Come abbiamo già detto, nel 1302, in seguito all’arrivo di Carlo di Valois e con la benedizione di papa Bonifacio VIII, i Neri di Firenze capeggiati da Corso Donati avevano regolato i conti coi Bianchi capeggiati da Vieri Cerchi. Fra costoro, a prendere la via dell’esilio, ci fu un certo messer Petracco che, insieme a Dante Alighieri, infilò quella di Arezzo.
Petracco apparteneva alla buona borghesia fiorentina, ed era un notaio molto stimato. Doveva anche avere un certo patrimonio, ma lo perse tutto o quasi tutto. Al seguito si portò tuttavia il bene a cui forse più teneva: la bella moglie Eletta, molto più giovane di lui, che aveva sposato da poco.
Ad Arezzo, ebbe subito una parte importante nella «Università Bianca», l’organizzazione politica e militare dei fuorusciti che si preparavano alla controffensiva. E nella primavera del 1304 fu uno dei due delegati che i Bianchi mandarono a Firenze per trattare coi Neri le condizioni del loro rientro e di una generale pacificazione. Carlo di Valois aveva lasciato la Toscana, Bonifacio era morto, e il nuovo Papa, Benedetto XI, aveva rinunciato a estendere il dominio della Chiesa su Firenze. Voleva soltanto che si ponesse fine alla lotta di fazioni.
Petracco svolse bene la sua missione diplomatica, e dopo una solenne cerimonia in piazza Santa Maria Novella scambiò il bacio della pace coi delegati dei Neri in mezzo a un festoso scampanio. Ma purtroppo la pace si limitò al bacio. Profittando della morte di Benedetto, i Neri scatenarono dei disordini con saccheggi e incendi, ne diedero la colpa ai Bianchi, e ribadirono la loro condanna. Agli esuli non rimase che tentare il colpo di forza. Ma l’azione fu mal sincronizzata per l’indisciplina di uno dei loro capi, che volle agire da solo prima che il grosso dell’esercito fosse riunito, e venne schiacciato.
Dovett’essere un brutto colpo per Petracco, che nello stesso tempo vedeva fallire la sua azione diplomatica e svanire la sua speranza di un ritorno in patria. Ma ad attenuare la sua amarezza provvide Eletta regalandogli proprio quel giorno, 20 luglio 1304, un bel figlio maschio, che venne battezzato col nome di Francesco.
È possibile che Dante, amico del notaio e anche lui in quel momento ad Arezzo, abbia fatto le congratulazioni alla puerpera e visto il fantolino in culla.
Il piccolo non ebbe tempo di familiarizzarsi con la città in cui era nato. Doveva essere ancora in fasce, quando i suoi si trasferirono nel paese di origine di Petracco, Incisa Val d’Arno. Qui crebbe fino ai sette o otto anni, e qui probabilmente gli nacque un fratellino, Gherardo. La sua infanzia dovett’essere piuttosto selvatica in quel villaggio di poche centinaia di anime e di ristretti orizzonti. Ma a otto anni gli capitò la prima delle molte straordinarie avventure della sua vita: suo padre lo condusse a Pisa, dove andava per incontrare l’imperatore Arrigo VII, ultima speranza dei fuorusciti Bianchi. Costoro erano tutti lì ad aspettarlo. C’era anche Dante. E in una lettera al Boccaccio di sessant’anni dopo, Petrarca racconta di averlo appunto conosciuto allora.
Più che Dante però, di cui non poteva misurare la grandezza, fu Pisa a fargli impressione. La città non era più la «regina del mare» come una volta: Genova aveva distrutto la sua flotta nella battaglia della Meloria del 1284, e Firenze aveva rosicchiato e ridotto al lumicino il suo entroterra. Ma la vecchia gloriosa Repubblica aveva trovato i suoi compensi nell’arte e nella cultura. Proprio allora nascevano la stupenda cattedrale, il famoso campanile, lo splendido Camposanto che Giotto e Lorenzetti stavano per affrescare. E l’Università era già celebre, grazie soprattutto a Bartolo di Sassoferrato, luminare del diritto.
Il soggiorno a Pisa fu breve, come l’avventura di Arrigo. Alla sua morte gli esuli fiorentini si sbandarono. Dante tornò a Verona, dove già si era accasato, ospite di Cangrande della Scala. E Petracco con la famiglia s’imbarcò per Avignone, dove Clemente V, lo abbiamo già detto, aveva trasferito fin dal 1305 la sede del Papato.
Petracco ebbe certamente un impiego alla Corte pontificia. Ma non riuscì a trovare un alloggio in quella città troppo piccola per ospitare le migliaia di prelati, di dignitari e di diplomatici che vi erano accorsi da ogni parte. Così la famiglia venne dirottata nella vicina Carpentras, dove Francesco visse fino ai quindici anni, felice e piuttosto ignorante.
Questo beato intermezzo finì nel 1319 quando suo padre, che voleva avviarlo alla sua stessa professione, lo mandò a scuola di diritto, prima a Montpellier, poi a Bologna. E fu qui che Francesco scoprì la propria vocazione.
L’Università di Bologna era ormai la più accreditata d’Europa. C’erano diecimila studenti di tutte le parti del mondo, che davano a quella città di cinquantamila abitanti (o giù di lì: i censimenti a quei tempi non c’erano) un tono cosmopolita e spregiudicato. Erano divisi in «nazioni» secondo il Paese di provenienza e organizzati in «corporazioni» onnipotenti, dalle quali il corpo accademico dipendeva. A esse il professore – in «cappa» color porpora col cappuccio – prestava giuramento, e da esse riceveva lo stipendio, le multe per le assenze ingiustificate, e il licenziamento quando le sue lezioni non soddisfacevano più. Ma ciò che dava forza e prestigio a quell’Ateneo, oltre al fatto di avere già quasi due secoli di storia, era la sua impronta laica. Esso era sorto nel momento più drammatico della lotta fra Papato e Impero. E l’Impero lo aveva aiutato e finanziato per formarvi una sua classe dirigente e amministrativa da contrapporre a quella ecclesiastica. Laicismo significa libertà. E la libertà è la condizione di ogni progresso, ma specialmente di quello culturale.
Petrarca apprezzò tutto di Bologna, fuorché gli studi giuridici per i quali suo padre ce l’aveva mandato. Come disse più tardi, il mestiere di avvocato non si deve fare disonestamente, ma onestamente non si può. Così, invece di frequentare le lezioni di diritto, seguì i corsi di letteratura, e soprattutto sprofondò in quella classica, che proprio allora veniva rilanciata. Virgilio, Cicerone e Seneca furono per lui folgoranti scoperte. Sui loro testi perfezionò il suo latino, ch’era già abbastanza buono. E da allora fu contagiato da una ghiottoneria di manoscritti rari, che doveva far di lui un collezionista raffinato, un esploratore di archivi, in una parola il primo grande umanista d’Europa.
Non sappiamo nient’altro della sua vita di goliardo. Ma tutto lascia credere che quasi nient’altro ci fu. Egli non dovette partecipare alle gozzoviglie dei suoi compagni di scuola, e le taverne le bazzicava poco. Era già troppo elegante, troppo esigente, troppo snob, per trovarcisi a suo agio. Vestiva con ricercatezza, e gli piaceva molto farsi ammirare, ma più dai dotti che dalle cortigiane. Avrà avuto anche lui i suoi intermezzi di ribalderia, ma la sua vita dimostra che c’era poco portato. Era un bel giovane, ma più esteta che sensuale, e non si lasciò mai andare in balìa di passioni, ammesso che ne abbia avute.
Quando venne a Bologna, era già orfano di madre, morta nel 1318: egli l’aveva pianta a lungo e le aveva dedicato i suoi primi versi latini. Nel 1326 morì anche Petracco, e con lui sparirono i motivi che obbligavano Francesco a fingere di studiar diritto. Con sollievo buttò via i codici sui quali non aveva che sbadigliato, e tornò ad Avignone. Per risolvere il problema del pane, entrò in sacerdozio, ma limitandosi a prendere gli ordini minori che lo qualificavano a ricevere dei benefici ecclesiastici. E infatti, colto, brillante e salottiero com’era, non stentò a procurarsene in quella Curia di Cardinali mondanizzati che apprezzavano al massimo queste qualità.
Petrarca non era uomo da rifiutare i piaceri che quella città ora offriva. Come sempre, si scelse i più raffinati: le compagnie più erudite, le mense più squisite, e anche un’amante che gli diede due figli naturalmente illegittimi. Ma ciò non gl’impedì di deplorare il malcostume e la corruzione del Clero, cui egli stesso contribuiva, e di lanciare richiami alla necessità di riportare la sede papale a Roma: il che gli valse la simpatia e l’affettuosa protezione dei due potenti fratelli Colonna – il cardinale Giovanni e il vescovo Giacomo –, a meno che non sia stata la loro protezione a ispirargli i richiami. Comunque, ne ricavò i benefici ecclesiastici a cui aspirava, e ne visse agiatamente.
Come non gl’impedivano di fare il moralista, la relazione e la paternità non gl’impedirono d’innamorarsi di Laura, la musa che doveva ispirargli le più belle poesie. Chi fosse costei e se sia realmente esistita, è rimasto a lungo incerto, e ancora è oggetto di contestazione. Ma in un appunto scritto su una copia dell’Eneide di Virgilio, che appartenne a Petrarca e che ora è gelosamente conservata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano come suo cimelio, egli stesso ci ha fornito di sua mano alcuni dati anagrafici. In quell’appunto sono fissate la data e le circostanze dell’incontro con Laura: alla messa di Pasqua del 1327, cioè un anno dopo il ritorno di Petrarca ad Avignone, nella chiesa di Santa Chiara. Nella stessa ora dello stesso giorno del 1348, egli aggiunge, Laura morì. Da questi dati gli storici hanno desunto che doveva trattarsi della Marchesa Laura de Sade, lontana progenitrice di un altro de Sade, che doveva dare il suo nome a un vizio assai diffuso: il sadismo.
In Laura però di vizi, a quanto pare, non c’era neanche l’ombra. La tradizione riconosce i suoi connotati in una miniatura attribuita a Simone Martini, che ora si trova alla Biblioteca Laurenziana di Firenze: un bel volto dal profilo delicato, soffuso di pudore e di modestia. Non sappiamo se quando Petrarca la vide era già sposata. Sappiamo però che regalò a suo marito dodici figli. E quindi, sempre in ballo come doveva essere fra gravidanze e allattamenti, non avrebbe trovato il tempo di dedicarsi al suo spasimante neanche se ne fosse stata tentata.
Ma forse in un senso carnale non lo fu neanche Petrarca, che di Laura s’innamorò un po’ come Dante si era innamorato di Beatrice: cioè per una specie di coscrizione poetica. Lì in Provenza si respirava ancora l’aria dei trovatori. Egli stesso più tardi ebbe a dire che poetavano tutti, perfino i teologi, tanto da stupirsi che anche le mucche non muggissero in versi. E naturalmente si seguitava a farlo secondo i vecchi schemi prefabbricati, che esigevano anzitutto la scelta di una ispiratrice cui dedicare le proprie rime. Petrarca cedette anche lui alla tentazione, e per Laura compose il Canzoniere, senza minimamente sospettare che quello sarebbe stato il suo passaporto all’immortalità. Egli credeva di passare ai posteri per i suoi meriti – indiscutibili – di grande grammatico, di grande latinista, di scrittore aulico e cattedratico. Le duecentosette poesie del Canzoniere rappresentarono, per una ventina d’anni, il suo passatempo. Furono invece il suo capolavoro, l’unico motivo per cui ancora oggi si parla di lui come poeta.
Fra un sonetto e l’altro, tirava a campare, e a campare il meglio possibile. Alternava la vita salottiera di Avignone, dov’era ospite fisso dei Colonna, con viaggi su commissione, che però erano anche di piacere, a Parigi, nelle Fiandre, in Germania. Oltre al tatto e al cosiddetto «uso di mondo» che facevano di lui un eccellente diplomatico, aveva il fiuto delle persone da vedere, e di quelle importanti per la cultura non gliene sfuggiva una. Oltre che conoscerle, forse gli piaceva farsene conoscere. Manteneva con loro fitte corrispondenze in latino. Era insomma un maestro di public relations, e infatti il suo nome era noto, negli ambienti intellettuali d’Europa, già molto prima che il suo talento venisse autenticato. Nel 1336 andò a Roma, sempre ospite dei Colonna. L’Urbe lo impressionò per la grandezza del suo passato e la miseria del suo presente. Si aggirò in mezzo ai Fori, dove pascolavano le pecore, si esaltò fra le rovine del Colosseo, e scrisse infiammati appelli al Papa perché lasciasse Avignone e tornasse a Roma. Dopo averli scritti però lasciò Roma per tornarsene ad Avignone.
Aveva comprato una casetta nei dintorni, a Vaucluse. La passione mondana gli era un po’ passata, quella per Laura l’aveva sfogata in versi. E ora preferiva una vita più semplice e più raccolta. Aveva per compagni due servitori, un cane, la natura e i libri. Lanciò la moda dell’alpinismo scalando – forse per primo – il monte Ventoux. Pescava. Faceva del giardinaggio. Ma soprattutto inondava il mondo di lettere nel più puro stile ciceroniano. Latinizzava anche i nomi dei destinatari, chiamandone uno Lelio, un altro Scipione, un altro Ovidio. Li spronava a frugare gli archivi alla ricerca di testi classici. Quando sapeva che n’era stato trovato uno, non aveva pace finché non se n’era fatto mandare una copia o l’originale che poi copiava da sé. Dalla Grecia ricevette un Omero. Spasimò per un Euripide. Scriveva, pur di scrivere, anche ai morti: a Tito Livio, a Virgilio eccetera. Questa per la letteratura classica era la sua unica vera passione.
Per le donne non ebbe mai tali trasporti da non poterli controllare. Ne diffidava, e infatti a nessuna di loro sacrificò i piaceri intellettuali e la quiete della sua vita di grande e raffinato egoista. Non gli si conoscono altre relazioni oltre quella, puramente poetica, con Laura e quella con la madre dei suoi due bastardi. Dopo i quarant’anni, a quanto scrive egli stesso, non ebbe più desideri, o per lo meno rinunziò a soddisfarli: non c’è forza vitale, dice, che possa far fronte insieme alle esigenze della letteratura e a quelle del sesso. E fra le due egli non aveva mai avuto esitazioni.
Amava la musica e suonava abbastanza bene il liuto. Quanto ai problemi religiosi, tirava più a evaderli che a risolverli. Faceva un po’ di fronda ai Papi disapprovando i costumi della Corte avignonese e profittando della loro facilità. Ma col dogma non voleva storie. E a chi gli chiedeva cosa ne pensasse, rispondeva che lui dubitava di tutto, eccetto delle cose sulle quali il dubbio diventava sacrilegio. In questo cauto equilibrio stava il segreto della sua felicità, ma anche il limite della sua ispirazione poetica. Era molto più colto e miglior stilista di Dante, ma non ne ebbe gl’impeti sublimi e i lirici abbandoni, la divorante sete di assoluto, il sacro fuoco. Ed egli stesso lo sentì. Di Dante parlò sempre con rispetto, ma avanzando alcune riserve sotto cui trapela la gelosia.
Nel 1341 tornò a Roma per essere coronato poeta in Campidoglio. La proposta di quella consacrazione era stata fatta dal cardinale Giovanni Colonna. Il Senato dell’Urbe, capeggiato da un altro Colonna, l’accolse subito: non tanto forse per ammirazione del poeta, quanto perché la cerimonia era un buon pretesto a riaffermare un primato romano almeno in campo culturale. Ora che non era più sede del Papato, la città non sapeva più cosa inventare per attirare l’attenzione del mondo. Il malcontento del popolino era grande. A corto di pane, voleva almeno un po’ di festa.
Prima di andarci, Petrarca fece sosta a Napoli, ospite di re Roberto di Angiò, suo fervido ammiratore, che gli rese grandi onori e lo fece scortare fino a Roma. Petrarca se ne sdebitò propagandando il nome del Re come quello di un illuminato mecenate quale non era. Egli conosceva l’importanza del «protocollo» e aveva il genio della messinscena. L’8 aprile, avvolto nel rosso manto che Roberto gli aveva regalato, e seguito da un lungo e pittoresco corteo di Senatori in toga e di giovani in abiti sgargianti, salì sul Campidoglio, dove lo attendeva Stefano Colonna con una corona in mano e un’orazione in bocca. Da quel momento Petrarca fu «il Poeta» per antonomasia e lo rimase fin quando questo titolo passò a Dante a furor di critica.
L’elezione di Clemente VI dopo la morte di Benedetto XII lo richiamò ad Avignone. Bisognava rendere omaggio al nuovo Papa e ottenere, se possibile, qualche altro beneficio ecclesiastico. Clemente si mostrò comprensivo. Gli diede un priorato a Pisa, un canonicato a Parma e una missione diplomatica a Napoli. Qui si fermò qualche mese per poi rimettersi in viaggio e visitare Bologna, Parma e Verona, dove frugando nell’archivio di una chiesa scoprì il manoscritto delle lettere di Cicerone ad Attico. Non era nuovo a questi ritrovamenti. A Liegi, anni prima, aveva disseppellito un altro testo di Cicerone: l’orazione Pro Archia. I grandi eventi della sua vita erano questi. Dalle vicende politiche si teneva alla larga. L’unica in cui si lasciò coinvolgere fu quella di Cola di Rienzo.
Che la plebe romana si fosse fatta abbindolare da quello squilibrato demagogo, non fa meraviglia. Ma un po’ ne desta il fatto che a quella suggestione abbia partecipato anche un intellettuale lucido e cauto come Petrarca. Eppure è così. Il Poeta era a tal punto infatuato di Cola che per seguitare a sostenerlo non solo si giuocò l’amicizia e la protezione dei Colonna, ma nel 1347, al tempo del primo tribunato di Cola, aveva lasciato Vaucluse per accorrere a Roma a dargli man forte. Non fece in tempo, perché a Genova seppe della sua caduta. Ma grazie a quella coincidenza si trovò in Italia proprio nel momento in cui vi si abbatteva il flagello della peste.
L’infezione veniva per mare dal Medio Oriente dove aveva già mietuto centinaia di migliaia di vittime. Mosche e topi la diffusero in Europa dove la popolazione, indebolita da alcuni anni di cattivi raccolti e di carestie, offriva poca resistenza. Si manifestò in due forme: una polmonare con emorragie che in tre giorni dissanguavano il malato, e una bubbonica che riempiva il corpo di pustole e ascessi, e lo demoliva in cinque giorni. Le descrizioni che ce ne hanno lasciato i cronisti sono terrificanti. Il senese Agnolo di Tura dice che, per la saturazione dei cimiteri, i cadaveri dovettero essere infoibati dentro trincee scavate alla svelta nelle piazze, e ch’egli stesso seppellì con le proprie mani cinque suoi figliuoli. Boccaccio afferma che a Firenze ci furono centomila morti: il che è impossibile, visto che tanti erano gli abitanti. Villani scrive che ne morirono sessantamila, ma anche questa è un’esagerazione. Tuttavia il salasso fu pauroso in tutta Europa. E fra le altre vittime, ne fece una che toccava da vicino Petrarca: Laura. Il Poeta, che aveva un debole per le coincidenze, assicura ch’essa chiuse gli occhi nella stessa ora dello stesso giorno e dello stesso mese in cui ventun anni prima si era rivelata ai suoi. E proprio da questo dato anagrafico si è desunto che si trattasse di Laura de Sade, elencata appunto tra i morti di peste ad Avignone il 3 aprile 1348.
Egli sfuggì al contagio, grazie forse alle misure di sicurezza che doveva aver adottato il suo anfitrione: Jacopo II da Carrara, Signore di Padova. Era costui un illuminato satrapo, ugualmente ghiotto di potere, di denaro e di cultura. Padova attraversava un periodo di splendore. Era una delle città che più a lungo avevano difeso le loro libertà comunali, ma appunto per questo si era trovata a disagio nella lotta con Cangrande della Scala che l’aveva resa tributaria di Verona. Per sottrarsi a questa servitù si era data in braccio a Jacopo I da Carrara che l’aveva difesa con lo stesso pugno di ferro con cui la tiranneggiava. Jacopo II gli era succeduto nel 1345 accoppandolo, secondo una legge di famiglia che lasciava all’assassinio la regolamentazione delle eredità. Egli stesso doveva soccombervi quattro anni dopo, quando venne pugnalato. Ciò che soprattutto dovette piacere a Petrarca, in questo suo soggiorno padovano, fu l’università, nata da poco, ma già in piena fioritura. Egli dice di essere rimasto piuttosto scandalizzato dall’averroismo, cioè dal razionalismo aristotelico che vi dominava, e ci assicura di aver sentito alcuni professori affermare che l’anima non era affatto immortale e che il Cristianesimo era una superstizione che poteva contentare solo le plebi ignoranti. Petrarca non amava avventurarsi in diatribe che potessero metterlo nei guai con la Chiesa: egli metteva nell’incredulità lo stesso impegno che nella fede, cioè ben poco. Ma in quell’aura di studi umanistici, intramezzati e rallegrati dalle feste di corte, si trovò bene, e infatti ci rimase un anno, cioè fino a peste finita. Poi girovagò, sempre alla ricerca di persone importanti e di manoscritti preziosi, fra Mantova e Ferrara. E finalmente volle andare a vedere la terra dei suoi padri: Firenze.
Qui lo attendeva Boccaccio, che aveva da poco cominciato a scrivere il Decamerone. Simpatizzarono, diventarono amici, e lo rimasero per tutta la vita, sebbene non si siano rivisti che una volta, o forse proprio per questo. Diversi com’erano di carattere e di gusto, difficilmente avrebbero potuto andar d’accordo. Ma, appena ripartito Petrarca, Boccaccio indusse il governo fiorentino a restituire al figlio dell’esule i beni ch’erano stati confiscati a suo padre nel 1303. Il governo annullò il sequestro e offrì a Petrarca una cattedra all’università. Petrarca la rifiutò, e il governo ripristinò il sequestro.
Nel 1351 era di nuovo a Vaucluse, intento a scrivere un piccolo saggio, De vita solitaria. E per la prima volta lo troviamo impegnato in una polemica stizzosa che gli procurò parecchi nemici. Il pretesto glielo fornì la cattiva salute di Clemente VI, un Papa che lo aveva ben trattato e con cui era in buoni rapporti. Il Poeta gli scrisse esortandolo a diffidare dei dottori che sono, gli disse, un branco di ciarlatani e basta. Era il prologo di un libello che poco dopo compose contro di loro, così acrimonioso e acido da farci sospettare che sotto ci fosse un caso personale. Forse non stava bene nemmeno lui e se la rifaceva coi medici che non riuscivano a guarirlo. C’induce a pensarlo anche il fatto che, andato a trovare suo fratello Gherardo, monaco in un convento, manifestò il proposito di rinchiudervisi anche lui. Ma poi sfogò quella tentazione in un saggio, De otio religiosorum.
Il fatto è che ad Avignone ormai si trovava a disagio. E ancora più ci si sentì dopo la morte di Clemente, che aveva continuato la tradizione di tolleranza e di mecenatismo inaugurata da Giovanni. Il suo successore Innocenzo VI era una bella figura di sacerdote ascetico e frugale, ma poco ricettivo alle suggestioni della cultura. Era naturale che non amasse Petrarca e che Petrarca non l’amasse. Al suo naso il Poeta puzzava di paganesimo, e minacciò di scomunicarlo come seguace di Virgilio. Fu il cardinale Talleyrand che s’interpose. Ma Petrarca capì che quella non era più aria per i suoi polmoni. E con gioia accettò l’invito di Giovanni Visconti di andare suo ospite a Milano.
Giovanni era un bell’uomo, gran signore e gran seduttore. Quando Petrarca giunse e gli chiese come poteva rendergli servizio, Giovanni rispose: «Solo con la vostra presenza, che onora me e il mio regno». Petrarca non se lo fece dire due volte. Onorò il suo regno per otto anni di seguito, restandovi anche dopo che Giovanni fu morto.
La prima missione per conto dei suoi anfitrioni la svolse presso l’imperatore Carlo IV di Boemia che nel 1354 scese in Italia. Il Poeta non lo conosceva. Ma subito dopo la prima caduta di Cola di Rienzo, gli aveva scritto una lettera solenne e aulica, invitandolo a venire nel «giardino dell’Impero» per ripristinarvi la pace, l’ordine e la gloria. Era una lettera stilisticamente molto più bella di quella che Dante aveva inviato ad Arrigo VII, nonno di Carlo. Ma invano vi si cercherebbe l’accento della passione, che riscaldava l’impervia prosa latina dell’esule fiorentino. L’Imperatore e il Poeta s’incontrarono a Mantova. Petrarca ripeté con magnifica eloquenza l’esortazione, e Carlo l’ascoltò con cortese compiacimento. Ma entrambi erano consci di recitare una commedia. Quel sovrano di sangue ghiaccio e di cervello lucido sapeva benissimo che il «giardino dell’Impero» era un nido di vipere. E il Poeta sapeva che il sovrano lo sapeva. Si lasciarono tuttavia da buoni amici: tanto che due anni dopo Petrarca tornò in ambasceria a Praga per conto di Milano.
In quello stesso anno andò anche a Venezia a svolgervi, come rappresentante dei Visconti, un compito di conciliazione con Genova. La guerriglia fra le due città seguitava a imperversare, e di lì a qualche anno sarebbe sboccata in un conflitto mortale. Il Poeta ci poteva far poco. Ma rimase impressionato da Venezia, dalla forza della sua flotta, dalla ricchezza e varietà dei suoi commerci, dalla vivacità della sua vita. E ne fece un’ampia e sonora descrizione tessendo un ampolloso elogio di due Dogi che non lo meritavano punto.
Già prima di questo viaggio aveva cominciato a comporre una serie di poemi in terzine, i Trionfi, forse come contraltare alla Divina Commedia in rapida e allarmante (per lui) crescita di notorietà e di quotazione. I trionfi sono quello del desiderio sul sentimento, della castità sul desiderio, della morte sulla castità, della gloria sulla morte, del tempo sulla gloria, dell’eternità sul tempo. C’è anche il finale congedo da Laura, con un’invocazione al perdono per la carnalità del suo amore e la speranza di un ricongiungimento con lei in paradiso. Purtroppo, l’ambizione non è proporzionata alla ispirazione che fa capolino ben di rado.
Petrarca rimase ancora sei anni ospite dei Visconti, saltuariamente svolgendo altre missioni, ma soprattutto inteso a comporre e a perfezionare le sue opere. Nel 1362, forse per sfuggire a una nuova epidemia, tornò a Padova e di lì a Venezia, dove la Repubblica gli diede una casa sulla riva degli Schiavoni. Stavolta la peste gli aveva portato via il figlio Giovanni, di cui a dire il vero non si era molto occupato. Gli restava la figlia Francesca che aveva sposato Francescuolo da Brossano e gli aveva dato una nipotina, Eletta. Il Poeta ebbe nostalgia di loro, quando un leggero attacco apoplettico lo avvertì che gli anni erano passati anche per lui e che la fine era imminente. Li chiamò, e con essi si stabilì ad Arquà sui Colli Euganei. Tempo prima in una lettera si era augurato che la morte lo sorprendesse mentre leggeva o scriveva. Fu esaudito. Lo trovarono con la testa reclinata su un libro. E in ossequio alla sua predilezione per le coincidenze, ciò avvenne il 20 luglio 1374, suo settantesimo anniversario. Nel testamento lasciava cinquanta fiorini per comprare un cappotto a Boccaccio, che moriva di freddo (e di fame).
Nel suo cassetto c’erano molte opere compiute e incompiute perché ne tirava avanti parecchie alla volta e non finiva mai di correggerle e polirle. Come ne trovasse il tempo in quella sua errabonda vita piena di missioni diplomatiche e culturali, di cerimonie, d’incontri, di amicizie, di relazioni, di conversazioni, non si capisce. Doveva essere un lavoratore instancabile, ma certo c’influì anche il metodo e la disciplina che sapeva imporsi.
I contemporanei ammirarono soprattutto i suoi versi e le sue prose latine: le Epistolae metricae, il Bucolicum Carmen, i ventiquattro libri Familiarum rerum, il De viris illustribus, gli Psalmi poenitentiales eccetera. Un grande successo, quando fu pubblicato, ebbe anche il poema postumo Africa, in cui egli aveva cercato di rinverdire le forme del poema-classico. Certamente son tutte opere di altissimo pregio stilistico. Ma chi cerca un ritratto dell’uomo e l’impronta di un carattere può contentarsi, fra tutta questa produzione latina, del Secretum in cui, appunto perché destinato a restare segreta, Petrarca ci ha lasciato la confessione delle sue inquietudini, dei suoi cedimenti morali, della debolezza della sua fede in Dio, rosa dai dubbi e da un sostanziale scetticismo. Delle lettere le più belle sono quelle raccolte sotto il titolo Seniles, perché composte negli ultimi anni di vita. Ma anche di esse si sente che sono scritte più per i posteri che per i destinatari.
La grandezza del Petrarca scrittore e poeta sta tutta in quel Canzoniere ch’egli aveva considerato solo un passatempo e di cui forse perfino si vergognava un po’ come di un’operetta fatua. Come Dante, che si prendeva per un teologo, anche Petrarca si era ingannato su se stesso, credendosi il continuatore della cultura classica e il ripristinatore della lingua latina. Era invece un poeta moderno e soprattutto un grandissimo stilista italiano, forse il più grande di tutti. Leggendolo, si trasecola all’idea che fra lui e Dante non corressero nemmeno quarant’anni. Sembra che ne siano trascorsi quattrocento, tanto è cambiata l’ispirazione, tanto il verso si è addolcito e disteso. La forza, il furore, il sangue, l’immaginativa di Dante son dileguati. Ma al loro posto è nata un’estetica.
Ma, oltre che un modello di poesia, Petrarca ne dettò uno di vita. Egli è un personaggio assolutamente nuovo: il grande «umanista» del Rinascimento. Non è vero che fosse solo un cinico e frigido calcolatore, come qualcuno lo ha descritto, intento solo al proprio tornaconto, al successo e alla carriera. Certo, l’immortalità del suo nome gli stette più a cuore di quella della sua anima, checché ne dica nei Trionfi; fu un abile propagandista di se stesso; e non lesinò in piaggerie. Ma ebbe i suoi tormenti, le sue angosce e malinconie. La sua serenità, come quella di Goethe, era più nei suoi versi e nelle sue prose che nella sua coscienza e nei suoi sentimenti.
Tuttavia, a differenza dell’uomo medievale, era interiormente libero. Per lui il mondo non era affatto un «sogno di Dio», ma una cosa ben solida; e la vita non una tormentata penitenza, ma un’appassionante avventura da gustare e delibare nel migliore dei modi. Gli piaceva piacere alla gente perché la gente gli piaceva. Perciò fu sempre ansioso di conoscerne e tanto viaggiò e a tanti eventi si trovò mescolato. Se non vi s’impegolò mai sino a soffrirne di dentro e di fuori com’era capitato a Dante, non fu tanto per mancanza di coraggio e di convinzione, quanto perché i suoi interessi erano solo di cultura. E nella cultura egli vedeva un sacerdozio fine a se stesso, che esentava da qualunque altro impegno. A un manoscritto di Virgilio egli avrebbe sacrificato non solo un’idea politica, ma perfino Laura. E forse si lasciò coinvolgere nella vicenda di Cola solo perché Cola forniva un buon pretesto a scrivere epistole e appelli in gloria di Roma.
Nel 1342, quando era già un personaggio altolocato e alla moda, si mise umilmente a studiare il greco col monaco calabrese Barlaam, cui per riconoscenza fece assegnare un Vescovato. Non si consolò mai di non sapere quella lingua, e pagò di tasca propria Leonzio Pilato per tenere dei corsi a Firenze in modo che qualcuno potesse impararla e tradurre in latino l’Iliade e l’Odissea. Quest’uomo che non avrebbe rischiato una multa per un Papa o per un Imperatore, si sarebbe giuocata l’anima per un testo di Omero. Era vanitoso, ma non meschino. Fu generosissimo per esempio con Boccaccio fino a tradurre una novella del suo Decamerone in latino perché i letterati di tutto il mondo potessero gustarla purgata – disse – dalla sua volgarità. Egli seguitava a credere che solo in latino si potesse essere scrittori eleganti.
Purtroppo fornì anche il modello di una cortigianeria destinata a restare nel costume della intellighenzia nazionale, anche quando questa ebbe perso ciò che lui possedeva per riscattarla: il talento.