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Dovevano essere passate alcune ore, quando pigramente i suoi sensi si risvegliarono dal sonno pesante che li aveva spenti. Sentiva ancora nel corpo i segni dello scontro sostenuto di recente, ma il riposo lo aveva in qualche modo rinfrancato e si sentiva lentamente rinascere a nuova vita.

La candela accanto al pagliericcio si era completamente consumata, e non v’era più traccia delle donne che lo avevano accompagnato nel sogno. Eppure continuava a sentire voci femminili, come se il sogno si fosse trasferito al di là della tenda che lo separava dal resto dell’ostello.

Lentamente prese coscienza di essere sveglio, con le figure del sogno e quelle della veglia tornate a distinguersi. Le voci che sentiva non provenivano dagli abissi del passato, ma erano quelle delle donne che lavoravano per Martine. E che la dolcezza quasi paradisiaca che aveva creduto di intendere nei loro dialoghi era solo un’illusione, svelata ora dai toni crudi e sgraziati della realtà di quelle voci.

Nella sua mente le immagini del sogno si disgregavano rapidamente, come polvere spazzata via dal vento. L’ultima a scomparire fu quella del volto di Miranda, che si immerse nel nulla con un ultimo lampeggiare dei suoi occhi.

Ma c’era un suono che come un’eco lontana resisteva, un nome. Urbano Galli. Perché aveva sognato quel nome?

Oppure davvero Miranda lo aveva visitato quella notte? E se non era così, da dove veniva quel nome?

Cercò disperatamente di richiamare alla memoria qualche altro particolare del sogno, ma era ormai irrimediabilmente perduto.

Rifletteva su quello che conosceva del mistero dei sogni, delle antiche tradizioni che li volevano voce degli dei, e del loro significato interpretato per primo dal grande Artemidoro. Ma nemmeno quel greco aveva saputo fornire una spiegazione della loro natura, e del loro rapporto con l’anima del sognatore. Se fossero lacerti del mondo diurno, mescolati in forme grottesche dall’animo perduto nel sonno, oppure il prezioso frutto di voci lontane, capaci perfino di profetare sul futuro, come pure molti credevano.

Quel nome che continuava ad agitare la sua mente poteva essere prova che davvero il sonno poteva schiudere la porta su mondi sconosciuti, strappando via il velame che la Natura distende sugli occhi per impedirci di conoscere quello che ancora non ci è rivelato? Come era fama degli spettri che sorgevano dal profondo a suggerire all’antica Pizia i suoi oracoli. E come era il sonno accanto al simulacro del dio il modo per schiudere le sue labbra e ottenerne le cercate risposte. Ma se questo era possibile prima della Rivelazione, come poteva accettare nel suo secolo che araldo della verità potesse essere una fanciulla, invece di un santo o un martire?

No, esisteva una guida, di cui era certo, il principio di Tommaso d’Aquino: Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. La nostra mente non può conoscere nulla che prima non sia stato oggetto dei nostri sensi. E dunque se nel sonno una lamia sorta nella forma di Miranda lo aveva pronunciato, significava solo che in qualche tempo egli quel nome doveva aver udito, o letto da qualche parte, un nome svanito dalla memoria e ora per qualche misteriosa combinazione ritornato.

Non sapeva chi fosse, ma certo lo aveva saputo, e certo lo avrebbe ricordato, prima o poi.

Intanto a quella voce ormai svanita continuavano a sovrapporsi al di là della cortina le voci delle donne di madame Martine. Voci quasi infantili per una pubertà appena violata, altre argentine con tutta la forza cieca di una giovinezza trionfante, altre gravate dal peso di anni trascorsi, più pesanti del piombo.

Parlavano dei loro amori prezzolati senza remora alcuna, con quella naturalezza sfrontata che è dote imprescindibile per ogni sventurata che si trovi a vendere il proprio corpo. E che in qualunque altro essere sarebbe degna di mortificazione, ma che in quelle donne era forse l’unica difesa che un animo nel profondo ancora fragile e gentile riusciva a trovare contro l’asprezza dei giorni.

Il poeta cercò di distogliere l’attenzione da quanto veniva detto, per una sorta di pudore, ma il tono delle voci e i continui scoppi di risa prive di allegria lo rendevano impossibile. Si alzò, ricomponendo le vesti stropicciate, deciso ad allontanarsi per spezzare quell’imbarazzo, quando una di loro esclamò ad alta voce: «Bei tempi, amica mia! Quei templari avevano sotto il mantello delle alabarde come quelle con cui montavano la guardia al Tempio!»

Una donna più matura era scoppiata in una risata sguaiata. «Vero, e senza vergogna di se stessi! D’altronde con tutto quell’oro avevano già detto addio al voto di povertà, e quello di castità è ancora più duro!» disse poi, con una voce arrochita dal vizio.

«Peccato, ormai dovremo cercarci uno sbarbatello di studente o qualche miserabile mercante», tornò a lamentarsi la giovane.

«E dire che io mi stavo per sistemare con uno di loro, un pezzo grosso», disse ancora la maggiore. «Di una certa età, ma solido ancora come si deve, in tutte le parti. E poi in alto nella loro conventicola, ti ho detto. Pensate...» seguitò abbassando la voce e sfiorando l’orecchio dell’amica. «Pensate che mi faceva persino entrare di nascosto nel Tempio...» disse ancora, portandosi la mano alla bocca e soffocando un nuovo scroscio di risa.

«Nel Tempio?» replicò incredula la giovane. «Addirittura? Ma dai!»

«Ti dico di sì! Be’, non proprio nella torre, ma in un luogo del monastero che non crederesti! Dozzine di gradini, per raggiungerlo, ma poi che posticino! Incredibile, marmi e colonne come in una chiesa!»

«Ed è lì che santificavate le feste?» la provocò la giovane. «E dopo tante scale, che alabarda il tuo templare!»

«Ma no, sciocca!» rise ancora l’altra. «Scale a scendere, non a salire!»

Dante aveva ascoltato distrattamente, curioso solo di quel riferimento al Tempio condito dal cicaleccio e dal tono volgare delle due donne, che in nulla nascondeva la loro natura perversa.

Ma ora quell’ultima frase gli era risuonata come un tuono nel cervello. Dunque nel Tempio non solo si saliva verso la sommità delle torri, ma anche si discendeva! E verso dove? Esisteva una cripta, e tanto profonda da richiedere ben dieci rampe di scale per raggiungerne il fondo? A meno che... il rovescio!

La donna aveva parlato di marmi e colonne. Esisteva forse un secondo Tempio, sotterraneo, che fosse speculare a quello che si ergeva orgoglioso verso il cielo?

Balzò in piedi e uscì da dietro la cortina. «Che dici, donna?» esclamò, afferrando per un braccio quella che pareva avesse parlato per ultima, e traendola a sé.

«Ah, il poeta! Il protetto di madame!» Non sembrava per nulla turbata dalla veemenza di Dante. Anzi, si arrese alla sua stretta quasi con voluttà, appoggiandosi al suo petto e agitandosi con le movenze di una gatta in calore.

«Che intendevi dire, con quella scala a scendere? Dov’è quel luogo di cui parlavi?»

«Cos’è, mio bel fiorentino, ti eccitano i luoghi sacri?» rispose lei ironica. «Ma non sei un templare, non puoi entrare lì. E adesso poi che anche i templari non ci sono più!»

«Parla, ti dico!» reagì il poeta. Era esasperato dall’impudenza di quella donna. Per un attimo fu tentato di colpirla, ma si trattenne, pensando alle conseguenze. Era una delle donne di madame Martine, una ricchezza per quella topaia. «Ti darò una moneta, se mi narri di quella tua avventura», disse invece, cambiando tono.

«Così ti piacciono le storie d’amore... Ti eccitano le cose segrete?» disse lei, tornando a sfiorarlo con le mani. «Ti farò rizzare la verga con quello che mi è capitato!» Quindi scoppiò ancora nella sua risata impudente.

«Smettila! Parla e ti pagherò, se quel che dici è vero.»

«C’è un ingresso, al di là delle mura, non lontano dalla porta del Tempio, dove il mio bello mi aspettava. Vestito del suo mantello bianco, uno spettacolo! Di lì un lungo budello nel terreno, e mentre andavamo stretti come un laccio di camicia, si prendeva un anticipo, un lavoretto di mano, per riscaldarsi.»

«Va’ avanti, donna.»

«Al fondo del passaggio c’è una porta di ferro, di cui il mio uomo aveva la chiave. Ah, una gran chiave aveva il mio uomo! E poi la scala che dissi. Un lunghissimo discendere verso il profondo.»

«Di qual foggia la scala?» chiese il poeta.

«Simile a una conchiglia attorta, con delle porte chiuse a ogni volta dei gradini. Scavata nella pietra. E scendevamo il mio uomo davanti, con la sua lucerna, e io dietro. E che bel sussurrare era il nostro! Tu, un poeta, avresti apprezzato i nostri versi!»

Una scala a foggia di conchiglia, quindi rotante intorno al proprio asse. Esattamente come quella che sale all’interno di una torre cilindrica... c’era una torre immersa nel terreno, sotto il Tempio? Anche la struttura esterna aveva l’accesso in una delle quattro torri angolari, e si accedeva al mastio attraverso porte a ogni livello...

I templari avevano edificato una copia inversa del Tempio, sprofondato sotto le fondamenta del primo?

La donna continuava a condire il suo racconto con allusioni sconce, ma il poeta non le badava più, la mente concentrata sulla connessione tra quella rivelazione e le ultime parole del templare morente.

Il Tempio, certo! Era quella la casa di tutti i templari. Ma ne poteva essere anche la tomba? Di sicuro, come tutti i monasteri di ogni altro ordine, una parte dell’edificio era riservata al seppellimento dei fratelli defunti. E dove? Nel suo rovescio? Sotto la costruzione dunque v’era una cripta, ma dalle dimensioni colossali, se era vero il racconto della donna, una replica capovolta dell’edificio esposto ai raggi del sole, come un’immagine nello specchio riproduce il corpo che si offra ai suoi raggi, ma con una bizzarra inversione.

Perché? Che cosa doveva essere nascosto alla vista? Forse davvero quello di cui favoleggiavano le dicerie sull’Ordine, oppure quegli strani culti cui erano accusati di offrirsi, calpestando e rinnegando l’originaria fede cristiana? Si diceva che durante la loro permanenza in Outremer essi non avessero solo ceduto alle mollezze orientali, ma anche adottato i costumi e la fede di genti pagane. E che perfino ne avessero scoperte di nuove, e portato con loro dalla fuga di Acri una misteriosa testa barbuta che essi adoravano con il nome di Bafometto.

Ma non solo questo, altri favoleggiavano di grandi tesori scoperti sotto le fondamenta dell’antico tempio di Salomone, e perfino del ritrovamento del santo Graal, la coppa che aveva accolto il sangue del Cristo sul Golgota.

«Cosa hai visto, negli incontri con il tuo amante?» tornò a chiedere il poeta. «Libri? Statue, oggetti sacri?»

«Per me, fiorentino, quel che vidi era un grande spreco di marmi e mattoni. E se quei monaci volevano un posto dove dar sfogo alla foia, potevano risparmiarsi tanta fatica», rispose la donna in tono sarcastico. «Lavoro sprecato, per farne un deposito di rottami.»

«Un deposito di rottami? Che intendi?»

«Ma sì, ruote, cataste di legno e ferri, carri abbandonati e chissà quali altre diavolerie, nascoste lì sotto come se a qualcuno importasse di quei rifiuti. Ruote con denti aguzzi, e cinte di ferro attorte, e sbarre segnate da spirali...»

«Cinte di ferro attorte? Ma vuoi dire molle?»

«Voglio dire quello che dico, che so io di molle?»

«Ma forse quel che hai visto erano macchine?» esclamò il poeta. Allora quello che aveva detto Bondie poteva essere vero, nello speculum era conservato un tesoro di sapienze, invece che di gemme?

«Macchine? Cosa sono?»

Il poeta esitò, davanti all’ingenuità della donna. «Un mulino, un argano per sollevare i pesi, un carro. Queste sono macchine!» gridò esasperato.

«Caro il mio fiorentino, so bene cosa siano un mulino, un argano e un carro. E là sotto non v’era nulla di tutto questo!»