Quando i Medici ne erano diventati i padroni, Firenze era già l’indiscussa capitale della cultura europea. Gli storici si sono affannati e tuttora si affannano a studiare i motivi di questo primato. Qualcuno lo attribuisce alla geografia, qualche altro alla storia, qualche altro ancora allo sviluppo industriale, che a sua volta attende una spiegazione. Lasciamoli alle loro discussioni, che ci sembrano poco convincenti, e restiamo ai fatti.
A Firenze era nata la grande poesia con Dante, la grande narrativa con Boccaccio, la grande erudizione con Petrarca, la grande pittura con Cimabue e Giotto, la grande architettura con Arnolfo. Evidentemente c’era in questa città qualcosa che la evocava naturalmente alle arti e alle lettere. Ma non c’è dubbio che i Medici se ne accorsero, e secondarono questa vocazione con un impegno, un’intelligenza e una liberalità che li fanno meritevoli dell’universale ammirazione. «Nel patronato della cultura», dice il Durant, «nessun’altra famiglia al mondo ha mai eguagliato i Medici.»
Era stato Cosimo a inaugurare questa tradizione nelle lettere, nella poesia, nella filosofia e nelle arti. Spese un patrimonio per l’incetta di manoscritti originali ad Atene, Costantinopoli e Alessandria. Ma anche un’altra cosa egli fece, che in seguito doveva dimostrarsi decisiva per gli orientamenti del pensiero italiano e europeo: istituì l’Accademia Platonica.
Gl’Italiani di filosofia greca non sapevano nulla, o quasi. Conoscevano quel po’ di Aristotele che gli era arrivato non direttamente, ma attraverso San Tommaso e gli altri maestri della Scolastica, i quali della logica aristotelica avevano assorbito quanto gli faceva comodo e scartato quanto l’imbarazzava. La filosofia, in Europa, era solo teologia. E la teologia non era appunto che un miscuglio di Bibbia e di logica aristotelica, o meglio un tentativo di mettere la logica aristotelica al servizio della Bibbia, per dimostrare che la verità rivelata dai sacri testi non contrastava affatto con la ragione, anzi vi trovava una conferma e un avallo. Quanto a Platone, in Europa se ne sapeva ancora di meno. E a ogni modo nessuno aveva capito in cosa si distinguesse da Aristotele.
Nel 1439 però avvenne un fatto nuovo. Su richiesta di Cosimo, a Firenze si riunì il grande Concilio ecumenico per la riconciliazione delle due Chiese cristiane: quella cattolico-romana e quella greco-ortodossa che si erano separate quattrocent’anni prima. L’imperatore d’Oriente Giovanni Paleologo v’intervenne di persona, portandosi al seguito i suoi più grandi dottrinari fra cui lo Scolari, il Bessarione e Gemisto. Come abbiamo già riferito nel capitolo quindicesimo, l’accordo alla meglio rabberciato là per là sul piano del dogma provocò l’insurrezione del Clero di Costantinopoli, e il tentativo di riconciliazione sfumò, anzi il suo fallimento aggravò il contrasto. Però l’intellighenzia fiorentina, che si era appassionata al dibattito, rimase conquistata dalla dialettica degli ospiti greci, che a sostegno delle loro tesi citavano a memoria i due grandi maestri dell’antichità e argomentavano con una logica di cui in Italia non c’era nemmeno il sospetto.
Fu una rivelazione. Gli sconfitti del Concilio diventarono i trionfatori della cultura: specialmente Gemisto che, accortosi dell’ignoranza degl’Italiani, pubblicò un opuscolo divulgativo in latino per spiegare la differenza fra Platone e Aristotele. Si trattava di una spiegazione piuttosto parziale perché Gemisto era un platonico arrabbiato, tanto che aveva assunto perfino lo pseudonimo di «Pletone». E infatti i suoi colleghi aristotelici, Scolari e Gaza, lo rimbeccarono vivamente. Ne nacque una polemica che sconfinò persino nella volgarità quando v’intervenne il Trapezunzio, detto anche Giorgio da Trebisonda, che se la rifece non con Pletone, ma addirittura con Platone, accusandolo perfino di omosessualità e ladrocinio. Il che costrinse Bessarione a una replica in difesa del grande Maestro.
Ma la cosa più straordinaria (e anche un po’ comica) fu la passione con cui gl’intellettuali italiani, che n’erano quasi completamente a digiuno, si gettarono in quella diatriba. Parlare di Platone e di Aristotele «faceva fino», ma i Fiorentini furono in maggioranza per quello che a loro riusciva più nuovo, cioè per Platone, che cominciarono a venerare prima ancora di averlo letto.
Stupito e commosso da tanto zelo, Gemisto pensò di approfittarne. Andò da Cosimo e gli propose di restaurare lì a Firenze la famosa Accademia Platonica, che tanto prestigio aveva goduto in Grecia. Cosimo ne vide subito la convenienza, e designò anche l’alto sacerdote del nuovo culto: un giovanotto di nome Marsilio Ficino, figlio del suo medico personale, che mostrava un’autentica vocazione a quelle discipline.
Questo curioso personaggio incarnava il perfetto «umanista» del Quattrocento. Era così bello che tutte le donne perdevano la testa per lui. Ma egli non ne ricambiò nessuna, perché nessuna trovò più attraente dei suoi libri. Era così innamorato del suo Maestro che si rivolgeva ai suoi discepoli chiamandoli «fratelli in Platone» invece che «fratelli in Cristo». Questo non gl’impedì, a quarant’anni, di farsi prete e di diventare canonico. Ma anche dopo aver preso i voti, seguitò ad accendere candele sotto il busto di Platone, che teneva ai piedi del letto al posto del crocifisso.
Passò per un filosofo eccelso senza esserlo per mancanza d’idee originali. Il suo stile era farraginoso, e il suo acume critico scarso. Ma fu un grande erudito e compilatore che per primo affondò le mani e diede una veste latina a tutta l’opera di esegesi che gli alessandrini avevano compiuto del pensiero greco, illuminando i punti di contrasto fra le due grandi scuole. Gli aristotelici sostenevano che la natura opera senza rendersi ragione di ciò che fa, mentre i platonici le attribuivano uno spirito e una consapevolezza. Si trattava dunque di decidere se il mondo era regolato dalla ragione o dal caso, ed era abbastanza chiaro che solo la prima ipotesi – quella sostenuta da Platone –era conciliabile con la tesi cristiana di un creato inteso come manifestazione dello spirito, divino e universale, del Creatore. Aristotele invece non vi riconosceva che il cieco effetto delle leggi che governano la materia.
Eppure Ficino non vide la gravità di questo dissenso su cui si era imperniata la polemica fra i dottrinari greci venuti a Firenze. Facendo di ogni erba un fascio e prendendo a prestito anche da Confucio e Zoroastro, egli cercava di conciliare l’inconciliabile, paganesimo e Cristianesimo, in un’arruffata Theologia Platonica che testimonia solo la grande confusione in cui versavano i cervelli occidentali a quel loro primo schiudersi al pensiero filosofico. Un dissennato entusiasmo per tutto ciò che avevano detto e scritto gli antichi lo spingeva a cercare di giustificarli tutti, anche quando si contraddicevano fra loro. Qualsiasi banalità, purché sostenuta da uno di essi, gli sembrava una rivelazione. E qualunque rivelazione, compresa quella di Cristo, per essere valida e persuasiva, doveva trovar conforto in qualcuno dei loro testi.
L’Accademia Platonica diventò con lui la grande palestra di questa nuova ginnastica. E i lettori d’oggi non riusciranno mai a immaginare di che febbre contagiò tutta l’intellighenzia europea che vi accorreva da ogni parte d’Italia, di Francia, di Germania, d’Inghilterra. C’erano tutti: da Pico della Mirandola al Poliziano al giovane Michelangelo. Si riunivano nella stessa sontuosa dimora dei Medici, quella che ora si chiama Palazzo Riccardi. Ognuno prendeva le parti di questo o di quel personaggio dei dialoghi di Platone, e ne sosteneva le tesi con un impegno che spesso scantonava nell’aggressività e provocava baruffe. Il difficile era far quadrare quelle teorie con gl’insegnamenti cristiani, quando di essi ci si ricordava: il che non sempre avveniva, malgrado la presenza di molti prelati. In tal caso si ricorreva a qualche sofisma o a sottili e contorte allegorie. Ogni poco si rivolgeva una apostrofe o si scioglieva un inno al busto dell’Immortale che sovrastava, inghirlandato di alloro, da un alto piedistallo. Il 27 novembre, giorno in cui si riteneva che Platone fosse nato e fosse morto, era celebrato come una festa religiosa. E qualcuno degli accademici avanzò anche il progetto di chiedere al Papa la canonizzazione del maestro.
Lorenzo, che del Ficino era stato allievo, figurava fra i più assidui partecipanti a questi dibattiti e riti, che facevano di Firenze l’epicentro del pensiero occidentale. Ne aveva il tempo perché ormai aveva sistemato nella maniera più accorta i suoi affari politici. Dopo la dura prova della guerra con Napoli, egli era riuscito a convincerne il re Ferdinando, Galeazzo Sforza di Milano e papa Innocenzo a formare con lui una Lega per il mantenimento della pace, cui aderirono per forza di gravità gli staterelli minori. Solo Venezia rimase in disparte, ma tenuta in rispetto dalle forze coalizzate degli altri quattro. Per la politica interna, Lorenzo lasciava fare ai Settanta che si davano il cambio nelle cariche, e si limitava a una generica supervisione. Il suo vero impegno erano le arti, le lettere e la vita sociale di Firenze, cui dettava il costume. E fu questo a valergli il titolo con cui la storia doveva adottarlo. Di «Magnifico», a quei tempi, si dava a ogni Signore. Ma Lorenzo lo fu per eccellenza e antonomasia.
Oltre che per la cultura, la città impazziva per i cortei e le mascherate, che facevano del suo Carnevale un avvenimento nazionale. Lorenzo secondò questi gai passatempi, ma ne perfezionò il gusto e lo stile. Assoldò i più grandi artisti del tempo per dipingere i carri su cui i giovani sfilavano da Ponte Vecchio a piazza del Duomo in bizzarri ed evocativi costumi e sovrintese di persona alla regia dei Trionfi con cui si concludevano queste parate. Ne compose anche le canzoni, i famosi Canti carnascialeschi, che tanto dovevano mandare in bestia il Savonarola, quando li sentì, come un satanico incentivo alla perversione morale. In realtà il carnascialismo era una vocazione del popolo e non infuriava soltanto a Firenze. Lorenzo si limitò a elevarne il livello.
Egli aveva il genio della grande festa di massa e ne godeva. Nella sua complessa personalità c’era posto per tutto. L’uomo che con Ficino dibatteva i problemi filosofici del platonismo era lo stesso che discuteva di raccolti col fattore, di travature con Leon Battista Alberti e di musica con Squarcialupi. Tuttavia crediamo che la componente più forte del suo ricco carattere fosse quella popolaresca. Lo dimostra il debole che, fra tutti i suoi amici e protetti, ebbe sempre per Luigi Pulci, l’autore del Morgante maggiore.
Pulci era un Cervantes plebeo che odorava di taverna. La sua satira non si esercitava soltanto sugli eroi delle «canzoni di gesta» burlescamente parodiati nel suo famoso poema. Aveva, da vero fiorentino, un senso vivo del grottesco, lo spirito polemico e mordace, la parola sboccata, la risata gorgogliante e rabelaisiana, la replica tagliente e colorita, i modi rozzi e grossolani. Ma a Lorenzo piaceva appunto per questi umori. «Gigi» era il suo compagno di ribotta. «È l’animella delle vostre palle» scriveva in tono di rimprovero a Lorenzo il cappellano di casa, alludendo – sia chiaro – alle palle dello stemma mediceo. Il fatto è che, pur favorendo gli studi del latino e del greco, pur finanziando l’Accademia Platonica, il Magnifico avvertiva il pericolo che la cultura fosse sopraffatta dall’erudizione e diventasse tutta una rimasticatura dei classici, come in realtà avvenne per nostra dannazione. Amava il Pulci perché non seguiva questo andazzo, cui egli stesso si sottrasse nelle sue poesie: fra le pochissime di quel tempo che denunzino un’ispirazione schiettamente popolare e perfino uno squisito sentimento della natura, rari a trovarsi in una letteratura come quella nostra, rimasta accademica, professorale, aulica e cortigianesca fin quando sopraggiunse il giornalismo a stimolarla e ravvivarla.
Fu grazie a Lorenzo che l’italiano mantenne il rango di lingua colta che Dante gli aveva dato e che, se fosse stato per i latineggianti umanisti, avrebbe probabilmente perduto. Anzi, fu proprio alla Corte di Lorenzo ch’esso ricevette quei ritocchi che, secondo il Varchi, ne fecero la più dolce, ricca e raffinata di tutte le lingue non d’Italia, ma – per quei tempi – del mondo intero. Il Magnifico non ne parlava altra, pur leggendo e scrivendo bene quelle antiche, né voleva che altre se ne parlasse alla mensa, dove pure erano ospiti abituali tutt’i grandi eruditi di allora, infatuati di greco e di latino.
Fra costoro faceva spicco il Poliziano che di Lorenzo era due volte creditore: per avergli insegnato a poetare e per avergli salvato la vita. Era stato lui infatti che, quando il Magnifico venne assalito dai Pazzi in cattedrale, lo aveva sottratto ai loro pugnali e sospinto in sacrestia sbarrandone la porta. Era un perfetto cortigiano nel senso migliore della parola: uomo di mondo colto e raffinato, conversatore incantevole, impenitente parassita cresciuto nella serra di Palazzo Medici, ma sinceramente affezionato e fedelissimo al suo Signore fino alla morte. Egli incarnava tuttavia la malinconica avventura spirituale della nouvelle vague umanistica. Era passato per un ragazzo prodigio quando, a poco più di vent’anni, aveva composto quelle stupende ottave sulla giostra di Giuliano de’ Medici che sembravano designarlo alla successione del Petrarca del Canzoniere. Poi, appunto come il suo maestro, soggiacque alla febbre del classicismo che ormai aveva contagiato tutti, e il poeta deperì in lui via via che fioriva l’erudito. Si mise a comporre in latino poemi derivati da modelli greci, diventò un perfetto professore di metrica e filologia, e non produsse più nulla di originale. Ma fino all’ultimo restò un compiuto gentiluomo e un amico devoto, immune da bassezze, miserie e invidie.
Alla sua penna dobbiamo anche il più gradevole e ammirativo ritratto di un altro campione della élite medicea: Pico della Mirandola. Poliziano lo descrive bellissimo, slanciato, di lineamenti delicati, di maniere soavi e illuminato da una luce interiore che aveva qualcosa di divino. Questo aristocratico che alla vita di Corte aveva preferito quella di biblioteca a Bologna e a Parigi, era considerato il fenomeno del tempo. Lo chiamavano «Fenice degl’ingegni» perché una divorante sete di cultura lo aveva spinto a studiare di tutto in un anelito di universalità. I posteri hanno poi appurato che di tutto, sì, sapeva, ma poco e male. Anche di molte delle ventisette lingue che si vantava di conoscere, in realtà non comprendeva che qualche parola. Ma le molte letture e la ferrea memoria gli consentivano di lardellare il suo discorso di citazioni che in quella società di eruditi gli valevano la generale ammirazione.
Pico aveva scelto Firenze come sua patria di elezione, qui attendeva sotto il patronato di Lorenzo a un tentativo di condensare tutto lo scibile umano, di cui si riteneva (a torto) depositario, in novecento proposizioni. E si era dichiarato pronto a difendere in un torneo oratorio, contro chiunque, quel suo farraginoso «digesto» scientifico-filosofico. Ma nessuno aveva raccolto la sfida.
Questi erano i principali protagonisti della vita culturale fiorentina, cui Palazzo Medici e l’Accademia Platonica davano il la. In questi due epicentri si accendevano e divampavano, con una violenza di cui oggi stentiamo a renderci ragione, le grandi dispute dottrinarie che poi si ripercuotevano crepitando nei salotti, nelle strade e perfino nelle bettole di quella città che, non avendo più una lotta politica in cui impegnare le proprie esuberanti energie, le smaltiva in orge ideologiche. Cos’è l’anima? Un’idea, come dice Platone; o una forma, come dice Aristotele? E la dannazione come può essere eterna, e quindi infinita, come corrispettivo di qualcosa di finito come il peccato?
Ecco i problemi che preoccupavano i fiorentini di Lorenzo. Ma era una preoccupazione soltanto intellettuale, un giuoco dialettico, un fatto mondano, e basta. Vi partecipavano anche le donne, alcune delle quali componevano saggi e poesie in latino o addirittura in greco. Tutto questo non era limitato alle classi alte. Lorenzo – e questo fu il suo grande merito di statista – non lesinò sforzi e mezzi alla divulgazione. A differenza e contro i consigli di Poliziano che, da buon intellettuale italiano, voleva fare della cultura un monopolio di casta, egli aprì immediatamente la borsa a Bernardo Cennini quando istituì a Firenze la prima stamperia; e fece regalare un palazzo a Cristoforo Landino che si era rovinato per pubblicare l’edizione completa delle opere di Orazio, Virgilio, Plinio e Dante, con relativi commenti. Egli aveva a cuore la cultura del popolo e comprese quanto le nuove tecniche di diffusione avrebbero giovato ad alzarne il livello.
Fu infatti sotto di lui che si formò quella tradizione dell’artigianato colto che ancor oggi a Firenze dura. Mentre i grandi pittori, scultori, architetti lavoravano nei palazzi e nelle chiese ogni più piccolo laboratorio di orafo o di incisore aveva il suo «maestro» in un Finiguerra, o in un Baldini o in un Raimondi che inventavano nuovi metodi di lavorazione e discutevano con gli allievi quelli degli antichi. Si facevano paragoni tra le varie scuole e i vari stili, si citava da Vitruvio di cui Lorenzo aveva fatto pubblicare il De architectura e da Leon Battista Alberti, il primo critico d’arte italiano.
Alberti era nato a Genova da una famiglia di esuli fiorentini. Era bello, alto e vigoroso. Aveva studiato i classici, citava Platone e Virgilio, possedeva vaste cognizioni di matematica, astronomia, musica e geometria, sapeva cavalcare e tirare d’arco. La sua conversazione scintillante, dotta e spregiudicata, aveva conquistato i salotti di Firenze dove s’era trasferito, chiamato da Cosimo. Le dame dell’alta società se lo contendevano e facevano a gara nel colmarlo di favori. Leon Battista le ricambiava galantemente, ma con gli amici non perdeva occasione per corbellarle. Amava le donne, ma ai piaceri dell’alcova preferiva quelli dello spirito. Passava le notti chino su Aristotele e Lucrezio, avvolto in una pelliccia, al lume di una candela. Era solito ripetere: «L’uomo sa fare tutto, se vuole», e ne fornì la prova. Investigò ogni ramo dello scibile e fu scrittore assai prolifico. Compilò un trattato sulla pittura, a cui attinsero Piero della Francesca e Leonardo da Vinci, al quale l’Alberti fu paragonato per il suo ingegno enciclopedico e proteiforme. Fu anche un discreto pittore, esigente e pignolo. Quando finiva un quadro, lo mostrava ai bambini, e solo se costoro lo giudicavano bello lo esponeva.
Ma fu per la sua attività di architetto che acquistò fama. Patito dell’antichità classica, compì lunghi e minuziosi sopralluoghi a Roma per studiare i ruderi, misurare i monumenti, copiare i fregi e le decorazioni del Pantheon, del Colosseo, del teatro di Marcello. Con prodigiosa rapidità la sua matita traduceva sulla carta l’idea per la facciata di una cattedrale, per gli interni di un palazzo. Fu chiamato a Rimini per riadattare la chiesa di San Francesco, che trasformò in un superbo tempio paganeggiante. Ma fu soprattutto a Firenze che egli operò. La facciata in marmo di Santa Maria Novella porta la sua firma. Su suo progetto fu costruita la cappella gentilizia dei Rucellai nella chiesa di San Pancrazio. Molte città italiane gli commissionarono edifici religiosi e civili. A Mantova disegnò la facciata della chiesa di Sant’Andrea, che abbellì di un grande arco trionfale d’ispirazione romana. Il Vasari, nelle Vite, lo celebra come uno dei più geniali architetti del tempo, inferiore solo al sommo Brunelleschi.
Filippo Brunelleschi fu per il Quattrocento ciò che Michelangelo fu per il secolo successivo: l’inventore di uno stile architettonico nuovo che ripudiò i tradizionali canoni gotici, conservandone tuttavia alcuni moduli e assimilandoli in una concezione moderna e vitale dello spazio. «Si può dire» scrisse il Vasari «che Filippo Brunelleschi ci fu donato dal cielo per dare una nuova forma all’architettura, da centinaia d’anni smarrita.»
Era nato a Firenze nel 1377 da una facoltosa famiglia. Il padre faceva il notaio e avrebbe voluto che Filippo seguisse le sue orme. Ma il ragazzo passava giornate intere a disegnare e a contemplare le chiese e i palazzi. Poco più che decenne fu assunto come garzone nella bottega di un orefice che gl’insegnò la difficile arte del cesello. In quegli anni conobbe Donatello e imparò anche a scolpire.
Ma ciò che più l’appassionava era l’architettura. Insieme con Donatello visitò ripetutamente Roma e frugò nelle sue reliquie con la pazienza di un certosino e l’ardore di un archeologo. I Romani, vedendo i due artisti girovagare per i fori con l’aria intenta e assorta, li scambiavano per geomanti e li chiamavano «quelli del tesoro». Brunelleschi fu colpito dalla mole del Pantheon e dalla maestosa cupola, che gli servì da modello quando fu chiamato a innalzare quella di Santa Maria del Fiore.
La copertura del Duomo di Firenze era diventata un autentico rompicapo per gli architetti e gli ingegneri fiorentini incaricati di progettarla. I committenti la volevano alta, slanciata, grandiosa: doveva sovrastare tutti gli altri edifici cittadini e stagliarsi all’orizzonte a documentare l’afflato religioso e l’empito spirituale della città. La base doveva poggiare sul tamburo ottagonale del tempio, largo quarantasei metri ma privo di contrafforti all’esterno e di travi all’interno. Ma la debolezza delle strutture sconsigliava l’erezione di un’alta cupola, la cui fragilità avrebbe messo in pericolo l’incolumità della chiesa e quella dei fedeli. Brunelleschi disegnò una copertura dalle linee ricurve a sesto acuto e la mostrò agli architetti fiorentini, i quali obiettarono che non sarebbe stata in piedi. Filippo si fece allora portare un uovo, ne appiattì una delle estremità e lo piantò sul tavolo, intorno al quale erano seduti i colleghi. Qualcuno eccepì che una cupola non era un uovo, ma la maggior parte diede ragione al Brunelleschi.
Per realizzarla l’artista impiegò quattordici anni, dal 1420 al 1434. La costruzione si rivelò più difficile del previsto, a causa anche dell’alto costo dei materiali e delle gelosie dei rivali. Quando la cupola, che si ergeva quarantaquattro metri sopra i muri di sostegno, fu finita, tutti i Fiorentini corsero ad ammirarla, e anche molti forestieri vennero in città per vederla. A essa s’ispirerà Michelangelo per la copertura di San Pietro, «più grande», com’egli scrisse, «ma non più bella di quella del Duomo».
La cupola di Santa Maria del Fiore fu il capolavoro del Brunelleschi, che tuttavia legò il proprio nome anche a innumerevoli altre imprese architettoniche. I Pazzi, gli irriducibili antagonisti dei Medici, gli affidarono la costruzione della cappella di famiglia nel chiostro di Santa Croce. Filippo immaginò un portico, slanciato al centro da un arco, scandito all’esterno da colonne, articolato all’interno da lesene e sormontato da una specie di tettoia con una cupoletta sovrastante. Nello stesso stile classico disegnò la chiesa di Santo Spirito a croce latina e a tre navate. Fu questa l’ultima fatica del Brunelleschi che morì prima che l’edificio fosse compiuto. La sua salma fu esposta sotto la cupola del Duomo e Firenze gli tributò esequie solenni, alle quali parteciparono tutti gli artisti fiorentini, tra cui Donatello.
Donatello era il diminutivo di Donato di Niccolò di Betto Bardi. Era nato anche lui a Firenze, cinque anni dopo Filippo. Poco sappiamo della sua famiglia e della sua infanzia. Lo troviamo giovinetto nella bottega del Ghiberti, il decoratore delle porte del Battistero, ma il suo tirocinio durò poco perché, appresi i primi rudimenti della scultura, abbandonò il maestro e si mise a lavorare in proprio. A ventidue anni, il suo scalpello era conteso dalle fabbriche e dai mecenati fiorentini. I capi delle corporazioni maggiori lo invitarono a decorare la chiesa di Orsanmichele, l’inestimabile reliquiario della scultura fiorentina del Quattrocento. L’artista vi eseguì due poderose statue di Apostoli. Quando Michelangelo vide quella di San Marco esclamò: «Sarebbe stato impossibile rifiutare di credere al Vangelo predicato da un simile uomo».
A ventitré anni il Capitolo del Duomo gli ordinò una statua di David, che diventerà un tema ricorrente e il soggetto prediletto di Donatello. Ne eseguì parecchi altri, e in uno, quello conservato al museo del Bargello, raggiunse un grado ineguagliato di perfezione. Il vincitore del gigante Golia cinge con la destra una lunga spada e ha ai piedi un elmo greco. Il braccio è puntato ad angolo sul fianco e il ginocchio sinistro, leggermente piegato, fa gravare su quello destro tutto il peso del corpo, nudo, liscio, flessuoso, modellato dal chiaroscuro, e in cui si sente l’influenza della statuaria greca di Fidia e Prassitele.
Scolpì per il Battistero e per il Campanile di Giotto, visitò Roma, Siena e Venezia, e nel 1444 si trasferì a Padova dove attese al primo monumento equestre del Rinascimento. Erasmo Gattamelata s’ispira al Marc’Aurelio a cavallo in Campidoglio, ma è più mosso e drammatico. Il condottiero veneto è ritratto in tutta la sua possanza, i lineamenti del volto sono marcati e vigorosi, l’espressione virile, il braccio è atteggiato a un gesto di comando. Il monumento, che si erge in piazza del Santo, fu compiuto in sei anni e costò ai committenti milleseicentocinquanta ducati d’oro.
Donatello tornò a Firenze dopo dodici anni chiamato da Cosimo, che lo alluvionò di ordinazioni per le chiese di San Lorenzo e di Santa Croce. Artista e mecenate diventarono amici inseparabili e trascorsero insieme intere giornate a discutere di scultura, di poesia, di filosofia. Cosimo passava allo scultore un lauto stipendio che Donatello depositava in un cesto appeso al soffitto della bottega, a cui tutti potevano liberamente attingere. Sotto la protezione di casa Medici visse felice fino a ottant’anni, e quando morì fu tumulato con molti onori nella cripta di San Lorenzo.
Fu il più grande plastico del Quattrocento. Aprì nuovi orizzonti alla scultura, specialmente a quella del ritratto, riscoprì il nudo che l’arte medievale, d’ispirazione religiosa e d’intonazione edificante, aveva ripudiato, e fu il capostipite di quell’indirizzo realistico che in pittura ebbe nel Masaccio il suo più compiuto interprete.
Masaccio si chiamava in realtà Tommaso Guidi ed era nato a San Giovanni Valdarno nel 1401. Gli avevano storpiato il nome per la sua sciatteria e sbadataggine. Cominciò a dipingere in tenera età, fu allievo di Masolino da Panicale che gl’insegnò le regole della prospettiva, in cui eccelse, e frequentò anche la bottega del Ghiberti, dove studiò anatomia.
Di lui possediamo poche opere, poiché morì a soli ventisette anni. Il suo capolavoro è il ciclo d’affreschi ispirati alla vita di San Pietro che decora la Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine. Nel Tributo a Cesare sono stupendamente compendiate le qualità pittoriche del Masaccio: la nobiltà del disegno, la maestosità delle figure, l’unità della composizione, la misura prospettica e l’intensità psicologica. Il Vasari definì moderno lo stile di questo artista geniale e solitario, che spianò la via a tutta la pittura toscana successiva. La Cappella Brancacci diventò meta e scuola dei maggiori pittori del tempo: dal Beato Angelico al Lippi e al Botticelli.
Guido di Pietro da Vicchio di Mugello, ribattezzato Beato Angelico per la sua pietà e mansuetudine, entrò a vent’anni nell’ordine domenicano. Dopo un periodo di noviziato in vari conventi della Toscana, fu assegnato a quello di San Marco, dove trascorse gran parte della vita a pregare e a dipingere. Affrescò il refettorio, i chiostri, il dormitorio, le celle del convento con scene tratte dai Vangeli e dalle vite dei Santi.
Prima di impugnare il pennello, faceva la comunione e recitava le orazioni, e non accettava commissioni senza l’autorizzazione del Priore. I suoi dipinti sono intrisi di un idealismo soave e mistico, le figure, specialmente quelle femminili, sprigionano dolcezza e umiltà, le carni sono bianche e morbide, i profili delicati, le mani lunghe e affusolate, gli occhi languidi, i gesti composti e devoti, le vesti orlate da una fettuccia dorata e doviziosamente ricamate.
Niccolò V lo chiamò a Roma per affidargli la decorazione della sua cappella privata, ma la vita di curia, fastosa, festosa e depravata, non era fatta per il mite e furtivo monaco che, dopo un anno, tornò a Firenze. Morì nel 1455 a sessantott’anni, e l’umanista Valla coniò per lui questo epitaffio: «Non sia mia lode perché fui un secondo Apelle, ma perché diedi i miei guadagni ai tuoi fedeli, o Cristo».
Lo stile mistico ed edificante dell’Angelico acquista un sapore sommessamente mondano in Filippo Lippi. Era figlio di un macellaio fiorentino, ma a due anni rimase orfano e fu allevato da una zia che a otto lo chiuse in convento dove, sotto la guida dei suoi superiori, studiò disegno e pittura. Le sue prime opere sono andate perdute, ma il Vasari dice che eguagliavano per bellezza e perfezione quelle del Masaccio della Cappella Brancacci. A ventisei anni lasciò il convento, ma conservò la tonaca, che tuttavia non bastò a salvarlo dalle tentazioni. Era un gagliardo peccatore sempre pronto ad abbandonare colori e pennello per correr dietro a una sottana. Un giorno Cosimo de’ Medici gli commissionò un dipinto, ma vedendo che l’artista, distratto dalle donne, non si decideva a porvi mano, lo chiuse a chiave nello studio. La notte successiva il Lippi, in preda a un accesso erotico, fuggì calandosi con le lenzuola dalla finestra per riparare in un bordello.
I suoi principali committenti erano i conventi, e prediligeva quelli femminili. Nel monastero di Santa Margherita a Prato conobbe una suora, Lucrezia Buti, la sedusse e la rapì. Lucrezia diventò la sua modella, e le sue fattezze sono riprodotte in molte delle stupende Madonne del Lippi, fra le più soavi e delicate del Rinascimento. Nel 1461 Pio II, su richiesta di Cosimo, sciolse il monaco dai voti. Filippo, che non aveva perduto la foga giovanile, ripudiò Lucrezia, che con l’età era diventata grassa e piena di acciacchi, e s’invaghì di una «lolita». La sedusse, e per vendetta i genitori della fanciulla lo avvelenarono. Lasciò molte opere, disseminate in chiese, conventi, edifici pubblici e privati, e un allievo, che diventò più famoso del maestro.
Sandro Filipepi era nato a Firenze da una modesta famiglia. Poiché aveva poca voglia di studiare, il padre l’aveva messo come apprendista nella bottega dell’orafo Botticelli. Il piccolo Sandro imparò così bene l’arte del cesello che gli affibbiarono il nome del padrone, col quale è passato alla storia. Filippino Lippi, che lo conobbe, lo descrive scorbutico e sensuale, dai lineamenti sgraziati e irregolari, elegante e con una lunga chioma inanellata.
A vent’anni aprì uno studio di cui i Medici diventarono i più assidui clienti. Per Lorenzo e Giuliano, di cui fu amico e compagno di ribotta, dipinse innumerevoli quadri di soggetto mitologico e d’ispirazione paganeggiante. Nella Primavera, la sua opera più famosa, celebrò mirabilmente il sogno rinascimentale della bellezza e della gioia di vivere che Lorenzo aveva cantato nell’inno a Bacco. Ma la grazia epicurea di questi dipinti scompare nelle opere successive in seguito – pare – a un trauma spirituale.
Intorno al 1485 l’artista, ascoltando una predica del Savonarola, fu talmente colpito dall’oratoria apocalittica del frate di San Marco che decise di mettere la sua arte al servizio della religione. Illustrò in ottantotto disegni la Divina Commedia, e dipinse Madonne, Santi, Apostoli. Purtroppo – come dice Gide – le buone intenzioni non bastano a fare le buone opere d’arte. Il suo pennello diventò agiografico e declamatorio, il vigore e lo smalto di un tempo s’appannarono e il talento perse ciò che la fede aveva guadagnato. La morte del Savonarola amareggiò la vecchiaia dell’artista, che a sessantasei anni calò nella tomba, solo e dimenticato da tutti. Fu l’ultimo grande pittore del Quattrocento. Con lui l’arte fiorentina del quindicesimo secolo toccò il suo apogeo.
Ma è giunto il momento di riprendere il nostro giro d’Italia e di far tappa in una delle città più vive, colte e festose del tempo: Ferrara, dove regnavano i Signori d’Este.