’altra corda in modo da bloccare l’animale.

Tanaquil studiò con calma la lupa nel debole grigiore del pomeriggio, girandole intorno. Il folto pelo grigiastro era sporco di fango e foglie secche. Il posteriore mostrava tracce di sangue. Si abbassò: le mammelle parevano ingrossate, i capezzoli di un rosa troppo acceso.

«Ha appena partorito» disse parlando più che altro a se stessa. Era una semplice constatazione, ai fini della divinazione non faceva alcuna differenza.

Sfilò la bisaccia, estrasse il fegato di bronzo e, tenendolo sui palmi levati in alto, alzò gli occhi a invocare l’aiuto degli dei. Dopo aver salmodiato una lunga preghiera staccò il pugnale dalla cintura e si avvicinò alla bestia. «Uni, Tinia, Menrva, sacra triade del popolo etrusco, invoco l’aiuto che solo voi potete darmi. In vostro onore offro questo animale, ancora più sacro per la nuova vita che ha da poco generato. Degnatemi della vostra benevolenza e concedetemi segni che possa interpretare.» Fece una pausa e si rivolse a Numerio. «Tienila ferma.»

Il servo tese ancora di più la corda. Le membra della bestia si irrigidirono, le zampe anteriori artigliarono a vuoto il terreno.

Tanaquil levò la lama. Un attimo prima di abbassarla incrociò lo sguardo della lupa. Negli occhi gialli, ferini, le parve di leggere un’enorme sofferenza mista a una sorta di serena rassegnazione. Poi un guizzo, subitaneo e inatteso: fu come un lampo di reciproca comprensione, come se si fossero scambiate in un solo istante i rispettivi pensieri. Un segnale divino, grazie al quale Tanaquil comprese per la prima volta nella sua vita il sentimento dell’amore materno, così profondo e sconfinato da travolgerla completamente.

Abbassò il pugnale. «Aspettami qui» disse al servo. Recuperò la torcia e tornò dentro. Si fece strada nella sporcizia per esaminare gli angoli più nascosti, finché non lo trovò: un piccolo lupo si agitava rotolandosi nel fogliame. Lo afferrò per la collottola per esaminargli il ventre: un maschio.

Spaventata da quel segnale così potente, Tanaquil lo lasciò andare e indietreggiò. Inciampò in una radice e cadde a terra. La lingua ruvida e umidiccia della bestiola le solleticò la mano. Si rialzò in fretta e corse fuori.

«Liberala» ordinò.

Sorpreso dal repentino cambio di programma, Numerio rimase a bocca aperta. Imbambolato.

«Fai come ti ho detto!» lo spronò Tanaquil. «E andiamocene.»

«Come vuoi, mia signora» fece lo schiavo.

Con molta cautela liberò dapprima le zampe poi, grazie all’aiuto di un bastone con l’estremità a forcella, tolse il cappio dal collo della lupa, che subito balzò via, verso la capanna, dal suo cucciolo. Scomparve in un attimo nel buio, come fagocitata dalla terra stessa.

Tanaquil esalò tutta l’aria che stava trattenendo nei polmoni e insieme a essa rilasciò la tensione di quei giorni, tentando di assimilare la rivelazione divina per comprenderne ogni singola sfaccettatura. La triade etrusca, di solito così avara di indicazioni, le aveva illuminato il sentiero concedendole almeno un segnale chiaro. Forse qualcosa di più. Mormorò un’altra preghiera, dopodiché ripose tutto il suo armamentario nella bisaccia e riprese la via di casa.

Lucio si coricò presto, senza attendere il ritorno di Tanaquil. Sapeva che era uscita per una delle sue divinazioni; tuttavia, pur essendo ormai buio, non si preoccupava troppo. Le probabilità che incappasse in qualche brigante spintosi fino alle porte di Roma erano minime, e il timore di quella remota possibilità gli causava giusto una punta di inquietudine. Bastava non pensarci. Per contro, il fatto di non dover sopportare un nuovo teso silenzio lo sollevava, ma si trattava di un benessere finto, temporaneo. Alla fine, sommando tutti i fattori, l’apprensione per la pessima deriva del loro rapporto seguitava ad assillarlo, così cadde in sogni confusi, una caotica miscela tra gli avvenimenti recenti, le speranze e i timori per il futuro. Tanaquil compariva in tutti.

Un tocco gentile lo destò nel bel mezzo di un incubo. Il sonno ebbe ancora la meglio e piombò in un confuso dormiveglia.

«Lucio.» Fu il suono della sua voce a riportarlo definitivamente alla realtà.

La luce delle torce le disegnò addosso ombre che la rendevano quasi irreale, eterea. Una bellezza maestosa avvolta in una veste sottile, dalle forme avvenenti.

Ne restò stordito, come non gli capitava da tempo.

«Avevi ragione» sussurrò Tanaquil china su di lui. «Servio è qui per aiutarci. E noi dobbiamo proteggerlo. Per lui, per noi stessi. Per Roma.»

Lucio stava per rispondere, per chiederle ancora scusa, per dirle una volta di più quanto profondamente fosse innamorato di lei, ma Tanaquil lo costrinse a tacere, l’indice appoggiato sulle labbra.

«Ssh. Non è il momento di parlare. Chiudi gli occhi.»

Lucio obbedì.

Tanaquil cominciò a baciarlo sul collo, a lungo. Il modo perfetto di fare la pace.

Dopo pochi istanti percepì con chiarezza un’altra lingua guizzare intorno al suo orecchio. Spalancò le palpebre di colpo. Il volto in penombra gli restituì un sorriso complice. «Ocresia!»

Lucio cercò sua moglie, a chiederle una spiegazione. Senza fiato, preda di un’eccitazione mai provata prima, riuscì a malapena a balbettare. «Cosa…»

La voce di Tanaquil al contrario arrivò sicura, calma e suadente: «Una triade comanda il pantheon. Una triade dominerà su Roma. E se Uni accetta Menrva, io posso fare lo stesso con Ocresia».

Lucio si sentì ardere dal desiderio, che lo investì come le fiamme di un incendio. Indugiò nel duplice abbraccio, quindi si decise a passare al contrattacco.

Tanaquil lo fermò, posandogli un dito sulla bocca. «Ti farai perdonare dandomi un bambino» gli disse. «Abbiamo aspettato troppo tempo.»

La ricerca della gloria era un sentiero arduo e rischioso che avevano sempre affrontato fianco a fianco, tuttavia difficile da percorrere con un marmocchio tra i piedi. Perciò avevano sempre rimandato il concepimento. Ma ora era tutto diverso.

«Non aspetteremo un istante di più» la rassicurò. «Questo è il momento giusto.»