30 ottobre,
nel Quartiere Latino alla facoltà delle Arti
«Che cosa vi porta, fiorentino, al nostro studium?» chiese il baccelliere che si occupava delle registrazioni e della riscossione dei premi per i maestri. «Sembrate un po’ cresciuto per cercare ancora il pane del sapere e il miele della saggezza», aggiunse poco convinto.
«Si dice che qui si trovino le menti migliori e gli ingegni più sopraffini nello studio della volta celeste. Voglio assaggiare di quel pane e di quel miele», rispose asciutto Dante, estraendo dalla borsa un pugno di monete. Ne porse alcune all’uomo, dopo averne contato con attenzione il valore.
«Carlini?» reagì l’altro, accettando il denaro senza entusiasmo. «Non avete dell’oro? Ducati, o fiorini? Siete fiorentino, avete detto.»
«Pensate che i fiorentini siano tutti doviziosi?»
«Quei ladri di mercanti che si aggirano per le strade di Parigi lo sono, sia dannata l’anima loro! E a me doveva capitare uno di voi spiantato!»
«Litterae non dant panem, e voi dovreste saperlo, se siete uomo di studi», replicò torvo il poeta.
Il baccelliere gettò le monete in una cassetta, con un grugnito. «Dunque facoltà delle Arti, schola Astronomica? Dal vostro aspetto vi avrei detto più da schola Theologica, alla Sorbona.»
«Dio alloggia in un cielo molto lontano. Meglio arrivarci per gradi, cominciando dallo studio dei corpi celesti più vicini.»
«Ma se non avete denari, che v’importa delle stelle?» replicò ostinato l’altro.
Il poeta esitò, trattenendo a forza tra i denti la risposta sprezzante che avrebbe voluto dare. Ma nel fondo dell’animo quella domanda lo aveva turbato. Quel compito che si era proposto, chiudere il poema con il grande affresco dei cieli, con l’ambizione di dare forma alla condizione dei beati e giungere fin sulla soglia della casa di Pietro, al cospetto della maestà di Dio, non era superiore alle sue forze? Come avrebbe saputo affrontare l’impresa, mai da nessuno tentata?
Nemmeno gli antichi, nemmeno il maestoso Omero e il padre suo Virgilio avevano osato tanto, limitandosi entrambi a scendere con il poetico metro verso le profondità infernali, a incontrare null’altro che le ombre di uomini e donne già vissuti. Non era il segno di un’ambizione smisurata la sua, questa di rubare il campo a maestri come Giotto e Cimabue, per rappresentare con le parole quello che loro avevano solo osato sfiorare? I cieli, i cori angelici, le beatitudini che ancora in modo confuso si agitavano nella sua fantasia, senza aver ancora ricevuto quella forma definitiva che avrebbero dovuto avere sulle pergamene, sarebbe stato capace di rappresentarli davvero? E crescere nella scienza delle stelle lo avrebbe potuto davvero aiutare, o quel viaggio in terre lontane non avrebbe fatto altro che alimentare un’altra illusione?
Visto che il poeta non rispondeva, il baccelliere aprì un brogliaccio che teneva sullo scrittoio. «Bene, il nome e la patria?» chiese intingendo la penna nell’inchiostro.
«Dante degli Alighieri, cittadino fiorentino natione non moribus.»
«Che intendete? Siete dunque fiorentino o no?»
«Sarebbe lungo a spiegare. Scrivete fiorentino e andate alla malora.»
L’uomo scrisse qualcosa, ignorando l’esclamazione. «Vi segno nella pars italica, allora. Quali sono le vostre abilità?»
«Sono teologo, filosofo, loico. E poeta, per quel che vale.»
«No, intendo abilità per mantenervi agli studi. Giocoleria, canto o ballo, suonate qualche strumento?»
«Mi prendete per un buffone?» sibilò Dante.
«Amico, la Sorbona non è tenera nei confronti dei pezzenti. Se foste un frate, francescano o domenicano, mandato qui dall’ordine, si saprebbe a chi chiedere per la retta da pagare ai maestri. Ma visto che siete laico dovrete pensarci voi. Ed è bene che vi rechiate per via, a dar mostra di qualche intrattenimento se volete tirar su qualche moneta», rispose l’altro facendosi avanti con il muso. «Capito, il mio loico?»
«La pars italica», reagì Dante spingendolo indietro con sprezzo. «Ha una sede, questa corporazione?»
«Certo, quella merita! In taverna!»
«In taverna?» ripeté Dante sorpreso, credendo di aver inteso male.
«In taverna, quella dell’Angelo, verso porta Sant’Antonio. Il ritrovo di tutti i perdigiorno, le donnacce e i tagliaborse di Parigi. E naturalmente degli studenti, o meglio dei servi di Golia, come amano chiamarsi tra di loro.»
«Ah... capisco», fece il poeta. Aveva conosciuto altre corporazioni di studenti, a Padova e a Bologna, e non dovevano essere molto diversi da quelli.
«Dove alloggiate?» chiese ancora il baccelliere. «Perché non è uso degli studenti di sdraiarsi per via, quello è costume riservato a pitocchi e accattoni della nazione. Le guardie di Filippo non sarebbero clementi con uno straniero.»
«Non ho ancora fermato un letto e uno scrittoio, che è tutto quello che mi abbisogna. Sapreste darmi indicazioni di un luogo adatto ai miei mezzi?»
L’uomo tornò a squadrarlo da capo a piedi, senza trascurare la piccola sacca delle sue cose. Poi scuotendo il capo emise un sospiro. «Il meglio per voi è l’hospitale di Jacques il calzolaio, verso il Tempio. Lì un letto e un pasto al giorno lo troverete di certo, grazie alla moglie madame Martine, che poi è la vera proprietaria del posto, e tiene il marito solo per pena e per schermo alla legge.»
«Dove si trova questo hospitale?»
«Nella parte nuova, oltre porta San Michele. Non è lontano. Sapete orientarvi nella città?»
Il poeta scosse la testa. «Non molto. So dei vostri monumenti dai racconti dei mercanti e viaggiatori. Ma per il resto ne ho solo visto qualche canto, dopo l’ingresso dalla via Francigena.»
Il baccelliere gli lanciò uno sguardo di commiserazione, poi parve impietosirsi. «Bene, non si può cogliere la maestosità della capitale di Filippo, la vera erede della grande Roma, al primo colpo d’occhio.»
«Siete mai stato a Roma, quella di cui la capitale di Filippo è erede?»
«No, ma credo che anche lì vi siano belle costruzioni.»
«Credete?»
«Di certo non grandiose come le nostre, ma simili nello stile, è ovvio.»
Dante avrebbe voluto liberarsi di un simile sciocco borioso, ma aveva ancora bisogno di lui. «Ditemi dunque come raggiungere quell’alloggio di cui avete parlato.»
«Ecco», fece l’altro con condiscendenza, traendo da sotto il braccio le tavolette incerate. Le allungò sotto il naso del poeta e con uno stilo tracciò rapidamente una linea orizzontale. «Questa è la Senna, e al centro l’Isola della Città, dove alloggia il nostro amato sovrano, e l’arciprete di Notre-Dame.» Poi incise un cerchio intorno. «Questa è la cinta delle vecchie mura, ma intorno è in costruzione un’altra molto più vasta. Sulla riva sinistra del fiume ci siamo noi, l’universitas, su quella destra la fortezza del Louvre e più oltre, verso settentrione, il monastero del Tempio. Ma da quello», aggiunse abbassando la voce, «da quello vi consiglio di stare alla larga. Come fanno tutti i buoni parigini.»
«Conosco gli ultimi fatti», disse asciutto Dante.
«E dunque l’hospitale di Jacques è qui», riprese il baccelliere, tracciando una croce in un punto vicino alla riva del fiume. «Chiedete della via di San Germano, non potete sbagliare.»
Dante afferrò le tavolette e dette un’occhiata attenta, cercando di imprimersi in mente lo schema generale dei luoghi. «Non sembra più grande della mia Firenze», concluse, restituendole al baccelliere con un’alzata di spalle.