CAPITOLO SESTO

ARRIGO VII

Nemmeno la morte di Bonifacio placò l’odio di Filippo per lui. Ancora per sette anni quel Re rancoroso e vendicativo reclamò l’indizione di un processo contro il Papa defunto, e alla fine la spuntò. Un concistoro riunito a Groseau nel 1310 aprì l’istruttoria, e sei prelati suffragarono con le loro testimonianze le accuse più gravi. Bonifacio, riferirono, negava la resurrezione sia del corpo che dell’anima. Secondo lui i dogmi non erano che invenzioni per tenere in rispetto il popolino ricattandolo con la minaccia dell’inferno. Aveva definito assurda l’idea che Dio fosse insieme divino e umano, uno e trino. Trovava ridicolo che la Madonna avesse partorito in stato di verginità e che una sfoglietta di farina, solo perché consacrata, potesse tramutarsi nel corpo di Cristo. «Solo gl’imbecilli possono credere a queste stupidaggini» aveva dichiarato. «Le persone intelligenti devono fingere di crederci, e poi ragionare col proprio cervello».

Queste accuse somigliavano troppo al personaggio per essere del tutto infondate. Ma anche i più accaniti avversari di Bonifacio capivano che la loro divulgazione sarebbe stata un colpo mortale non soltanto a lui e al suo nome, ma a tutta la Chiesa e all’ordine costituito. Alla fine anche Filippo se ne persuase e accettò che il processo fosse demandato al Concilio ecumenico dell’anno dopo. Qui i Cardinali deposero all’unanimità in favore del morto, della sua ortodossia e della sua moralità. Secondo le regole dell’onore, due Cavalieri lanciarono sul banco dei testimoni i loro guanti contro chi avesse osato affermare il contrario. Nessuno raccolse la sfida. La prova fu considerata conclusiva, e il dibattimento si chiuse con un «non luogo a procedere».

Anche così liquidato, il processo tuttavia era stato, per la Chiesa, un disastro. Essa non vi si sarebbe mai prestata, se nel 1305 non fosse sopravvenuto un avvenimento di eccezionale importanza e di conseguenze destinate a farsi risentire nei secoli: il trasferimento del Papato ad Avignone. Vediamo un po’ come ci si era arrivati.

Noi non sappiamo se tutti i delitti, morali e ideologici, attribuiti a Bonifacio fossero veri. Ma un misfatto lo aveva commesso certamente, anche se involontariamente: aveva reso necessario, o almeno possibile, questo fatale trasloco. Il suo autoritarismo e nepotismo avevano rianimato gli odi e le rivalità fra le fazioni dell’aristocrazia romana. C’erano troppi conti da saldare, troppe vendette da trarre. L’aria dell’Urbe era diventata irrespirabile come ai tempi di Marozia.

Il successore di Bonifacio, Benedetto XI, aveva fatto del suo meglio per calmare le acque. Era Niccolò Boccasini, un domenicano di Treviso. Veniva da una modesta famiglia di borghesia notarile, da giovane aveva fatto il precettore a Venezia, poi aveva preso gli ordini e si era guadagnato fama di gran teologo. Ma aveva anche buone qualità diplomatiche e le sfoggiò nelle sue missioni di Legato in Ungheria, Slesia e Polonia. Al Conclave del 1303 manovrò con accortezza. Quando vide che l’ispirazione dello Spirito Santo non bastava a procurargli il successo, la «integrò» con cinquantamila fiorini. Ma non bisogna scandalizzarsene: era la prassi normale.

Benedetto agì con molto buon senso. Per ristabilire il prestigio della Chiesa, inflisse castighi ai responsabili dei disordini di Anagni. Ma nello stesso tempo cercò un accomodamento con Filippo per dissuaderlo dal processo contro Bonifacio. Non riuscendovi, cercò almeno di guadagnar tempo e di sottrarsi per intanto alla soffocante tutela francese che incombeva su Roma e l’Italia sia da Parigi che da Napoli. La sua più pericolosa «quinta colonna» era la fazione Nera di Firenze, rimasta ormai padrona della città. Benedetto vi mandò un suo Legato di fiducia per imporre una riconciliazione coi fuorusciti Bianchi che consentisse a costoro di rientrare in patria e di ristabilirvi un certo equilibrio politico. Ma i Neri prevennero il colpo scatenando tumulti e appiccando incendi di cui diedero la colpa agli avversari.

Benedetto, sdegnato, scomunicò la città e ingiunse ai caporioni di presentarsi a Perugia per discolparsi. L’interrogatorio cominciò il 6 luglio (1304). Il 7, il Papa era morto, non si è mai saputo di che. Corse voce che un giovane travestito da suora gli aveva portato un cesto di fichi avvelenati. Forse l’episodio non è vero. Ma il carattere dei personaggi lo rende verosimile.

Di nuovo il Soglio diventò la posta di un giuoco di fazioni che se lo contesero con la violenza, gl’imbrogli e gl’intrighi. Stando al Villani, l’elezione del 1305 fu decisa da un complotto fra l’Orsini e Niccolò da Prato, che elusero la regola dell’isolamento cui i Cardinali son tenuti durante il Conclave incontrandosi di notte in un gabinetto di decenza. Tanto che, dopo la proclamazione del vincitore, coloro che gli avevano negato il voto urlarono: «Roba da latrina!»

Il vincitore era Bertrand de Got, Arcivescovo di Bordeaux, che assunse il nome di Clemente V. La storia ha trattato con poca misericordia questo Pontefice attribuendo a lui la catastrofica decisione di trasferire il Papato ad Avignone e di renderlo per oltre sessant’anni prigioniero del Re di Francia. Ma il fatto è che, quando indossò la tiara, Clemente era già egli stesso prigioniero di Filippo e dei Cardinali francesi che ormai formavano la maggioranza del Conclave. Furono loro a vietargli di andare a Roma.

Clemente dovette cedere. Era un uomo frugale, pio e malinconico, roso dall’insonnia e dalla nevrastenia, e insidiato da un lupulus che probabilmente era una fistola, e che di lì a pochi anni lo avrebbe ucciso. Pur in mezzo a questi triboli, cercò di fare gl’interessi della Chiesa, e la scelta di Avignone fu probabilmente un compromesso. La città non apparteneva alla corona di Francia, ma agli Angiò di Napoli. Clemente sperò di godervi più sicurezza che a Roma e più libertà che a Parigi. Dalle invadenze di Filippo si difese come poté, ora compiacendogli, ora resistendogli, ma mai arrendendosi a discrezione. Il processo contro Bonifacio lo subì con riluttanza, poi lo fece aggiornare, e infine riuscì a insabbiarlo.

Fu uno dei suoi meriti, ma non il solo.

Tre anni prima infatti aveva fornito un’altra prova d’indipendenza, che aveva avuto una grossa ripercussione politica specialmente in Italia. La corona di Sacro Romano Imperatore era rimasta senza titolare. A questa carica, lo abbiamo già detto, non corrispondeva più nessun potere effettivo. Però essa faceva sempre gola, specie a quei Reucci e Principi che, non avendo né grandi Stati né grandi eserciti, ambivano ad arricchire almeno il blasone. Filippo, che un grande Stato e un grande esercito (per quei tempi) li aveva, di quella corona naturalmente s’infischiava. Ma aveva ancora da sistemare quel disoccupato fratello Carlo, che aveva terminato la sua avventura italiana come Generale dei cugini Angiò. Alla testa delle loro truppe, aveva cercato di riconquistare la Sicilia, ma gli Aragonesi lo avevano battuto, ed egli era tornato in Francia più «senzaterra» di prima. Filippo pensava che la corona imperiale gli avrebbe dato, se non altro, un rango, e soprattutto avrebbe liberato la Corte di Parigi dalla sua ingombrante e querula presenza.

Ma la parola decisiva spettava al Papa perché era il Papa che coronava gl’Imperatori. E Clemente, per quanto francese, non volle un francese. Preferì un candidato neutro come Arrigo di Lussemburgo che, anche se fosse sceso in Italia, non aveva abbastanza forze per imporle un giogo. Ne aveva solo per creare un contrappeso agli Angioini di Napoli che sempre più intrigavano a Roma.

Purtroppo, Arrigo era un principe romantico e un po’ sprovveduto, cui quell’inatteso titolo diede il capogiro. Decise di andare a cingere la corona a Roma, come avevano fatto Carlomagno e il Barbarossa, e il Papa gli promise di raggiungervelo per consacrarlo solennemente. Bastò l’annunzio della sua discesa in Italia nel 1310 perché la penisola immediatamente si dividesse, come sempre aveva fatto e avrebbe seguitato a fare nei secoli all’arrivo di qualsiasi straniero. Per lui furono quasi tutte le nuove Signorie del Settentrione: i Visconti, i Della Scala, i Gonzaga, gli Este, i Malatesta, i Polenta eccetera. Contro, furono naturalmente gli Angiò di Napoli e i Neri di Firenze, tuttora padroni della città.

Per l’occasione fu ritirata fuori la vecchia nomenclatura ideologica del guelfismo e del ghibellinismo. Ma proprio allora si vide quanto sfasate e fuori corso fossero queste parole. Arrigo, è vero, incarnava il potere laico dell’Impero. Ma la Chiesa, stavolta, era dalla sua parte contro un altro potere laico: quello dei Re francesi di Parigi e di Napoli. I regimi comunali, che avevano conquistato le loro autonomie in nome del Papa, non potevano più sventolarne la bandiera. E se questo non provocò il loro decadimento, dovuto ad altre cause, lo affrettò.

Arrigo si mise in marcia con la moglie Margherita di Brabante, i fratelli Valeramo e Baldovino, i cognati Amedeo di Savoia e Guido di Fiandra, e altri gentiluomini di gran nome, ma di poco seguito. Forse la scarsezza di forze non sarebbe risultata decisiva, se fosse stata compensata dall’abbondanza di mezzi. Ma gl’Italiani seppero subito che anche la cassa era miserella: stava tutta su un carretto, di cui qualunque banchiere fiorentino, anche il più modesto, avrebbe potuto da solo fornire l’eguale.

Nel Nord, le accoglienze furono festose, perfino entusiastiche. I Marchesi di Savoia e Monferrato andarono incontro ad Arrigo, Milano gli accese le luminarie; Dino Compagni, Cino da Pistoia, Francesco da Barberino, gl’inviarono infiammati messaggi di benvenuto, sui quali fece spicco per biblica solennità quello di Dante. La bella festa fu turbata solo da un piccolo, ma significativo incidente. Prima della corona d’Imperatore, la cosiddetta «prassi» voleva che Arrigo cingesse, lì a Milano, quella di Re d’Italia. Era un rozzo aggeggio di ferro, in seguito arricchito di pietre preziose da Teodolinda, e lo si diceva ricavato da un chiodo della Croce. Per cui lo si considerava sacro e lo si conservava nel Duomo di Monza. Ma quando andarono a cercarlo per porlo sulla testa di Arrigo, non lo trovarono. Era sparito, nessuno ne sapeva nulla, e solo anni dopo un robivecchi ebreo lo ritirò fuori: lo aveva avuto in pegno, disse, da Guido della Torre per un piccolo prestito. In questo conto gli italiani tenevano ormai il titolo di Re d’Italia.

Arrigo dovette contentarsi di un’altra corona, che un orafo senese gli confezionò lì per lì. Era molto più bella e finemente cesellata di quella persa. C’era più oro, c’erano più gioielli. Ma in meno c’erano alcuni secoli di storia.

La cerimonia non era ancora finita che già per il povero Arrigo cominciavano i guai. Dovette arbitrare il dissidio scoppiato lì a Milano fra i Visconti e i Della Torre, ed essendosi pronunciato in favore dei primi, ebbe contro di sé la metà della popolazione. Cremona, Lodi, Pavia e Brescia gli chiusero le porte in faccia, Bologna ne imitò l’esempio, e re Roberto di Napoli mobilitò. Ma il cervello e la cassaforte della resistenza era Firenze, contro cui Dante scagliò una rovente invettiva.

Arrigo era troppo candido per venire a capo di quell’imbroglio. Non aveva torto un capello a nessuno, non aveva imposto tasse né servitù, chiedeva solo un riconoscimento formale del suo titolo, e non capiva perché più di mezza Italia glielo contestasse. Non potendo attraversarla via terra perché Bologna e Firenze gli sbarravano gli Appennini, si trasferì a Genova col proposito di raggiungere Roma via mare. Non voleva mancare l’appuntamento col Papa in San Pietro, ma per strada seppe che Clemente aveva rinunziato al viaggio e delegato a un Cardinale il compito d’incoronare l’Imperatore, in seguito a un perentorio ordine di re Filippo. Tutto il Nord-Italia era in subbuglio. E i più forti sostenitori di Arrigo, con Cangrande della Scala alla testa, avevano dovuto abbandonarlo per correre a difendere i loro Stati dall’attacco di quelli vicini.

A Genova lo aspettava il colera che gli portò via la giovane e bella moglie Margherita. Ma nemmeno questo valse a sottrarlo al miraggio della corona che lo attendeva a Roma. La voleva a ogni costo, con infantile ostinazione, attribuendole chissà quali taumaturgici poteri. Nato e cresciuto in Lussemburgo, Arrigo era un parvenu fra i regnanti del suo tempo, un nobile di provincia, un «vitellone» del gotha, che credeva ai simboli, ai blasoni e alle «precedenze». Una nave lo condusse a Pisa, dove erano convenuti tutti i fuoriusciti Bianchi di Firenze, fra cui Dante e un certo messer Petracco, che teneva per mano un bimbetto di sette anni: il futuro Francesco Petrarca. Di lì Arrigo ripartì per Roma, dove il 29 giugno (1312) tre Cardinali finalmente lo coronarono in Laterano.

Ma all’emozione seguì subito la delusione. Invitato a riconoscersi vassallo dell’Impero, re Roberto di Napoli nemmeno rispose. Arrigo ricorse alla maniera forte: chiese aiuto a Genova e a Pisa che gli fornirono novanta galee per attaccare Napoli. Ma da Avignone giunse un veto del Papa, che in realtà era di Filippo. Arrigo licenziò la flotta, adunò l’esercito e lo condusse su Firenze. La città aveva già mobilitato diecimila fanti e cinquemila cavalieri: il doppio di quelli di cui l’Imperatore disponeva.

Sconfortato, Arrigo fece dietrofront per puntare nuovamente su Napoli. Forse ve lo aveva consigliato qualcuno. Forse voleva soltanto concludere in bellezza, cadendo sul campo di battaglia, la sua romantica e anacronistica avventura. Ma la sorte non gli concesse nemmeno questo. A Buonconvento in provincia di Siena, fu colto da una febbre violenta, e il 24 agosto morì. La voce pubblica accusò un frate, Bernardino da Montepulciano, di avergli messo il veleno dentro l’ostia consacrata. Forse non è vero, ma l’ipotesi era resa attendibile dal largo uso che si faceva di questi metodi.

Il cordoglio fu grande in tutta l’Italia antifrancese e antiangioina. Cino da Pistoia inviò il suo compianto a Guido da Polenta, Sennuccio del Bene a Moroello Malaspina; Dante pianse per conto suo sugli ultimi capitoli del De monarchia, il saggio che stava componendo per dimostrare la validità delle pretese di Arrigo. Pisa ghibellina, fino all’ultimo rimasta fedele all’Imperatore, ne rivendicò le spoglie e tributò loro solenni onoranze.

Così finì l’ultimo tentativo d’istaurazione di un potere laico sull’Italia, che ora poteva tornare ad abbandonarsi alla sua vera e unica vocazione: il fratricidio.