CAPITOLO VENTIDUESIMO

La vestale

Roma, 592 a.C.
Due anni dopo

Nelle ore centrali della giornata Lucio si aggirò nel giardino del palazzo godendo della compagnia di Tanaquil, dei figli o di chiunque fosse disposto a trascorrere qualche ora con lui senza sottoporgli questioni fastidiose da risolvere. Dedicarsi al riposo prolungato, abbandonare i pensieri, le diatribe politiche, le questioni militari. Mettere da parte i problemi. Forse non gli era mai accaduto, o almeno non ricordava più l’ultima volta che lo aveva fatto.

Il riposo gli era sempre parso una perdita di tempo. Certo, alle volte era necessario, e poteva anche essere piacevole, soprattutto grazie alla compagnia di sua moglie, ma di solito gli erano sufficienti poche ore, poi la sua mente cominciava a produrre nuove idee. Piani politici, azioni, decisioni. E d’un tratto il riposo diventava una prigione.

Per fortuna non quel giorno. Si scoprì a provare una serenità nuova, che non aveva mai avuto modo di assaporare. Merito di Hulx, che gli alleviava il compito di addestrare a dovere l’esercito in vista delle guerre estive: Fidene doveva essere riconquistata, l’onta del tradimento lavata nel sangue, ed era necessario porre fine anche alla prepotenza di Veio, che pochi mesi prima aveva lasciato i propri soldati sconfinare troppo spesso in terra romana.

«Sei stranamente tranquillo» osservò Tanaquil giungendo a interrompere i suoi pensieri. «Ti stai godendo il riposo? Allora è vero che stai invecchiando.»

La voce della moglie, ferma e dolce come sempre, era però venata da un’insolita ironia. Lucio le sorrise, ma cedette all’impulso di guardarsi in uno specchio di bronzo: nonostante avesse compiuto sessantasette anni, la pelle liscia gli donava un aspetto molto più giovane. Certo, i capelli e la barba avevano assunto un colore candido ma, nel complesso, la vita attiva che aveva condotto gli aveva concesso una vecchiaia invidiabile.

Tornò a guardare Tanaquil. Su di lei gli anni parevano scorrere sfiorandola appena, lasciando segni che nulla riuscivano a togliere alla sua leggendaria bellezza.

«Però stiamo invecchiando bene» ribatté ridendo.

«Per questo devi ringraziare la benevolenza degli dei.»

«Non sono stati gli dei a farci arrivare fin qui» replicò Lucio. «Siamo stati io e te, con le nostre forze.»

«Senza le loro intercessioni le nostre forze sarebbero servite a ben poco» continuò Tanaquil.

«Non ho mai visto Marte sui campi di battaglia» disse Lucio tenendole la mano. Sorrideva, ma dentro di sé sentiva montare l’orgoglio del condottiero. «Non ho mai incontrato Giove o Minerva, non ho mai vinto uno scontro grazie a un intervento divino. Ho visto uomini morire, ho ucciso, preso decisioni difficili che hanno cambiato la vita di tante persone.» Lucio alzò lo sguardo al cielo azzurro privo di nuvole, e il pensiero corse al passato. «Ho sofferto in ciascuna di queste situazioni. Sono il solo responsabile di ciò che ho fatto. Nel bene e nel male.»

«Sei il solito miscredente» rise Tanaquil.

«Soprattutto nel bene» dichiarò Lucio, deciso a mettere in chiaro che ognuna delle sue vittorie era meritata e non frutto di qualche fantomatico aiuto divino. «Sono il più grande condottiero della storia. Ho trasformato un villaggio di zotici in una città potente e temuta. Ho sconfitto nemici prodigiosi, vinto battaglie che verranno ricordate in eterno. L’ho fatto io. Lucio Tarquinio.» Si fermò a fissare lo sguardo perplesso di lei. «Non senza il supporto di una moglie straordinaria» concluse.

«Allora se hai una così grande stima di me,» fece Tanaquil «non lasciarti andare alla vanagloria, ma rendi grazie agli dei delle tue vittorie e della tua fortuna.»

Messa in quel modo, Lucio non aveva scampo. Incapace di evadere da quell’insopportabile logica senza ferire la moglie, preferì non rispondere.

«Potresti… costruire un nuovo tempio» rilanciò lei.

«Ci vogliono anni e tanti soldi. Non tutti in Senato sarebbero felici di una simile decisione.»

«Ampliane uno esistente.»

Seccato per l’eccessiva insistenza, Lucio si arrese. «E va bene» grugnì. «Penserò a qualcosa.»

Da tempo Nervo Emilio Rufo era il più acerrimo oppositore di Lucio Tarquinio e acquisiva, anno dopo anno, sempre più seguaci. Di pari passo erano montate in lui l’ambizione di diventare re e la consapevolezza di avere sufficiente abilità per raggiungere un traguardo così ambizioso.

La sua ricerca di consensi tuttavia non si arrestava all’ambito politico, ma ne travalicava i confini. I suoi tentativi di imporsi come punto di riferimento nei più svariati ambiti della vita sociale lo avevano, di fatto, reso celebre e apprezzato in tutta la città. Amava vestire in maniera elegante, curarsi i capelli e la pelle, ed era solito cambiare ogni giorno profumo. Preferiva la seta, non disdegnava il lino e detestava la lana: un tessuto troppo grezzo, degno dei plebei, che oltretutto gli provocava un insopportabile prurito.

Quella notte, però, sopra al subligar di cotone che gli fasciava a malapena le parti intime, fu costretto a indossare una tunica di lana grezza di un indefinibile colore grigiastro, senza badare troppo all’estetica e sopportando anche l’immancabile fastidio. Si gettò sulle spalle un mantello, anch’esso di lana, tirò su il cappuccio e uscì nell’oscurità come un qualunque servo.

Il percorso che lo condusse a casa di Tito e Agrippa Marzio era breve, ma non poteva permettersi di essere riconosciuto.

Agrippa lo accolse all’ora prestabilita, facendolo entrare da un ingresso secondario. Alla flebile luce di una torcia lo condusse nell’ampio salone, dove il fuoco riscaldava e rischiarava nello stesso tempo. Un uomo insignificante, lo giudicò Rufo. Bruttino e senza la fascinosa cattiveria del fratello.

Sdraiato sul triclinio, Tito aveva lo sguardo truce di chi, per interferenze altrui, rischia di arrivare in ritardo a un importante appuntamento con la storia. Con una mano piluccava uva rossa da una ciotola, con l’altra lo accolse alzando il calice. Era passato del tempo, ma il fallimento continuava a tormentarlo.

«Ci rimugini ancora?» gli disse Rufo liberandosi del mantello. Poi si grattò la schiena, tormentata dal prurito. «Ci siete andati molto vicino. Si è salvato per puro caso.»

Tito grugnì. «Appunto. Quel bastardo ha avuto fortuna.»

Agrippa andò a sedersi al proprio posto, scuotendo il capo. «Quale fortuna? Kalaturus si è sacrificato per lui.»

«Sembra quasi che li ammiri» lo schernì il fratello, gelandolo con un solo sguardo.

Agrippa si affrettò ad alzare le mani per respingere l’accusa. «Li odio quanto te.»

Senza chiedere il permesso, Rufo si versò del vino. Mentre beveva osservò i due dal bordo della coppa, i loro occhi bovini, quindi intervenne per riportare la discussione sulla strada da lui stesso voluta. «Non è una competizione a chi lo odia di più. In questo momento a noi basta trovare qualche valida motivazione per convincere quanti più senatori possibile ad attaccarlo. Se la maggioranza gli si rivolta contro…»

Lasciò la frase in sospeso. Non aveva intenzione di analizzare insieme a quei due tutti i possibili scenari che un fatto del genere avrebbe generato. Anche perché prima o poi avrebbe dovuto scavalcarli per raggiungere i propri scopi.

«Potremmo… spodestarlo?» chiese Agrippa, ancora speranzoso.

«Non credo che riusciremmo ad arrivare a tanto» lo contraddisse Tito passandosi una mano tra i capelli brizzolati. «Però dalla confusione che si creerebbe avremmo tutti da guadagnare.»

Rufo assentì e fu sul punto di replicare, ma venne interrotto dal trambusto provocato da un uomo, che irruppe nella stanza come un vento impetuoso. La porta sbatté. Annaspando, l’intruso stramazzò al suolo.

Entrambi i fratelli scattarono in piedi, ma se il minore si affrettò a soccorrere il poveretto, Tito rimase a distanza, limitandosi a fissare la scena con evidente disgusto. «Sei ancora ubriaco» disse con disprezzo.

«Fulco…» lo chiamò Agrippa in modo più gentile. Tentò di scuoterlo per farlo rinvenire, ma l’altro rispose con un sonoro rutto.

«Ho sete» mugolò poi. «L’argento… tutto finito.»

Agrippa gli porse dell’acqua, ma lui la rifiutò biascicando parole sdegnate.

«Portalo a letto» ordinò Tito. «In questo stato è solo d’intralcio.»

Il fratello obbedì; non senza difficoltà riuscì a farlo alzare, poi, barcollando sotto il peso dell’amico, uscì dalla stanza.

Rufo notò che le vesti di Fulco erano imbrattate di sangue. «Che diavolo ha combinato?» volle sapere.

Tito emise un sospiro rassegnato. «Niente di buono… come al solito.»

Rufo trattenne una smorfia di disgusto e bevve un altro sorso di vino.

«Bene» disse poi, quando Agrippa fu rientrato. «Da domani dobbiamo iniziare a lavorare come stabilito.» Quindi fece per andarsene, ma Tito lo trattenne.

«Te ne vai così presto?»

Rufo lo fissò. «Dovete dirmi qualcos’altro?»

Tito sorrise. «No. Ma abbiamo pensato di festeggiare la nostra alleanza. Vieni?» domandò facendogli strada.

«Non sono presentabile…» protestò Rufo guardandosi le vesti.

«Certo che lo sei. Fidati.»

Rufo si lasciò trascinare fuori. Attraversarono il giardino per dirigersi verso una porta, dalla quale proveniva la musica di un flauto.

Una volta dentro, Rufo si avvide che la stanza era ampia, decorata con affreschi raffiguranti scene d’amore d’ogni tipo. Quello che lo colpì però non fu la pittura, ma chi vi trovò.

Lasciò vagare lo sguardo indifferente sul gruppo di ragazze nude che danzavano, bevevano e si divertivano accarezzandosi fra loro. Il suo interesse si ravvivò alla vista di due giovanotti, anch’essi privi di vesti, che parevano in attesa proprio di lui.

Colse lo sguardo compiaciuto che si scambiarono Tito e Agrippa, ma non se ne curò. Si tolse la tunica, sentendosi libero e felice, e si avviò in direzione dei due ragazzi, pronto a gioire di loro e con loro.

La soluzione al problema di Lucio arrivò da Kyros.

«Potresti scegliere altre vestali» fu la sua proposta.

Dopo la perdita di Kalaturus, la scomparsa di Hanipal e la morte di Tarnas, e vista l’avversione di Tanaquil per ogni tipo di guerra, il greco, insieme ad Azio Nevio, era diventato il suo principale supporto. Abbandonati i panni notturni di sicario e spia aveva indossato quelli di accompagnatore tuttofare, emergendo come un nuovo astro nella vita pubblica romana e nella stessa famiglia reale, all’interno della quale si era ritagliato un ruolo molto simile a quello di un vecchio zio. La sua mente sveglia, avvezza come poche a comprendere l’animo umano, aveva aiutato Lucio a dirimere non poche spiacevoli situazioni, facendolo diventare in brevissimo tempo il suo principale confidente.

Anche con quell’ultimo consiglio pareva aver centrato il bersaglio.

Lucio rimase in silenzio a soppesare per un po’ quelle parole, ma non vi trovò alcuna criticità, anzi. Sarebbe stato un chiaro gesto di ringraziamento verso la benevolenza divina e, come tale, ben visto dalla cittadinanza. Ma sarebbe stato anche uno strumento politico per fare pressione sul Senato.

«È un’ottima idea» disse alla fine. «Nessuno si aspetta un simile annuncio, li spiazzerei. Tutti quanti.»

«Vedrai come si agiteranno» sghignazzò Kyros. «Ogni uomo anela di vedere la propria figlia indossare le sacre vesti.»

«Farò contenti due di loro. Annuncerò la scelta di due nuove sacerdotesse, linfa per il sacro fuoco, a dimostrare la forza e l’ardore della nostra gratitudine verso gli dei.»

«I romani te ne saranno riconoscenti» disse Kyros con un sorriso soddisfatto. «Vedere altre figlie di Roma entrare nel tempio costituirà motivo di gioia per tutti.»

«E, a quanto sostiene Tanaquil, pure per gli dei!»

Lo sguardo di Lucio si fece malizioso. «Il problema sarà la scelta» disse. L’attenzione di Kyros per il mondo femminile era ben nota. Nelle sue conquiste si annoveravano donne di ogni età e ceto sociale, mentre i rifiuti, nella sua lunga carriera di rubacuori, si contavano sulle dita di una mano. Lucio era sicuro che l’amico avesse già in mente qualche nome. «Ma scommetto che hai più di un suggerimento per me.»

Kyros non finse, non girò intorno al nome, non si fece pregare.

«Publio Vergine ha una figlia bellissima, la più bella fra tutte le giovani romane» disse. Un suggerimento diretto, di certo ponderato e quanto mai sensato. Publio Vergine era il più influente tra i senatori della nuova generazione. Aveva ereditato lo scranno del padre, ma dimostrava un’abilità retorica e una volontà ben maggiori di quelle paterne. Il vecchio Vergine si era infatti distinto per diplomazia ed equilibrio, ma si era preoccupato per lo più di salvaguardare la propria posizione, senza esporsi troppo. Publio, al contrario, scalpitava e, cosa più importante, non si era ancora apertamente schierato, mantenendo una posizione di neutralità nei riguardi di Lucio. Tutti fatti di cui Kyros era a conoscenza.

«Potrebbe essere un buon espediente per portarlo dalla mia parte» constatò Lucio.

«Proprio quello a cui pensavo» confermò Kyros, la voce ridotta a un sussurro. «Sarebbe un’aggiunta importante alla tua fazione.»

«Andrò a parlare con lui quanto prima» affermò Lucio.

«Aspetta» lo bloccò il greco. «Vedrai che sarà lui a cercarti. E non sarà il solo.»

La previsione di Kyros si rivelò esatta.

I giorni successivi all’annuncio di Lucio videro infatti una processione di senatori recarsi a palazzo per proporre le proprie figlie, decantando al re gioventù, intelligenza e bellezza, come era ovvio. Ma le questioni in gioco erano ben altre. Pur di conquistare l’onore che spetta a ogni vestale, le promesse politiche poste sul piatto furono molteplici. La mossa di Lucio si era rivelata anche più fruttuosa di quanto avesse immaginato. Poteva giocare con il coltello dalla parte del manico, erano gli altri a proporre; lui si limitava ad attendere, soppesare. Il suo obiettivo ormai era l’offerta migliore.

E questa si presentò proprio con Publio Vergine.

Con due servitori al seguito, alla fine arrivò anche lui: riccamente vestito e ingioiellato, la figura pingue attestava il noto piacere per le libagioni, confermato dal viso rubicondo che ben si abbinava al doppio mento.

Lucio lo accolse senza alzarsi, invitandolo a sedersi su una sella curule, molto più semplice della sua e soprattutto posta tre gradini più in basso.

«Di certo immaginerai il motivo per cui sono venuto da te» fece Publio, servendosi una manciata di acini d’uva.

Lucio si limitò ad annuire, producendo un silenzio che avrebbe dovuto generare dubbi e imbarazzare l’interlocutore; Publio invece proseguì come se niente fosse, del tutto a proprio agio. «Mia figlia Pinaria sarebbe perfetta come vestale. È una bellissima ragazza, devota a Roma, al suo re e agli dei.»

Fallita la prima tattica, Lucio passò all’annoiata indifferenza. «L’occhio di un padre è sempre troppo benevolo» rispose.

«Non in questo caso. Chiedi pure in giro: Pinaria è la più bella tra le giovani romane, senza dubbio» insisté Publio, sempre più infervorato. «E sarebbe un onore per lei curare il sacro fuoco.»

Lucio si accarezzò la barba e prese ad annodarne una treccia. Un gesto che di solito tradiva tensione, ma che stavolta era solo un vezzo. «Come sai,» disse con più serietà di quanta in realtà ne provasse «si tratta di un ruolo ambito. Ho ricevuto una moltitudine di validissime candidature, ognuna di queste accompagnata da altrettanto valide… proposte.»

«Immagino» annuì l’altro. «E presumo che le proposte di cui parli possano modificare gli equilibri del Senato.»

«Proprio così» confermò Lucio. Al di là del disgusto per l’aspetto fisico, quell’uomo gli piaceva. Era sfrontato ma parlava chiaro, senza giri di parole, dote molto rara tra i politici.

«Allora se le cose stanno così possiamo ragionare sul fatto che i tuoi principali nemici, che non sto neanche a nominare, stanno intensificando la ricerca di alleati, mentre tra quelli ancora neutrali io sono il senatore più ricco e influente.» Pronunciò le ultime parole con un tono ben diverso da quello che aveva tenuto fino a quel momento. Le risa gioviali avevano ceduto il posto alla quiete di un sorriso allusivo. «Basterebbe davvero poco per farmi avvicinare a te.»

«Prenderò la tua proposta in seria considerazione, senatore Vergine. Sembra molto interessante.»

E così fece. Ascoltò altre proposte, accolse altri senatori e discusse con loro, trattandoli con cordialità e ringraziandoli ma, alla fine, la decisione appariva inevitabile.

Scelse senza vedere le ragazze: l’appoggio di Publio Vergine era troppo importante, non potevano esserci dubbi sulla scelta di Pinaria. Così fu lei la prima delle nuove vestali.

La seconda si chiamava Cecilia Mitilla. Il padre, Flavio Mitilla, era un senatore da sempre fedele a Lucio. Si trattava di un modo per ringraziarlo, dato il suo appoggio incondizionato e senza pretese. A Lucio parve un bel gesto, un atto dovuto.

Ma, soprattutto, la scelta di Pinaria si dimostrò essenziale sul piano politico: Publio Vergine prese a sostenerlo con forza, e altrettanto fece il gruppo di senatori che facevano capo a lui.

Kyros ci aveva visto giusto e le sue previsioni si erano rivelate azzeccate.

La cerimonia di vestizione delle nuove sacerdotesse si svolse, secondo un antico rituale, al cospetto delle vestali più anziane e del re, in qualità di pontefice massimo.

Recitando ormai a memoria la parte della suprema guida religiosa, Lucio officiò con la necessaria solennità il rito della cattura, anche se in cuor suo riteneva che gli dei non si curassero del numero delle vestali: che fossero quattro, sei o venti non faceva alcuna differenza. Distanti erano e tali sarebbero rimasti.

Affiancato da Azio Nevio, che già aveva annunciato pubblicamente il favore degli dei all’iniziativa, e dai vari flamines, che a stento tollerava e dei quali si rifiutava anche solo di imparare nome e funzione, si recò dapprima a casa di Cecilia Mitilla, dove fu accolto con deferenza dal fedele Flavio. Quando la vergine uscì di casa provò un moto di tenerezza: era poco più che una bambina, il corpo magro, spigoloso, avvolto in una tunica immacolata dalla quale spuntavano solo i minuscoli piedi scalzi e il viso ossuto che ricordava quello del padre.

Tese comunque la mano e pronunciò, con tono solenne, la formula di rito: «Io ti prendo con me, mia prediletta».

Da quell’istante, la giovane donna era legata al pontefice come un’innamorata si unisce all’amato. La dedizione al proprio compito diveniva assoluta. Non poteva esserci spazio per altre priorità nella sua esistenza, oltre alla cura del sacro fuoco, il cuore pulsante di Roma. Alle vestali spettava il compito di mantenerlo in vita e, con ciò, di assicurare la salute e il futuro della città. Non erano ammessi errori.

La piccola processione volse quindi in direzione di casa Vergine, accompagnata dagli sguardi curiosi della gente, scesa in massa in strada e raccolta in un clima di reale devozione.

Publio accolse Lucio con un saluto chiassoso che stonava con il clima generale. La sua grande villa aveva poco da invidiare al palazzo del re e nel giardino che la circondava il senatore aveva organizzato un vero e proprio banchetto di benvenuto. I servi erano intenti a portare vassoi di frutta e otri di vino, da cui attingevano amici e parenti richiamati dal senatore.

Sulle prime Lucio provò un istintivo fastidio: desiderava sbrigare l’insulso rito per poter tornare alle sue faccende; tuttavia il miglior vino speziato che avesse assaporato negli ultimi tempi lo convinse a pazientare un po’.

Pinaria gli lasciò il tempo di goderne appieno gli effetti, ma l’attesa fu ripagata da una visione che fece calare il silenzio su tutti gli astanti. Giunse come una dea tra i mortali: la pelle d’avorio sembrava riflettere la luce del giorno in un’aura irreale, i capelli scuri, lunghi fino alla vita, ondeggiavano attorno al corpo flessuoso e sensuale. Quando gli si fermò davanti Lucio, già ebbro, fu investito dal suo profumo, una sapiente mescolanza di fiori e spezie che gli mozzò il respiro. La sua bellezza era risaputa, ma nessuna descrizione le rendeva davvero merito, né avrebbe potuto prepararlo a fronteggiare l’emozione di trovarsela di fronte. Per un attimo rimase come stordito. Poi si scosse, maledicendo la propria idiozia: “Sei proprio un vecchio rimbambito” pensò.

Eseguì il rituale evitando di fissarla troppo a lungo negli occhi, la cui forma allungata le conferiva un’espressione maliziosa, di un blu profondo come le notti di luna piena, il colore più incredibile che Lucio avesse mai visto. C’era qualcosa di magnetico in quel volto e in tutta la figura di Pinaria. Pareva quasi che, in sua presenza, le persone si sentissero intimorite, al punto da abbassare inconsapevolmente il tono della voce, mentre i loro sguardi non potevano fare a meno di soffermarsi su di lei.

Quando pronunciò la fatidica frase Lucio non fece eccezione. Abbandonò la ritrosia interiore e si concesse di ammirare la magnifica figura, dalla testa fino ai piedi piccoli e ben formati.

Il corteo fece ritorno verso il palazzo reale. Mano nella mano con Cecilia e Pinaria, Lucio lo oltrepassò e le condusse nel tempio di Vesta, dove furono accolte dalle altre vestali, la cui bellezza scompariva al confronto con le nuove venute, nonostante fossero tutte ancora giovani.

Dischiuse le mani per lasciarle andare ma un impulso involontario gli fece contrarre un istante di troppo quella che stringeva Pinaria, come se volesse trasmetterle una sorta di messaggio. Gli parve perfino che lei avesse ricambiato la stretta.

Le anziane accolsero le novizie e le guidarono verso il fuoco che ardeva, alto e indomito, nel grande braciere posto in fondo all’edificio. Annodarono la sacra benda tra le lunghe e complesse trecce che distinguevano ogni vestale, quindi le condussero nelle stanze private dove avrebbero impartito loro i primi rudimenti del lungo apprendistato.

Il compito di Lucio era terminato.

Quando uscì dal tempio aveva un nodo in gola e l’ultimo sguardo di Pinaria fisso in testa. Mentre rientrava a palazzo si guardò più volte la mano, di soppiatto, come se la volesse interrogare, come se potesse davvero avere da lei, dalle sue sensazioni, la risposta che anelava: la stretta della ragazza era stata reale o l’aveva soltanto immaginata?

Si costrinse a pensare ad altro, tuttavia quegli occhi tornarono costantemente a fargli visita e nei giorni seguenti divennero un’ossessione.

In un primo momento Lucio maledisse se stesso e i propri ardori. Sembrava un ragazzino alle prese con la prima cotta, mentre in realtà era un vecchio rincitrullito, perso dentro un’illusione che lo distraeva da ogni altra mansione. Il ricordo della pelle liscia e il profumo di quel corpo sinuoso lo tormentavano nei momenti più impensabili, nel bel mezzo di un banchetto come nel dormiveglia, e più volte dovette scacciare l’idea di correre al tempio come un fanciullo innamorato.

Alla fine riuscì a recuperare un minimo di controllo e a far valere la ragione, vincendo, seppure a fatica, l’assillante tormento che l’immagine di Pinaria gli provocava. Non poteva desiderare una vestale, tanto meno possederla: avrebbe infranto un patto sacro e scatenato su Roma le ire della dea. Inoltre, la vergine era giovanissima, e lui un anziano sovrano con fin troppe responsabilità. Doveva resistere facendo leva sulla convinzione che si trattasse di un semplice capriccio dettato dalla voglia di tornare giovane e di risvegliare pulsioni da tempo sopite. La storia a tre con Ocresia era infatti scemata nell’abitudine e gli incontri si erano via via diradati finché, un giorno, si erano trovati a ricordarli con divertimento ma senza rimpianti. Anche l’attrazione fisica per Tanaquil era stata fiaccata dallo scorrere del tempo, nonostante l’avvenenza e il fascino della moglie paressero eterni. A pensarci bene non nutriva alcun dubbio sui suoi sentimenti: l’amava ancora.

Lucio accolse la guerra alla stregua di una maledizione. Un nuovo incubo dalle sembianze di un demone cornuto. Due erano infatti i fronti aperti: da un lato Veio, dall’altro una nuova alleanza tra i popoli sabini.

«Per colpa dei veienti dovrò dividere l’esercito» disse a Tanaquil una sera, rimuginando a letto senza riuscire a prendere sonno. «Non so a chi affidare il comando dell’altro schieramento.»

Lei rimase in silenzio a lungo, tanto che Lucio pensò che si fosse addormentata. Poi all’improvviso disse: «C’è una sola possibilità».

«Quale?»

«Egerio. Ha governato bene la piccola guarnigione distaccata a Collazia. Non credo che il compito lo spaventerà.»

«L’ambizione certo non gli manca» constatò Lucio. Nutriva qualche dubbio sulle sue capacità di condottiero, ma del resto era l’unico della famiglia che per età, esperienza e fedeltà fosse in grado di cavalcare alla testa di un esercito. Così, alla fine, decise di fare proprio il consiglio di Tanaquil.

«Metterò Egerio al comando delle truppe ausiliarie» dichiarò. «Combatterà i sabini in mio nome.»

«Porterai Servio?»

«Certo. Ha diciassette anni, ormai. Mi ha chiesto di venire e stavolta lo accontento.»

«E… Gneo?»

Lucio scosse la testa. «È ancora un ragazzino.»

Purtroppo non era solo quello. Sin da bambino Gneo aveva mostrato una crescente avversione per la disciplina e l’obbedienza, doti indispensabili per poter sopravvivere in un ambiente militare. L’unico scopo della sua vita sembrava il divertimento. Non aveva attitudine allo studio né il fisico da atleta, si rifiutava di combattere e, anche nei momenti in cui gli era richiesto di darsi un contegno, si divertiva a ridacchiare come un idiota qualunque. Così, quando giunse il momento di scendere in guerra contro Veio, Lucio portò con sé solo il suo primogenito.

Arrivati alle porte della città nemica si rese subito conto dell’improbo compito che lo attendeva.

Il più popoloso dei centri abitati etruschi stava arroccato su una brulla collina che dominava l’intera pianura, circondato da una maestosa cinta muraria che lo rendeva praticamente inespugnabile. L’assoluta mancanza di boschi in cui trovare riparo rendeva impossibile un attacco a sorpresa. Non solo: l’abilità degli arcieri etruschi, capaci di centrare un uomo a cento passi di distanza, impediva a qualsiasi nemico di avvicinarsi.

Tutto intorno, un’infinita serie di modesti colli digradava in una pianura ricoperta da una fitta selva, nella quale si stava nascondendo il resto dell’esercito romano, pronto ad attaccare. Tuttavia, spingerlo sotto quelle mura sarebbe equivalso a un suicidio tattico, e Lucio non aveva nessuna intenzione di far massacrare i suoi uomini. Trascorse così i primi giorni studiando l’obiettivo da ogni possibile angolazione, come un felino affamato e tuttavia incapace di attaccare la preda prescelta.

La prima difficoltà si presentò quando, all’alba di una mattina nuvolosa, un gruppo di predoni sbucò dal nulla e si abbatté sulle sentinelle perimetrali. Alcuni romani caddero, colti di sorpresa, ma la reazione dei soldati fu rapida ed encomiabile: si disposero in formazione difensiva bloccando ogni possibilità di nuove incursioni. Il resto lo fece Servio che, alla guida della cavalleria, dapprima accerchiò il nemico, poi lo annientò stringendoglisi intorno, inesorabile e letale come un serpente.

In compagnia di Kyros e Hulx, Lucio aveva osservato Servio combattere.

«Ti somiglia molto» gli fece notare il greco.

Lucio scosse la testa. «È identico a Ocresia.»

«Nei lineamenti, forse» considerò Kyros. «Per il resto è una specie di piccolo Luchmon: astuto e riflessivo nella preparazione della battaglia quanto coraggioso e pronto a gettarsi nella mischia in caso di necessità. Non ho dubbi che sia tuo figlio.»

Lucio non rispose. La sua bocca si distese in un sorriso compiaciuto che si costrinse a mascherare quando Servio, fatti giustiziare gli ultimi prigionieri, si avvicinò per riferire.

Lucio l’ascoltò con aria grave, poi tornò a scrutare le mura di Veio.

«Non sarà facile prenderla» constatò Hulx.

«Se tentassimo un’incursione notturna?» propose Servio.

Hulx sputò il filo d’erba che stava masticando. «Ci scoprirebbero subito. Meglio lasciar perdere.»

«No, non possiamo tornare indietro» ribatté Lucio, deciso. Non aveva alcuna intenzione di desistere alla prima difficoltà e mandare in fumo un inverno di preparativi senza nemmeno provarci. «Dobbiamo dare loro una lezione, o in breve tempo li ritroveremo a compiere scorrerie nei nostri territori.»

«Quante scorte credete abbiano, in città?» chiese Kyros.

«Gli etruschi non sono stupidi» rispose Lucio. «Di certo hanno grano in abbondanza per arrivare all’inverno. Poi lo semineranno di nuovo per fare rifornimento per la prossima stagione.»

«Allora distruggiamo le campagne» propose Hulx. «Uccidiamo i contadini e portiamo le loro donne ai lupanari di Roma. Diamo fuoco ai boschi, facciamo scappare tutti gli animali e prendiamo solo quelli buoni da allevare. Così li fiaccheremo!»

Visto che a nessuno veniva in mente una soluzione migliore, Lucio approvò la devastazione suggerita dal lottatore. Nei giorni successivi guidò l’esercito a spazzare via tutto quello che stava intorno a Veio. I minuscoli insediamenti circostanti furono distrutti e dati alle fiamme, i prigionieri inviati a Roma come bottino di guerra. I boschi vicini erano stati incendiati, le lingue scarlatte avevano illuminato le brevi notti estive, terribili avvisaglie dell’imminente guerra.

Alla fine l’esercito romano tornò ai piedi della città nemica, stabilendo il proprio accampamento alle pendici della collina. Abbastanza vicino per ricordare agli abitanti di essere a rischio di subire un assedio, ma sufficientemente lontano per non farsi cogliere alla sprovvista da un’eventuale sortita.

La stasi si protrasse per un’estenuante settimana di calura estiva, finché al calare del sole di un giorno in tutto e per tutto identico ai precedenti giunse inatteso un messaggero, che fu condotto al cospetto di Lucio.

Si trattava di un ragazzino romano, all’incirca dell’età di Gneo. Smontò da cavallo, trafelato e impaurito di fronte al suo sovrano. Tuttavia non si fece condizionare dalla fatica né dal timore reverenziale, e riferì il messaggio in piedi, senza tergiversare. «Il comandante Egerio mi manda a dirti che siamo stati sconfitti a Fidene. Il nemico ci ha colti di sorpresa e adesso sta marciando verso Roma.»

Lucio scagliò in terra la coppa di vino annacquato con cui stava tentando di mandare giù la frugale cena: focaccia insipida e pezzi di carne avanzati dal pranzo, lo stesso cibo della truppa. «Maledizione!» sbottò. «Non avrò mai pace finché non avrò ucciso quel cane di Xexanar!»

Fissò il messaggero come per incenerirlo, poi si versò dell’olio sulle mani e prese a ungersi la barba. Il profumo di muschio e resina aveva il potere di rilassarlo.

«Come ti chiami?» chiese al ragazzo.

«Caio.»

«Bene, Caio. Raccontami. Com’è potuto succedere?»

Il giovane abbassò la testa, come se si sentisse responsabile dell’accaduto. «Io sono rimasto nelle retrovie e non ho assistito alla battaglia» rispose. «Però…»

«Però cosa?» lo incoraggiò Kyros.

«Ho sentito dire che la colpa è del comandante.»

«Cos’ha combinato Egerio?»

Caio si morse il labbro inferiore. «Alcuni compagni sostengono che abbia fatto un… errore di valutazione.»

Il pugno di Lucio si strinse. «Coraggio, parla! Altrimenti ti farò cavare la lingua!»

«Dicono che abbia fatto accampare l’esercito in un avvallamento» rivelò allora il giovane, tutto d’un fiato. «I sabini hanno chiesto aiuto agli etruschi, che ci hanno sorpreso alle spalle e dall’alto. Abbiamo subito molte perdite.»

«Qual è la situazione attuale?»

«Il comandante ha ordinato di ripiegare verso Roma.»

«Una scelta saggia» grugnì Lucio. «Se non è in grado di riconquistare Fidene, che almeno protegga il nostro popolo.»

Lucio era consapevole che una manciata di prigionieri, del bestiame e pochi gioielli non sarebbero bastati a scongiurare gli attacchi dei senatori a lui ostili. Per questo respinse la proposta di Kyros di scaricare in mezzo ai vecchi criticoni il bottino di guerra, e si presentò di fronte a loro a mani vuote, accompagnato da Servio ed Egerio.

Flavio Mitilla fu il primo ad accoglierlo, salutandolo con sincero affetto. Lo stesso fecero i senatori a lui fedeli, mentre gli altri, come al solito, si tennero a distanza di sicurezza, seduti ai loro posti.

Lucio si portò al centro della sala, fece scorrere lo sguardo sui presenti e attaccò il discorso che si era preparato.

«Sarò sincero con voi» disse. «Anche se abbiamo vinto, Veio resiste ancora. Quei codardi si sono rintanati tutta l’estate, chiusi dietro le loro robuste mura, e non c’è stato modo di stanarli.»

Fece una breve pausa, poi iniziò il resoconto della lunga campagna militare, senza omettere niente. Raccontò della disfatta di Fidene, così come riferitagli da suo nipote, del lungo assedio a Veio senza la conquista finale e del lavoro di sistematica distruzione dei territori circostanti. Quando concluse, tornò a sedersi sul trono d’avorio in attesa delle critiche che, ne era certo, sarebbero piombate su di lui come falchi in picchiata.

Il primo rapace ad attaccare fu Nervo Emilio Rufo, che scattò in piedi per prendere la parola.

«Il solito eloquio senza sostanza» affermò subito. «Conosciamo tutti la tua abilità nel manipolare le frasi, ma da un po’ di tempo sei capace di fare solo questo. Continuare a nascondere la verità ammantandola di parole vuote stavolta non ti servirà!»

A Lucio venne voglia di interromperlo, ma Rufo era più impetuoso di un fiume in piena. Non gli rimaneva che lasciar sgonfiare la sua rabbia e aspettare il momento buono per replicare.

«Hai diviso il nostro esercito, hai scelto per te l’avversario meno pericoloso e non sei riuscito ad averne ragione. In compenso» proseguì il senatore additando Egerio «hai affidato a un incapace il compito di riprendere Fidene ai sabini, che i nostri soldati hanno sconfitto tante di quelle volte che nemmeno riesco a ricordare. Com’era logico attendersi, ha fallito. Non basta avere nelle vene lo stesso sangue del re per poter condurre gli uomini in battaglia! Forza, re Tarquinio, rispondi a queste accuse. La tua dialettica stavolta non ti servirà.»

Lucio fece per alzarsi, ma Egerio lo precedette sollevando una mano per chiedergli di parlare. Nello sguardo del nipote lesse una forte determinazione, così annuì e tornò a sedersi sulla sedia curule, stringendone i braccioli per placare la collera.

«Ho fallito, è vero» esordì il figlio di Arunte. Seppur grave, la sua voce non ebbe tremori. «Ho commesso un imperdonabile errore di valutazione, e mi accollo tutta la colpa della sconfitta. Il nostro re mi ha accordato fiducia, ma io l’ho tradita. Non ho nient’altro da dire.»

Egerio tornò al suo posto, a testa alta. Quella pubblica assunzione di responsabilità aveva liberato Lucio da un peso, e allo stesso tempo aveva stemperato le accuse di Rufo.

Il vero attacco iniziò allora.

Tito Marzio, l’altro fiero oppositore, richiamò su di sé l’attenzione dell’assemblea.

«Quello che dice Rufo corrisponde al vero. Come troppi potenti, re Tarquinio ha perso il contatto con ciò che succede a Roma.» Lo fissò dritto negli occhi. «Quanto tempo è che non fai un giro sui nostri colli? Da quanto non ti fermi a parlare con il popolo? Non dall’alto del tuo palco, intendo di persona, faccia a faccia. Come facevi quando ancora ti chiamavi Luchmon e tentavi, con ogni mezzo, di guadagnarti il favore di mio padre e dei romani.»

Lucio incassò in silenzio l’accusa, incapace di replicare.

«Hai passato un’intera stagione a combattere i popoli vicini, ma con quale obiettivo? Se volevi annientarli non ci sei riuscito, e il bottino di guerra non è corposo come in passato. Ma, cosa più grave, hai lasciato Roma in balia del nemico. Durante l’estate siamo stati attaccati per ben due volte, ed è solo grazie al coraggio di pochi che la nostra città non è stata conquistata. La dea Fortuna ci ha assistito, perché sotto le nostre mura si sono presentati soltanto gruppi di sbandati, marmaglia disorganizzata nemmeno in grado di portare un assalto degno di tale nome. Ma io ti chiedo: nutri ancora interesse per Roma o pensi solo a glorificare la tua persona, la tua famiglia, il tuo nome?»

Il Senato esplose. I membri ostili al re si misero a gridare tutti insieme, insultando Lucio e chi gli era rimasto fedele, che rispondeva con altrettante urla. Alcuni vennero alle mani e ci volle l’intervento dei soldati per riportare la calma.

Lucio si alzò in un silenzio teso. Allargò le braccia per ricordare che lui era il re.

«Mi rivolgo a tutti, ma in particolare a coloro che sono sempre pronti a criticarmi» disse. «Sono anni che ascolto le vostre lamentele, ma mai è giunta alle mie orecchie una valida proposta per migliorare la vita a Roma. Sono anni che vi arricchite grazie alle guerre che io porto avanti, e la prima volta che non riesco a ottenere una completa vittoria mi attaccate come se fossi l’ultimo degli idioti. Sono anni che sedete su quegli scranni senza fare alcuna proposta utile alla città. Ora vi chiedo: cosa avete fatto voi per Roma? Il senatore Tito Marzio ha ragione» proseguì, rivolgendosi a quello che era stato il suo figlioccio. «Le difese di Roma vanno senz’altro migliorate. Ma in questo luogo non ho mai udito una proposta per farlo. Nessuno ci ha mai pensato, nemmeno tuo padre, e nessuno me lo ha mai chiesto. Ancora una volta dovrò pensarci io.»

Nessuna risposta. Nessuna replica.

La stilettata al cuore dei senatori nemici era andata a segno e forse li avrebbe tenuti a bada per un po’.