Roma, 581 a.C.
Otto anni dopo
Azio Nevio aveva insistito affinché il re in persona fosse presente all’apertura del collettore principale della grandiosa opera di bonifica battezzata Cloaca maxima, progettata dall’augure grazie ai consigli dei sapienti etruschi.
All’inizio Lucio tentò di rifiutare: negli ultimi tempi i dolori alle articolazioni si facevano sentire con maggior frequenza e intensità, e dover muovere le sue stanche membra per la rimozione di quattro tavole di legno gli pareva uno spreco di forze che avrebbe evitato volentieri, tanto più che quel genere di evento non attirava mai grandi folle. Tuttavia l’insistenza di Nevio fu tale che Lucio, seppure di malavoglia, acconsentì ad assistere all’inaugurazione.
Per fortuna la primavera avanzava veloce e il pomeriggio era caldo e assolato. La cerimonia fu breve e composta: un sacrificio e qualche ringraziamento agli dei, infine la rimozione della paratia di legno. Un attimo dopo, l’acqua stagnante accumulata nel reticolo di fosse e canaletti prese a scorrere verso il Tevere.
Mentre rientrava a palazzo reale a bordo di una biga, Lucio ripensò al giorno in cui aveva iniziato a pensare all’opera, cinque anni prima. Dopo un’intera estate passata a combattere estenuanti e sanguinose battaglie contro i popoli sabini, Roma aveva dovuto affrontare un autunno altrettanto tragico, lottando con le piogge incessanti. Uno di quei giorni era uscito da palazzo per controllare i danni a strade ed edifici, trascinandosi dietro Azio Nevio su e giù per i colli e poi fino al luogo in cui tutte le acque confluivano: la bassura del foro Boario. Avevano trovato l’intera conca trasformata in un lago, con le acque immobili piene di detriti di ogni tipo. Soltanto alcuni pali di legno emergevano come dita scheletriche dalla superficie scura.
Due piccole imbarcazioni salpate dal colle opposto stavano navigando. I barcaioli avanzavano lentamente usando lunghe pertiche.
In groppa a un gigantesco stallone, l’augure gli era parso ancora più mingherlino. Tuttavia Lucio sapeva che quel fisico gracile nascondeva doti non comuni, conoscenze arcane che gli permettevano di spiccare in mezzo alla massa. Il popolo gli attribuiva capacità magiche, ma Nevio gli aveva confidato che le sue abilità derivavano soprattutto dall’attenta osservazione del mondo e degli esseri che lo popolavano. Per questo Lucio l’aveva voluto con sé in quel sopralluogo.
Cercando di ripararsi il meglio possibile dalle sferzate della pioggia, Lucio si era calcato sulla testa il cappuccio. Aveva le cosce scoperte e si era sforzato di ignorare il gelo che le aggrediva. Sotto di lui il cavallo, le froge dilatate dalle quali fuoriuscivano sbuffi di condensa, colpiva il terreno con lo zoccolo, segno di evidente sofferenza. Lucio era stato costretto a stringere le gambe per obbligare la bestia a calmarsi.
«È l’autunno più piovoso a memoria d’uomo» aveva affermato Nevio, come se volesse giustificare gli dei che avevano provocato quel disastro.
«Piovoso o non piovoso, dobbiamo porvi rimedio. Dai tempi di Anco combattiamo il fango e la pioggia, e nonostante i nostri sforzi alla fine siamo sempre stati sconfitti.»
«Non si possono bloccare le nuvole» gli aveva fatto notare Nevio. «Né impedire che le acque dei colli si riversino in questa conca.»
«Vero. Ma possiamo fare in modo che defluiscano verso il Tevere senza che vi sia ristagno. In Etruria simili lavori sono tutt’altro che rari: la chiamano “bonifica”.»
Nevio l’aveva scrutato con aria interrogativa.
Lucio aveva provato un certo piacere nel coglierlo impreparato. «Dal tuo sguardo deduco che non ne sai nulla, eh?»
L’augure aveva chinato il capo. «Non è una dottrina che conosco.»
«Non ti preoccupare, farò venire qualcuno da Tarquinia. Ora aspettami qui.»
«Cosa vuoi fare?»
«Solo aiutare la mia gente.»
Detto ciò aveva spronato il cavallo al trotto verso il lago, costeggiandolo finché non era giunto all’altezza di uno dei barcaioli. Dopo aver sussurrato alcune parole all’orecchio del cavallo per vincere la sua ritrosia, si era a poco a poco inoltrato nell’acqua fangosa. Non vi era il rischio di annegare: una volta raggiunta la barca, le piccole onde mosse dal vento superavano appena il ginocchio del cavallo.
Lucio si era fatto gettare una corda dall’uomo, l’aveva legata al collo della bestia e in poco tempo avevano guadagnato la riva. Dopo aver accettato un rapido ringraziamento aveva spronato il cavallo verso casa, ansioso di immergersi in un bagno caldo.
Una scena che, per fortuna, non si sarebbe mai più ripetuta.
L’efficacia delle nuove opere fu evidente a tutti: il rapido prosciugamento della palude consentì di allestire il circo per i giochi che si sarebbero svolti durante l’estate.
All’inaugurazione Lucio si presentò volentieri, deciso a riscuotere i meriti del lavoro svolto e soprattutto a prendersi una piacevole rivincita sui più critici tra i senatori. Una folla vastissima si stendeva di fronte a lui, e Lucio non perse l’occasione di mostrarsi al meglio: preceduto da dodici fasci littori, vestito di porpora e con una magnifica corona dorata in testa, impugnava lo scettro eburneo recuperato chissà dove da Hanipal, che recava intagliate le effigi di alcuni strani animali. L’ultimo dono del pirata. Lo sollevò per richiamare il silenzio.
Quando il brusio cessò, arringò il pubblico: «Popolo di Roma! Qualche tempo fa vi ho fatto una promessa. Vi ho garantito che questi giochi, i vostri giochi, si sarebbero svolti. E ora sono qui, di fronte a voi, per inaugurare questa manifestazione». Sorrise a Nervo Emilio Rufo, scuro in volto e mimetizzato in seconda fila.
«Qualcuno mi ha attaccato. Non tanti. Solo gli invidiosi, coloro che sfruttano le punizioni divine per accusare il vostro sovrano di malcostume e spreco. Ho risposto loro con i fatti. Questa zona adesso è asciutta, e si manterrà così per tutto il prossimo inverno.»
Il cielo era limpido. Gli atleti erano ansiosi di gareggiare almeno quanto la gente lo era di assistere.
Lucio si tolse di mezzo, lasciando il popolo al suo divertimento.
Azio Nevio osservava Roma dall’alto della rupe Tarpea. L’aria era ancora calda e la luna gettava sulla città una luminosità sorprendente. Irreale. Era una notte prodigiosa, pensò l’augure.
Aveva trascorso l’intera giornata sul colle, visitando gli altari e interrogando i numi al fine di individuare il luogo idoneo a costruire il nuovo tempio che Lucio Tarquinio voleva innalzare in onore di Giove Ottimo Massimo, per ringraziarlo dei favori ricevuti durante le faticose guerre sabine. Un’opera maestosa, destinata nelle intenzioni del sovrano a ricordarlo nei secoli a venire, anche per aver reso grande la città, non soltanto per averne difeso e ampliato i confini con le innumerevoli vittorie in guerra.
Il lavoro di Azio era stato lungo e stancante, appena alleviato dalle prime brezze autunnali. Le are, che si erano accumulate nel corso dei secoli, erano moltissime, la maggior parte dedicate ai numi romani, mentre di alcune si era persa ogni memoria. Raffiguravano spiriti misteriosi con i quali era difficile comunicare. Per di più, gli spiriti divini non sempre erano disposti a palesarsi, mentre altre volte rispondevano in modo ambiguo e misterioso. Azio era spossato da quel lavoro: entrare in contatto con ciò che non si vede, con il mondo al di là dei corpi, implicava una concentrazione che solo anni di esercizio potevano fornire. Alla fine, comunque, era riuscito a individuare la zona più adatta. E mentre riposava, indugiando ancora un po’ in quel luogo mistico, comprese una verità dolorosa e lampante: non poteva più rimanere a Roma.
La grande città che dormiva ai suoi piedi sembrava tributargli un solenne addio. L’aveva vista crescere, farsi bella come una donna nel fiore degli anni, e adesso gli pareva… completa. Aveva conosciuto i suoi fasti e gli angoli più oscuri, amato gli amici e guardato con sospetto i gelosi, i meschini, coloro che tramavano nell’ombra. Roma gli aveva dato tanto, ma aveva preteso ancora di più, per questo dovevano separarsi. Non gli rimanevano molti anni di vita; doveva pensare a se stesso, soddisfare le ultime curiosità, viaggiare e scoprire nuovi posti per poi ritirarsi a meditare in pace da qualche parte, così che, quando l’Ade lo avrebbe reclamato, sarebbe stato pronto ad abbandonare per sempre l’involucro di carne nel quale aveva vissuto.
Osservò ancora per un po’ le case rese diafane da quella luna superba. Gli occhi indugiarono scendendo lungo i quartieri limitrofi al porto e approdarono al Tevere, un lungo rettile nero con la pancia gonfia e riflessi pallidi sulle squame.
La sua mente accarezzava i quartieri della città su cui i suoi occhi si soffermavano. Ogni zona custodiva un ricordo, ogni strada un pezzo di vita. Azio s’incamminò per scendere dal colle, con la notte chiara che rendeva superfluo l’aiuto di una torcia.
L’indomani avrebbe parlato con Lucio e Servio, il suo pupillo, per comunicare loro la sua decisione.
«Azio lascerà Roma.»
Tanaquil, udite quelle parole, si voltò verso Lucio con un sobbalzo, lo sguardo perplesso. Era intenta a spazzolarsi i capelli, bianchi ma ancora lunghi e forti. Con un cenno rapido della mano congedò un’ancella.
«Hai sentito bene» annuì Lucio. «Me lo ha confidato ieri, chiedendomi di mantenere segreta la notizia.»
Tanaquil si prese qualche istante per riflettere, infine scosse la testa, incapace di trovare una spiegazione a quella notizia. Azio Nevio era ormai parte integrante della famiglia, uno degli uomini più fidati del re, che lei apprezzava particolarmente sia per affinità spirituali sia per la sua indole pacifica, che contrastava le pulsioni guerresche di Lucio e della sua cricca di soldati. E, non ultimo, aveva istruito Servio e Gneo, contribuendo non poco al loro processo di crescita.
«Lo ha deciso mentre interrogava i sacri numi sulla rupe Tarpea» spiegò Lucio. «Ma credo sia una decisione sulla quale meditava da un po’.»
«Ti ha spiegato il motivo?»
«Non so che dirti» fece Lucio allargando le braccia sconsolato. Lui, di certo, avrebbe perso soprattutto un valido consigliere. «Mi ha dato una serie di motivazioni bizzarre. Parlava dell’esigenza di esplorare i territori a nord, ma anche del bisogno di raccoglimento e di predisporre il suo spirito al trapasso.»
«Di certo saranno questioni importanti per lui» rispose Tanaquil guardando il marito di traverso. Quelle parole possedevano per lei un senso che Lucio non coglieva. «Tu che gli hai detto? Hai provato a convincerlo a restare?»
«Certo» disse Lucio. «Credo che mi abbia ascoltato per gentilezza, ma non ha cambiato idea. Io continuo a non capire.»
«Alle volte dobbiamo accettare ciò che non riusciamo a comprendere, e rispettarlo» affermò Tanaquil. «Magari Azio avrà avuto un segnale dagli dei, oppure è una decisione soltanto sua. In ogni caso noi non possiamo fare altro che accettarla. Per i nostri figli sarà una grave perdita, ma ormai sono grandi e forse il compito di Azio si è concluso.»
«Quindi… che faremo?»
«Lo saluteremo» concluse Tanaquil. «E gli diremo grazie.»
«A Gneo servirebbe ancora il suo aiuto.»
Tanaquil comprendeva il rammarico del marito. Al contrario di Servio, il loro figlio minore era incline all’ozio e ai divertimenti, piuttosto che al sacrificio, e mostrava un carattere lascivo, debole, che non faceva preludere a nulla di buono. Si avvicinò a Lucio e gli cinse le spalle con un braccio. «La gloria non è il suo destino. Servio invece ha tutte le caratteristiche che deve possedere chi è destinato al comando.»
«Sì, ha il coraggio per affrontare il Senato» annuì Lucio. «E la tempra per condurre gli uomini in battaglia.»
«Mi ricorda qualcuno» disse Tanaquil sorridendo e stringendosi ancora di più al marito.
Lucio ricambiò l’abbraccio. «Il trono è nel destino di Servio.»
«Allora è il momento che prenda moglie.»
Lucio si soffermò a valutare le implicazioni di quella dichiarazione.
«So cosa pensi» disse Tanaquil. «Di certo il Senato vedrebbe di buon occhio un matrimonio con una famiglia potente. Magari di origine romana. Il problema sta nel fatto che Servio non mi pare interessato a questi aspetti, per ora.»
«Servio non è interessato a nessun aspetto della politica. Tuttavia ha una naturale predisposizione per la diplomazia, cosa che di certo non ha imparato da me» concluse Lucio.
«No, quella forse è farina del mio sacco» concordò Tanaquil colpendolo al petto con una lieve e affettuosa manata.
«Ho notato che Tarquinia è molto interessata a lui» suggerì Lucio all’improvviso, prendendole la mano. «Sarebbe una decisione perfetta.»
«Non per lui» si oppose Tanaquil. «Anch’io ho notato il fascino che Servio esercita su nostra figlia, ma so che non è ricambiato. Le donne certe cose le comprendono subito.»
«Questo non mi interessa» disse Lucio. «Da quando i matrimoni si fanno per amore?»
Tanaquil gli lasciò la mano e lo fronteggiò, furiosa. «Almeno da quando ti ho sposato! E qui stiamo parlando di tua figlia!»
«Certo» annuì Lucio guardandola negli occhi. «Una figlia che sarà regina, come sua madre. E Servio avrà la legittimazione di un legame eterno con i Tarquini.»
«Sempre la maledetta politica» si sfogò Tanaquil. Conosceva bene le conseguenze di un matrimonio contratto senza il minimo sentimento, ne aveva visti gli esiti ogni giorno, negli occhi spenti di sua madre. «Il bene di Roma, il futuro del regno, il piacere del Senato. Ma quello che conta sul serio? La felicità di tua figlia? Questo non lo consideri?»
«Tarquinia avrà una vita facile, a palazzo. Fra attenzioni e rispetto, cosa c’è di meglio per essere felici? È proprio al suo benessere che sto pensando.» Lucio si era intestardito e le parlava con l’enfasi quasi infantile tipica di quando si trovava a corto di argomenti.
«La chiami “felicità”? Vivere con una persona che non ricambia il tuo amore? Non si tratta piuttosto di sofferenza?»
«Le cose vanno in questo modo da quando l’uomo ha inventato la politica, i regni, il potere. E non ho mai visto una regina soffrire più di una donna di strada.» Lucio la guardava negli occhi, esasperato.
Tanaquil era consapevole che le rispettive idee non sarebbero mutate. Tuttavia in cuor suo iniziava a farsi strada l’amara convinzione che, almeno questa volta, avrebbe dovuto cedere alla ragion di Stato.
«Azio Nevio è stato ucciso per volere del re!»
Era stato Tito a parlare, concludendo con quell’accusa un discorso che durava da un po’. Insieme al fratello Agrippa aveva fatto irruzione nel Senato affermando di avere cose importanti da dire. I due sostenevano che la scomparsa dell’augure era da imputarsi a Lucio Tarquinio, deluso dall’incapacità, da parte di Azio, di portare a compimento un non meglio specificato incarico.
Lucio aveva ascoltato senza battere ciglio quella stupida menzogna. Le argomentazioni di Tito e Agrippa erano così illogiche che gli pareva impossibile potessero riscontrare anche il minimo successo, eppure diversi applausi si levarono dall’ala degli oppositori. Si guardò intorno perplesso; la situazione gli sembrava paradossale. I suoi rivali erano da sempre pronti a cogliere ogni occasione per attaccarlo, e questa non era una novità, ma stavolta rimase allibito dalla totale pretestuosità dell’accusa. O forse lui era soltanto più vecchio, con meno energie per opporsi.
«La sparizione dell’augure è molto sospetta» s’intromise Publio Vergine, il viso rubicondo e una mano appoggiata sul ventre gonfio. «Per quale motivo avrebbe dovuto lasciare Roma? Era stimato da tutti, le sue arti rispettate e apprezzate dai nostri cittadini.»
Publio non gli aveva mai perdonato l’uccisione di Pinaria e Lucio, ancora tormentato per aver condannato a morte la vestale, non replicò, limitandosi a serrare i pugni per trattenersi.
La stilettata finale arrivò dal dinoccolato Nervo Emilio Rufo, sempre più viscido, che si alzò per chiedere la parola con un gesto teatrale della mano ingioiellata.
«Pare ormai piuttosto chiaro che esistano elementi per credere che Azio Nevio non sia scomparso per sua scelta, ma per volere di qualcuno» dichiarò, lasciando poi che le parole avessero il loro effetto. «Non vedo chi possa volere la sparizione dell’augure se non il re» aggiunse con voce melliflua. Quindi con un ampio e molle gesto del braccio indicò direttamente Lucio. «Che evidentemente è stato deluso in qualche modo dal povero Nevio. D’altro canto, il nostro sovrano non è nuovo a metodi… diciamo spiccioli, per liberarsi degli oppositori.»
Quelle ultime parole ebbero l’effetto di una deflagrazione. L’aula era ormai una bolgia ingestibile. Lucio trattenne la rabbia. Per un uomo come lui, subire una simile onta e non reagire d’impulso implicava uno sforzo disumano.
Fu Servio a risolvere la situazione.
Il giovane si alzò chiedendo il silenzio a braccia levate. Ci volle qualche istante, ma poi tutti tacquero e si misero ad ascoltare.
«Senatori, dovreste vergognarvi.» Le sue parole lacerarono l’aria carica di tensione come una lama affilata. «Invece di rispettare colui che ci ha portato alla gloria, che ha reso questa città una potenza temuta e onorata da tutti, credete ai vaneggiamenti di due astiosi oppositori. Il rapporto tra Lucio e Azio è stato sempre di grande amicizia, ne abbiamo avute innumerevoli testimonianze. Se Azio se n’è andato la colpa è di tutti noi: per anni lo abbiamo tartassato con le nostre richieste, anche con quelle più insulse. Azio era stanco, e ha scelto di andarsene per riposarsi. La decisione è stata soltanto sua, e il re non ha potuto fare altro che accordargli il meritato riposo. Se non ci credete andate a cercarlo e chiedetelo direttamente a lui. Ma a quel punto subirete la collera di tutto il popolo di Roma, e la vergogna per le vostre stupide menzogne.»
L’ala amica del Senato urlò in segno di approvazione, coinvolgendo anche gli indecisi e qualche elemento del gruppo dei rivali di Lucio.
«A noi non resta che ringraziare Lucio Tarquinio e rendergli onore per avere contribuito a fare grande Roma!» Servio pronunciò quella frase con vigore, mettendo a tacere anche le ultime flebili proteste.
Tito e Agrippa abbandonarono l’aula schiumando di rabbia.
Fulco vide i fratelli lasciare il Senato.
Aveva assistito alla seduta in disparte, nascosto all’ombra di una delle grandi colonne che circondavano gli spalti e li racchiudevano in un abbraccio solenne. Dopo qualche istante sgattaiolò fuori e raggiunse la residenza di Tito e Agrippa, che lo attendevano al riparo di un grande cerro alle spalle della casa. Sedette con loro e insieme iniziarono a discutere di quanto accaduto.
«Servio andrebbe eliminato» propose Fulco. Odiava quell’individuo fin da quando era bambino: nato servo, benvoluto dal sovrano e coccolato dall’intera famiglia reale, allevato con gli stessi privilegi dei suoi figli. A lui invece era toccata la sorte opposta. «Ormai si è apertamente schierato contro di voi. E abbiamo la certezza che è il prescelto di Lucio e Tanaquil per la successione.»
«In linea del tutto teorica avresti ragione» lo corresse Tito, lo sguardo concentrato su un punto lontano. Si toccò il mento, sintomo che era assorto nei propri pensieri. I suoi occhi brillavano d’odio. «Ma non so se questa via è percorribile.»
«Sarebbe la soluzione ai nostri problemi» sentenziò Agrippa, con cui da sempre condivideva il modo di pensare e le idee che ne scaturivano. «Con un colpo solo faremmo fuori un rivale e il principale candidato al trono.»
Fulco fu lieto di confermare. «Esatto» disse.
Tito, però, non sembrava dello stesso avviso. «Non è affatto una buona soluzione, quella che proponete» ribatté. «Lucio troverebbe subito un altro erede, non lascerebbe di certo spazio a noi. No, la prima cosa da fare è eliminare il re.»
«Come se fosse facile. Sono anni che ci proviamo!» sbottò Fulco dando sfogo a tutta la propria insoddisfazione. I tentativi di eliminare Lucio Tarquinio erano stati numerosi, attuati in modi sempre diversi, ma la dea Fortuna aveva sempre protetto il sovrano, che ogni volta era stato in grado di scampare a situazioni all’apparenza disperate. E se poteva aver avuto gioco facile a rispondere agli attacchi politici, molto più difficile doveva essere stato sfuggire alle lame dei sicari, alle trappole dei nemici e persino a un tentativo di avvelenamento.
Lo sapeva bene lui, che da troppo tempo fantasticava sulla morte del re, un’uccisione che finalmente avrebbe portato pace allo spettro di Pinaria che ogni tanto arrivava a tormentarlo in sogno. Era stato Lucio a pronunciare la sentenza che gli aveva strappato di mano la sua amata, e anche se si era abbeverato del sangue di Helena, la vestale che l’aveva tradita, di certo questo non era sufficiente a placare la sua rabbia e il suo dolore.
«Forse ha ragione lui» ammise alla fine Agrippa, abituato ad adeguarsi alle decisioni del fratello maggiore. «Dobbiamo considerare la questione da questo punto di vista.»
«Inoltre,» proseguì Tito «se dobbiamo rischiare il nostro futuro voglio farlo per il massimo obiettivo. Non ha senso puntare a Servio.»
La conclusione troncò il dibattito, anche se nessuno dei tre era rassegnato a lasciar fare al destino. Il rancore e l’astio che nutrivano crescevano a ogni piè sospinto.
Avrebbero solo dovuto portare pazienza…