CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

ROMA DOPO AVIGNONE

L’esilio del Papato ad Avignone, lo abbiamo già detto, era stato per Roma una catastrofe.

All’alba del Quattrocento, la città occupava una superficie dieci volte inferiore a quella dei tempi d’Aureliano e coi suoi sessantamila abitanti era meno popolosa di Milano, Venezia e Firenze. Le mura erano diroccate, le torri mozze e sbrecciate, le strade disselciate e affogate in pozzanghere fetide e melmose, gli acquedotti intasati e slabbrati rendevano difficoltoso e precario il rifornimento idrico, e molti Romani erano ridotti a bere l’acqua del Tevere. Pestilenze e carestie decimavano la popolazione più delle guerre.

Lo stato di disfacimento e di abbandono non era limitato ai rioni popolari e di periferia. Investiva anche il centro. I Fori erano trasformati in putridi catini, il Colosseo e il teatro di Marcello erano adibiti a depositi d’immondezza, e il Campidoglio era costellato di catapecchie sbilenche e maleodoranti. Vacche, pecore, maiali pascolavano sui sagrati delle chiese. Molte chiese, sebbene aperte al culto, avevano l’aspetto di ruderi, e i palazzi apostolici avevano perduto il nitore e il fasto d’un tempo. Col buio nessuno osava uscir di casa e avventurarsi per le strade, propizie agli agguati e infestate dai briganti. La vigilanza notturna era scarsa e complice di coloro sui quali doveva esercitarsi.

Ciascuna delle consorterie più potenti, che facevano capo agli Orsini, ai Colonna, ai Caetani, aveva il suo esercito di «bravi», i suoi castelli, i suoi fortilizi e la sua «ragione di Stato». Fomentavano sommosse, tramavano complotti, aizzavano il popolino sempre pronto a scendere in piazza e a menare le mani per un tozzo di pane. Le lotte di fazione erano l’unica industria fiorente in una città priva di fabbriche e dedita esclusivamente alla pastorizia e al minuto commercio. Tagliata fuori dalla grande rivoluzione comunale, l’Urbe mancava di una borghesia mercantile e imprenditoriale capace d’inserirla in un circuito economico vasto e dinamico, com’era avvenuto a Firenze, a Milano e nella maggior parte delle città del Nord. La plebe viveva d’elemosine, i nobili di rendita e di rapine, il Clero di decime, di usura e di simonia.

Col trasferimento del Soglio ad Avignone molti tesori e capitali avevano preso la via della Francia. Quando Gregorio XI decise il ritorno a Roma, le finanze della Chiesa erano in pieno dissesto e non potevano certo contare sulle risorse di una città che non ne aveva punte. Ma in compenso c’erano quelle, tutt’altro che trascurabili, dello Stato pontificio: vasto territorio che comprendeva tutto il Lazio e larghe fette dell’Umbria, delle Marche e della Romagna, inglobando una trentina di città, governate da Legati. Esso vantava inoltre diritti feudali sul Regno di Napoli e sui beni matildini di Toscana, che si traducevano in oboli e tributi, ma per riscuoterli i Pontefici dovevano spesso ricorrere alla minaccia di scomunica. Quando anche questa si rivelava inefficace, facevano appello alle milizie mercenarie, perché di regolari la Chiesa non ne aveva e le poche guardie che i Papi tenevano nell’Urbe bastavano appena – quando bastavano – a difendere il Vicario di Cristo dalle violenze dei nobili e dai tumulti del popolo. Fu solo grazie all’energia, al coraggio, alla sagacia dei successori di Gregorio, Niccolò V, Pio II e Sisto IV, che Roma fu restituita al suo rango di Capitale e s’avviò a diventare uno dei massimi centri del Rinascimento.

Niccolò V si chiamava Tommaso Parentucelli ed era nato a Pisa, figlio di un chirurgo, ma aveva studiato e si era laureato in teologia a Bologna. Qui conobbe l’arcivescovo Niccolò degli Albergati, che gli assegnò un’importante carica di sovrintendente e lo condusse con sé a Firenze, dove venne a contatto con gli umanisti e sprofondò negli studi classici. Leggeva avidamente gli autori latini e greci, partecipava alle dispute letterarie e filosofiche e spendeva tutto quello che guadagnava in manoscritti. Conquistato dalla sua erudizione, Cosimo l’assunse come bibliotecario e gli assegnò un lauto stipendio.

Fu unicamente per questi meriti culturali – e il fatto è rivelatore di un certo costume della Chiesa – che lo fecero prima Cardinale e poi Papa. Gli umanisti esultarono e Niccolò li reclutò in massa trasformando il Vaticano in una vera e propria Accademia. Affidò a Lorenzo Valla la traduzione in latino di Tucidide, commissionò a Guarino da Verona quella di Strabone, pagò a Niccolò Perotti cinquecento ducati per quella di Polibio. Il più fortunato fu il Filelfo che in cambio della versione latina dei poemi omerici ricevette una bellissima casa a Roma e una vasta tenuta in campagna.

Quando viaggiava, Niccolò si faceva seguire da uno stuolo di letterati, artisti, traduttori, scrivani, coi quali familiarmente discuteva di Orazio, di Virgilio, di Aristotele. Se li portava dietro anche quando scoppiava un’epidemia, e a Corte dava loro la precedenza sui prelati coi quali poco se la diceva. Le questioni ecclesiastiche l’interessavano meno di quelle filosofiche e letterarie, e alla Bibbia preferiva i Carmi di Catullo e le Metamorfosi di Ovidio. La sera si chiudeva nel suo studio e fino all’alba rileggeva le traduzioni che gli umanisti gli approntavano, e che poi faceva rilegare in velluto rosso e riporre in eleganti scaffali.

Come tutti i Signori del Rinascimento, aveva il mal della pietra e spese somme immense per ridare a Roma il suo antico volto architettonico. Riparò le mura, restaurò conventi, chiese, palazzi, innalzò nuovi edifici, costruì fogne, ponti, acquedotti, pavimentò strade. Affidò a Leon Battista Alberti il progetto di piazze e palazzi, incaricò Bernardo Rossellino di ripristinare San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Paolo e San Lorenzo fuori le mura. Spalancò le sale vaticane ad Andrea del Castagno e al Beato Angelico perché le decorassero. Investì quasi tutti gli introiti del Giubileo del 1450 per abbellire la città che in quell’occasione vide affluire centomila pellegrini, e per facilitarne l’accesso a San Pietro fece demolire numerose case, dopo averne sfrattato gl’inquilini. Non andava per il sottile quando c’era da far soldi, e se le casse languivano non esitava a inasprire i balzelli. Eppure i Romani gli furono sempre ostili. Inscenarono violente manifestazioni di piazza per ottenere la restaurazione della Repubblica, infiammati dall’oratoria demagogica di un certo Stefano Porcaro, che Niccolò fece esiliare a Bologna e poi decapitare. Fu questo l’unico evento drammatico di un pontificato senza scosse. Niccolò morì a cinquantotto anni di gotta e di crepacuore, dopo aver tentato invano di lanciare i Principi cristiani d’Europa alla riconquista di Costantinopoli, caduta nelle mani dei Turchi. Un cronista gli dedicò questo epitaffio: «Fu giusto, saggio, benevolo, magnanimo, pacifico, affettuoso, caritatevole, umile, virtuoso», gratificandolo così di elogi sbagliati, e defraudandolo di quelli che meritava.

Gli successe, col nome di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, un senese di famiglia nobile e decaduta. Anche lui veniva non dal seminario, ma dagli studi umanistici fiorentini. A ventisette anni fu assunto come segretario dal cardinale Capranica che accompagnò in lunghe e delicate missioni diplomatiche in Italia e fuori, rivelando doti non comuni di negoziatore. Era raffinato, brillante e ambizioso. Spendeva tutto quello che guadagnava, e divideva imparzialmente il suo tempo fra biblioteche, osterie e bordelli. Le donne impazzivano per lui, ma egli evitava accuratamente quelle che volevano farsi sposare perché l’idea del matrimonio l’atterriva. Uno stuolo di concubine gli diedero una moltitudine di figli ch’egli affidava al proprio padre, perché non aveva tempo né voglia d’allevarli.

Sfogò la sua sensualità in versi scurrili e racconti boccacceschi. Scrisse un romanzo pornografico, che i nemici non si stancarono per tutta la vita di rinfacciargli, ma di cui dubitiamo che l’Autore ebbe mai a pentirsi. Si cimentò nei generi letterari più disparati e fu scrittore prolifico, vivace, elegante e piacevole. Lasciò una mole sterminata di poesie, epigrammi, dialoghi, romanzi, memoriali, note di viaggio, saggi, composti quasi tutti in latino. La sua conversazione non era meno deliziosa e scintillante della sua prosa, i salotti alla moda se lo contendevano e le dame dell’alta società andavano in visibilio per i motti di spirito e i paradossi di questo Talleyrand del Quattrocento, che non dormiva più di cinque ore per notte e non restava mai inoperoso.

Nel 1455 l’imperatore Federico, di cui era diventato pupillo, lo spedì ambasciatore a Roma dove in poche settimane conquistò la Curia, e dove si fece prete. Gli agiografi dicono che da quel momento visse in castità, sebbene avesse appena varcato le soglie della quarantina. Alla Corte pontificia dispiegò il suo eccezionale talento diplomatico riconciliando il Clero tedesco con quello romano. Il Papa per premio lo nominò Vescovo di Siena e nel 1456 lo fece Cardinale. Quando il Pontefice morì, il Sacro collegio elevò Enea Silvio al Soglio, chiudendo un occhio sul suo passato.

Non aveva che cinquantatré anni ma ne dimostrava molti di più. Era pallido, smunto, pieno di rughe e di acciacchi. Soffriva di gotta, di calcoli renali e di tosse. «A volte,» scrisse Platina «se non avesse parlato, nessuno avrebbe potuto dire che era vivo». I peccati di gioventù avevano lasciato il segno, e a poco servivano ora le diete, i salassi e le cure dei medici. Quando poteva si ritirava in campagna, seguito da uno stuolo di umanisti, e organizzava bucolici convegni lungo le rive di un ruscello o nell’ombrosa quiete di un boschetto. Come Niccolò, aveva in uggia i preti, alle dispute teologiche preferiva quelle filosofiche e letterarie, e aveva un debole per gli scrittori pagani e in particolare per Cicerone.

Ficcò i suoi parenti dovunque, inventando nuove cariche perché quelle esistenti non bastavano ad accoglierli tutti, e fece del Vaticano una colonia di Piccolomini. Ma fu un buon Papa. Tentò di arginare l’avanzata dei Turchi nei Balcani, e nel 1459 convocò a Mantova i Principi europei per indurli a prendere la croce contro gli infedeli. Ma nessuno vi si recò e Pio, non riuscendo a domare i Musulmani con la spada, cercò di convertirli con la penna. «Se tu» scrisse a Maometto II «dovessi farti cristiano, nessun Principe ti supererebbe in gloria o ti eguaglierebbe in potenza. Noi ti riconosceremmo Imperatore dei Greci e dell’Oriente, e ciò che hai ottenuto con la violenza e conservi con l’ingiustizia diventerebbe tuo legittimo possesso… Se tu ti unissi a noi, tutto l’Oriente si convertirebbe a Cristo e una volontà sola – la tua – darebbe pace al mondo intero.»

Maometto, sebbene qualcuno lo facesse nato da madre cristiana, non raccolse l’invito e il Papa richiamò alle armi i sovrani europei. Ma non ebbe più fortuna che col sultano. Solo Venezia rispose all’appello e mandò una piccola flotta ad Ancona dove, un paio di settimane prima, nel luglio 1464, era approdata quella pontificia, guidata dal Papa in persona. Quando Pio l’avvistò, provò tale emozione che ne morì. Con lui fu sepolto l’utopistico sogno crociato.

Il suo posto fu preso, col nome di Sisto IV, da Francesco Della Rovere, un ligure di umile famiglia contadina. Aveva assunto il cognome Della Rovere dopo aver fatto il precettore nell’omonima famiglia. Poco si conosce di lui prima dell’ascesa al Soglio. Sappiamo solo che aveva studiato filosofia a Pavia, a Bologna, a Padova, e che per un certo tempo aveva fatto l’insegnante. Quando, a cinquantasette anni, fu eletto Papa godeva di una vasta e meritata fama di erudito e di letterato. Non poté dedicare allo studio il tempo e le cure di Niccolò V e di Pio II perché il suo pontificato fu difficile e contrastato. Vagheggiò anche lui una spedizione contro gli Ottomani, ma l’accresciuta potenza turca lo dissuase dal porvi mano. Spese tutte le sue energie a rafforzare e ingrandire lo Stato pontificio e a ridurre all’obbedienza la facinorosa nobiltà e la riottosa plebe romana. Ci riuscì, ma si guadagnò l’odio dei sudditi, offesi anche dal suo sfacciato nepotismo. Forse solo Alessandro Borgia lo eguagliò nell’elargire uffici e nel distribuire rendite e prebende a congiunti prossimi e lontani. Nel 1471 elesse Cardinale il nipote venticinquenne Pietro Riario e gli assegnò quattro vescovati e un appannaggio annuo di sessantamila ducati. Nominò il fratello di Pietro comandante dell’esercito pontificio e un altro nipote prefetto di Roma.

Salendo al Soglio, aveva trovato le casse piene d’oro, ma in tredici anni le svuotò fino all’ultimo centesimo. Il denaro che non spese in guerra o non donò ai nipoti lo profuse in opere d’arte. Anche lui abbellì Roma, innalzò nuovi edifici pubblici e nuove chiese, restaurò e ampliò l’Ospedale di Santo Spirito, riorganizzò l’università. Legò il suo nome alla Cappella Sistina, di cui affidò il progetto all’architetto Giovannino de’ Dolci e la decorazione delle pareti al Perugino, al Signorelli, al Pinturicchio, al Ghirlandaio, al Botticelli, al Rosselli e al Cosimo, che vi raffigurarono scene della vita di Mosè e di Gesù.

Si circondò di umanisti e arricchì di oltre mille volumi la Biblioteca vaticana che già ne conteneva oltre duemilacinquecento; affidò al Regiomontano la riforma del calendario giuliano, rimasta incompiuta per la prematura morte del matematico; invitò a Roma Giovanni Argiropulo a tenere un ciclo di conferenze sulla letteratura greca e incoraggiò ogni iniziativa volta a diffondere la cultura e l’arte. Sognava di riportare l’Urbe ai fasti augustei ma nel 1484 la malaria lo uccise.

È a questi tre splendidi Papi che Roma dovette la sua rinascita. La Chiesa forse non ha verso di loro altrettanti motivi di gratitudine. Essi contribuirono in maniera decisiva a trasformarla in una vasta impresa artistica e culturale spostandone gl’interessi sul piano temporale e mondano a tutto scapito di quelli spirituali. Con loro il Rinascimento entrò nelle basiliche e nelle cattedrali dell’Urbe. Dio ne uscì.