CAPITOLO DICIANNOVESIMO

IL PADRE DELLA PATRIA

Nessuno è mai riuscito a spiegare in maniera convincente i motivi del primato di Firenze non solo in Italia, ma in tutta Europa, fra il Tre e il Cinquecento. Dire che fu dovuto alla ricchezza non ha senso perché anche la ricchezza di Firenze aspetta una convincente spiegazione. La città non godeva di nessun vantaggio naturale. Era al centro di un contado povero, o meno ricco di tanti altri. Non aveva materie prime. Non aveva una posizione geografica privilegiata. Non aveva nemmeno un grande fiume navigabile poiché l’Arno è in secca per buona parte dell’anno.

Anche la sua vita politica garantiva tutto, fuorché l’ordine e la pace. La Signoria, come si chiamava il Governo, era tutt’altro che stabile. Le varie magistrature, lungi da dividersi razionalmente il potere, se lo contendevano paralizzandosi a vicenda. C’era un Gonfaloniere di giustizia cui era affidata l’esecuzione delle leggi e delle sentenze giudiziarie; c’erano otto Priori che formavano una specie di Ministero; c’era un Parlamento rappresentato dal Consiglio del Popolo.

Sulla carta, una simile organizzazione potrebbe sembrare democratica e funzionale. Ma solo per effetto della nomenclatura. La parola «popolo», a Firenze, non aveva il significato che noi le diamo. Era riservata solo agl’iscritti alle Arti, cioè alle corporazioni di mestiere. Queste erano divise in maggiori e minori. Le maggiori erano sette e comprendevano le professioni più nobili e ricche: i giudici e notai, gl’industriali della lana, della seta e dell’abbigliamento, i mercanti, i banchieri, i medici e speziali eccetera. Le minori erano quattordici e comprendevano i mestieri più poveri: i fabbri, i beccai, i falegnami, i vinai, i muratori eccetera.

Queste due categorie avevano insieme lungamente lottato per strappare il potere alla vecchia aristocrazia terriera, e sulla fine del Duecento c’erano riuscite. Gran parte dei turriti manieri che dall’alto dei colli tenevano in soggezione la città e ne minacciavano le comunicazioni e i rifornimenti erano stati demoliti dai popolani fiorentini. Altri erano rimasti orfani perché il governo borghese di Firenze ne aveva obbligato i proprietari a trasferirsi in città per poterli meglio controllare. Il municipio insomma aveva vinto la sua secolare battaglia contro il castello, e i ceti urbani con le loro industrie avevano preso il sopravvento su quelli rurali con la loro agricoltura.

Ma, una volta raggiunto questo traguardo, la solidarietà delle Arti, cioè delle categorie produttive, si era rotta. Solo gl’iscritti nei loro elenchi erano cittadini di pieno diritto; e questa era già una discriminazione abbastanza grave, come risulta dalle liste elettorali: a metà del Trecento, su novantamila abitanti – se è esatta la cifra che fornisce Villani – solo poco più di tremila potevano votare. Ma, anche dentro questa privilegiata minoranza, c’erano grosse sperequazioni testimoniate anche dai nomi: il popolo grasso delle Arti maggiori e il popolo minuto delle Arti minori.

Il popolo grasso aveva già in mano tutto il potere economico poiché a esso facevano capo l’industria, la banca e il commercio. Ma deteneva anche le leve di quello politico perché almeno quattro degli otto Priori e la metà del Consiglio del Popolo dovevano appartenere alle Arti maggiori. Quelle minori, molto più numerose, non avevano quindi una rappresentanza adeguata alla loro vera forza.

La Costituzione fiorentina era dunque ben lontana da quel modello di democrazia che alcuni storici hanno creduto di ravvisarvi. Si trattava di uno Stato corporativo in cui le masse non si erano affatto integrate. E lo dimostrano i torbidi che ogni poco scoppiavano. Nel 1345 Cinto Bandini e nove altri agitatori furono messi a morte per un tentativo di rivolta. Nel 1368 ci furono altre teste mozzate per lo stesso motivo. E dieci anni dopo divampò il «tumulto dei Ciompi», cioè dei salariati dell’Arte della Lana che, guidati da Michele di Lando, s’impadronirono del potere. Lo tennero per poco perché lo esercitarono malissimo. Ma il disagio rimase, anzi fu acuito dalla reazione che ne seguì.

Eppure, nonostante queste inquietudini politiche e sociali, il «miracolo economico» di Firenze non aveva equivalenti in tutt’Europa. Questa piccola città, da sola, aveva un reddito superiore a quello di tutta l’Inghilterra ai tempi della grande Elisabetta. Il re Edoardo III era indebitato con alcune delle ottanta grandi banche fiorentine per un milione e mezzo di fiorini, che corrispondevano – all’ingrosso – a oltre venti miliardi di lire attuali. Sebbene dichiarasse bancarotta come un mercante qualsiasi, la finanza fiorentina non crollò. Essa si rifece sugli altri mercati grazie alla sua superiore organizzazione. Aveva inventato le polizze, cioè gli chéques, le lettere di credito, i buoni del Tesoro, e il sistema della doppia contabilità. Ma soprattutto si era stabilmente legata con l’industria attraverso le partecipazioni azionarie.

L’industria tessile fiorentina aveva sgominato qualsiasi concorrenza specie da quando si era impadronita dei segreti chimici della tintoria. Federico Oricellari prese il nome appunto dalla «orchella», un lichene da lui scoperto in Oriente che forniva un pregiato pigmento violetto, con cui fece miliardi. Coi capitali forniti dalle banche di cui erano azionisti, i tintori attrezzarono i loro stabilimenti in modo che le loro lane subivano fino a trenta processi di lavorazioni successive, ognuno sovrinteso da maestranze specializzate. La fase artigianale aveva ceduto il passo a quella industriale vera e propria.

Il nascente capitalismo s’incarnava in una nuova aristocrazia del denaro. Già al tempo di Dante essa aveva conteso il primato cittadino a quella del blasone: l’una era rappresentata dai banchieri Cerchi, l’altra dal «barone» Donati. E la lotta fra i due aveva insanguinato Firenze per decenni. Ora questi protagonisti erano scomparsi, e al loro posto ce n’erano altri, ma tutti di origine borghese e mercantile: i Bardi, i Peruzzi, gli Strozzi, i Pitti, i Rucellai, i Ricci, i Ridolfi, i Valori, i Capponi, i Soderini, gli Albizzi.

Questi ultimi, per un pezzo, tennero il mestolo in mano, ma quasi sempre per interposta persona e senza farsene accorgere. Erano troppo avveduti per mettersi in mostra e rovesciare gl’istituti popolari. Si contentavano di manovrarli sotto banco in modo da non stuzzicare la suscettibilità dei Fiorentini, attaccatissimi a una democrazia che da un pezzo non era più tale, e anzi non lo era mai stata. Fra gli ultimi decenni del Trecento e i primi del Quattrocento, gli Albizzi furono i grandi maestri del sottogoverno. E lo usarono per tenere al riparo i ricchi dalle riforme giustizialiste dei poveri.

Ma Firenze non sarebbe stata Firenze se la concordia delle classi capitaliste fosse durata all’infinito. Nel 1421 esse videro con compiacimento la nomina di Giovanni de’ Medici a Gonfaloniere di Giustizia. Aveva una grossa banca, e quindi era dei loro. Ma il compiacimento si trasformò in sbigottimento e poi in furore, quando Giovanni impose sul capitale una tassa del sette per cento che si chiamò «catasto». Oggi vien da sorriderne: il fisco ci ha abituato a ben altro. Ma allora parve un ladrocinio, un insopportabile sopruso. E Giovanni fu considerato un «traditore della Confindustria».

Veniva da una famiglia di recente potenza. Non si è mai saputo con esattezza né l’origine del nome, forse dovuto a qualche antenato medico, né quella dello stemma: sei palle – poi ridotte a tre – in campo d’oro. All’inizio del Duecento c’era stato un Medici consigliere comunale. Ma il vero fondatore della dinastia e del patrimonio era stato, ai primi del Trecento, Averardo, grazie a un’industria che non gli fa molto onore: l’epurazione. Era accaduto al tempo di Dante, quando i Neri avevano preso il sopravvento sui Bianchi. Averardo, che si era schierato dalla parte dei vincitori, aveva redatto un elenco aggiornatissimo dei «collaborazionisti» ricchi, e si era fatto dare in appalto il saccheggio delle loro case. È vero che la politica in Italia non è mai servita ad altro. Ma Averardo ne fu un brillante pioniere. E dalle sue imprese casa Medici prese l’aìre. Sulla preda bellica fu fondata la banca. La banca procurò i miliardi. I miliardi fruttarono il potere. E il potere moltiplicò i miliardi.

Quando Giovanni morì nel 1428, suo figlio Cosimo si trovò a essere insieme il più forte capitalista della Toscana con un patrimonio di quasi duecentomila fiorini, oltre tre miliardi di lire, e il più popolare portabandiera del proletariato fiorentino per via del catasto applicato da suo padre contro i ricchi. Aveva una quarantina d’anni, e li aveva impiegati non soltanto a investire, ma anche a spendere bene il proprio denaro, e a dominare le proprie impazienze e ambizioni. Anche lui infatti si astenne dal far pesare il proprio potere. Lo esercitò attraverso una delle magistrature meno appariscenti, come semplice membro del Consiglio dei Dieci, una specie di gabinetto militare che funzionava solo in tempo di guerra.

Ma di guerra appunto era tempo in quel momento, poiché si trattava di ridurre alla ragione Lucca, ribelle alla leadership fiorentina. Cosimo non solo assunse la direzione delle operazioni, ma le finanziò di tasca propria quasi si fosse trattato di un’impresa privata. E vinse senza appesantire di una lira il bilancio dello Stato. Così il figlio di colui che aveva inventato la tassa contro i ricchi diventò anche il creditore della Signoria. E la sua popolarità salì a picco.

Il popolo grasso capì che, se non lo fermava in tempo, il gioco era fatto. E la controffensiva partì naturalmente dalla famiglia cui il successo dei Medici più bruciava la pelle. Rinaldo degli Albizzi accusò Cosimo di ambizioni dittatoriali, e riuscì a strappare al gonfaloniere Guadagni un mandato d’arresto contro di lui. Cosimo non tentò né la resistenza né la fuga, che gli sarebbero state ugualmente facili. Docilmente si costituì, e lasciò anche che un parlamento adunato in piazza della Signoria decretasse, sotto la minaccia degli armigeri di Rinaldo, la sua condanna a morte. Si limitò a mandare sotto banco una «bustarella» al Guadagni. E questi si rimangiò la sentenza, trasformandola in un bando al confino di dieci anni.

Cosimo si trasferì a Venezia, dove aveva già depositato gran parte della sua fortuna. E anche lì dovette investirla molto bene, perché poco dopo il Doge in persona sollecitò a Firenze il richiamo dell’esule. Ma non ce n’era bisogno perché la nuova Signoria l’aveva già deciso per suo conto. Cosimo rientrò in trionfo, ma mostrandosi dolorosamente stupito della fuga degli Albizzi. Disse che non si sarebbe mai sognato di vendicarsi contro di loro, e probabilmente era sincero nel senso che non lo avrebbe mai fatto di persona. Lo avrebbe solo lasciato fare dai suoi seguaci, frattanto moltiplicatisi. L’uomo aveva il sangue ghiaccio, ma la memoria lunga.

Nemmeno stavolta, pur potendolo facilmente, sovvertì le magistrature democratiche. Anzi, dopo averne esercitata qualcuna, si ritirò dicendo che il potere corrompe l’anima e il corpo. Ma tutte le cariche erano occupate da uomini suoi, le masse erano con lui, e buona parte della plutocrazia era indebitata con la sua banca.

Fu un dittatore moderato e benevolo. Ma quando qualcuno andò da lui a protestare perché i suoi amici Priori, avendo scoperto un complotto, ne avevano precipitato da una torre il capo, Bernardo d’Anghiari, Cosimo rispose sospirando: «Gli Stati non si governano coi paternostri». Tuttavia aveva capito una cosa fondamentale: e cioè che si poteva compiere una rivoluzione sociale senza spargere una goccia di sangue, solo servendosi del fisco. Fu, crediamo, il primo uomo di Stato che abbia applicato in Europa la «scala mobile» e l’imposta progressiva sul reddito. Questa fruttò al bilancio, in vent’anni, quasi cinque milioni di fiorini, qualcosa come ottanta miliardi di lire. Molti ricchi, e specialmente quelli terrieri, non potendo o non volendo pagare le loro quote, lasciarono la città per tornare nei loro castelli di campagna. Erano quelli della vecchia aristocrazia che formavano la «Società delle Torri» e davano un tono signorile alla vita fiorentina. Ma Cosimo non si mostrò desolato di questo esodo. «Provvederemo» disse «a sostituirli. Oggi, per fare un nobile, basta qualche metro di panno rosso».

Come banchiere, non sbagliava un affare, e soprattutto non sbagliava un investimento. Un giorno un suo socio gli rimproverò di aver prestato una forte somma al Vescovo di Bologna che non offriva nessuna garanzia. Ma di lì a poco quel Vescovo diventò papa Niccolò V, e diede in appalto a Cosimo le finanze del Vaticano. Per tener dietro a tutti i suoi impegni, si alzava all’alba, andava a letto coi polli, mangiava e beveva con moderazione e questa regola lo tenne giovane e attivo fino ai settantacinque anni. Anche la sua vita di famiglia era ordinata. Solo una volta si concesse qualche libertà con una serva e n’ebbe un figlio illegittimo. Per sé, era sparagnino. Ma per contribuire agli abbellimenti della città, non lesinava. Spese di tasca propria quattrocentomila fiorini, più di sei miliardi di lire, per finanziare architetti come il Brunelleschi, scultori come Donatello e il Ghiberti, pittori come Botticelli, Gozzoli, Filippo Lippi e l’Angelico, filosofi e letterati come Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, l’Alberti. Quando il più grande bibliofilo del tempo, Niccolò de’ Niccoli, si fu completamente rovinato per acquistare manoscritti greci, Cosimo gli aprì un credito illimitato presso la propria banca, e quando morì rilevò per seimila fiorini gli ottocento testi che il bibliofilo aveva raccolto, per regalarli quasi tutti alla libreria di San Marco.

Era l’idolo di tutta l’intellighenzia fiorentina. Botticelli, Pontormo e Gozzoli ce ne hanno lasciato coi loro pennelli un ritratto probabilmente abbellito dall’ammirazione e dalla gratitudine raffigurandolo come un uomo di media statura, dal volto olivastro e marcato, con due occhi fondi e penetranti, e un naso in rilievo e a tutto sbalzo. Ma anche gli storici di parte democratica riconobbero in lui il più illuminato dei dittatori, e Varchi ne fa addirittura il più grande protagonista della rinascita culturale italiana ed europea.

Fu anche un abile diplomatico. Capì che il destino dell’Italia era condizionato dall’equilibrio fra le quattro grandi potenze che vi si erano formate: Milano, Venezia, Firenze e Napoli. E cercò con ogni mezzo di rafforzarlo. Quando Milano entrò in crisi dopo la morte di Filippo Maria Visconti e Venezia tentò di approfittarne, Cosimo aprì immediatamente la borsa a Francesco Sforza per metterlo in condizione di resistere. Venezia volle vendicarsene facendo lega con Napoli contro Firenze. Cosimo si sottrasse alla minaccia semplicemente richiamando tutti i crediti che aveva nelle due città, dove le più importanti ditte si trovarono di colpo sull’orlo del fallimento.

Lo chiamarono «Padre della Patria», certamente alludendo a una patria fiorentina. Ma Cosimo lo fu di tutta l’Italia. Forse egli carezzò un sogno di unità nazionale. Ma capì ch’era irrealizzabile, e quindi si contentò dell’unico traguardo che un uomo di Stato italiano, a quei tempi, poteva proporsi: un Direttorio dei «quattro grandi» solidali nel proposito di mantenere la Penisola al riparo da intrusioni straniere.

Questa fu la politica dei Medici sino alla fine del Quattrocento. A essa l’Italia è debitrice di quei decenni di relativa pace e di meravigliosa prosperità che consentirono il miracolo del Rinascimento.