«Ecco l’ingresso», annunciò la donna, arrestando il carro accanto al piede di una delle torri di cinta.
«Dove?» chiese il poeta, uscendo dal suo nascondiglio. Aveva compiuto tutto il percorso sdraiato sul fondo del carro, sotto una rozza coperta da cavallo. Come preannunciato da Martine, lungo la via si erano imbattuti un paio di volte negli uomini di Filippo, ma sempre Jean era stata fatta passare senza difficoltà. Usciti alla campagna al di là della porta del Tempio, la donna lo aveva guidato fino a un punto della scarpata di roccia su cui era stato eretto il muro di cinta della città.
Lanciò uno sguardo verso gli spalti, temendo che vi fosse qualche sentinella. Ma non vide nessuno, nemmeno una luce nei ricoveri in cima alle altre torri. Evidentemente il regno di Francia era tanto forte da non temere alcuna minaccia dall’esterno, sì da poter concentrare le forze sulla persecuzione dei nemici interni.
Balzò a terra, seguendo Jean verso la muraglia. La donna si immerse a fatica nel groviglio inestricabile di arbusti cresciuti tutto intorno. Procedettero fino a raggiungere il basamento.
«Io non vengo più avanti, pagami quanto promesso», disse lei.
«Non vedo nulla», replicò il poeta.
«Là, oltre quei rami!» rispose la donna indicando qualcosa al di là del cespuglio davanti a loro. «Pagami!»
Il poeta portò la mano alla piccola borsa appesa alla cintola e ne trasse una moneta d’argento, l’ultima rimasta. Come un animale selvaggio che si getti su una preda, la donna l’afferrò con un guizzo, la morse per accertarsi della qualità del metallo e poi se la nascose in seno.
Dante la vide quindi voltarsi e risalire con l’agilità di una gatta selvatica sul carro e sferzare il cavallo. Davanti, nel punto indicato, si apriva una spaccatura nella roccia, un’apertura naturale che in passato una mano umana aveva completato con dei rozzi colpi, conferendole l’aspetto di un arco grossolano. Forse uno scarico di liquami di una antica villa romana, abbandonato nelle epoche successive, e poi riscoperto dai monaci templari durante la realizzazione del loro nascondiglio sotterraneo.
Estrasse dalla borsa il grosso frammento di cero e l’acciarino che aveva portato con sé. Dopo pochi colpi dell’ancia d’acciaio riuscì a infiammare l’esca, e quindi lo stoppino.
Una luce calda e tremolante si diffuse tutto intorno, confermandolo nella prima impressione; il luogo dove si trovava doveva essere stato in origine uno scolo naturale, che l’opera dell’uomo aveva poi completato e adattato. Si mosse sul fondo umido e sabbioso, che si inoltrava diritto nella profondità del terreno.
L’aria era adesso più pesante, e un forte odore di terra si andava sostituendo a quelli aspri della città che si era lasciato alle spalle. La galleria continuava senza variazione e aveva percorso già alcune centinaia di passi senza scorgere ancora la porta di cui aveva raccontato la donna. Cominciava a temere che quella avesse inventato la storia al solo scopo di estorcergli un pezzo d’argento, quando intravide qualcosa più avanti, a malapena raggiunto dalla luce della candela.
Affrettò il passo, lasciando da parte ogni cautela, finché non fu giunto a ridosso dell’ostacolo. Era una porta, finalmente, ma di ferro e sbarrata. Fu preso dallo sconforto, mentre muoveva la candela lungo la sua superficie, alla ricerca di un punto debole. Doveva essere molto antica, però, e trascurata da tempo. Il metallo appariva corroso dalla ruggine, che l’aveva attaccato a fondo, aprendo dei fori qua e là. In più punti era praticamente ridotto al solo ossido, che si sgranava sotto le dita come carta bagnata.
Tornò a sperare. Con un po’ di fortuna gli sarebbe stato possibile aprirla. La donna non aveva fatto cenno a una chiave, nel descrivere le sue avventure con l’amante, ma forse non ce n’era bisogno.
Si appoggiò con la spalla contro l’anta e provò a spingere con tutte le sue forze. Lentamente la porta accennò a cedere, girando sui cardini corrosi fino ad aprire una fessura appena sufficiente a lasciar passare un corpo. Il poeta si insinuò nella strettoia incurante del dolore procurato dallo spigolo vivo della porta, e infine scivolò dall’altra parte.
Era riuscito a mantenere accesa la fiammella della candela, e alla sua luce scorse a pochi passi di distanza l’inizio di quella scala circolare di cui aveva parlato ancora la donna. Tutto sembrava corrispondere a quanto aveva comperato con quella moneta d’argento, pensò. Se anche il resto del racconto era veritiero, doveva ormai essere prossimo a penetrare nel misterioso Templum Inversum, e nei suoi segreti.
Iniziò a scendere, voltando intorno a un vuoto centrale in una discesa apparentemente senza fine, anello dopo anello di una spirale che sembrava avere le tenebre come punto d’arrivo.
Finalmente intravide qualcosa: sul fianco della scalinata si apriva un nuovo arco, forse il primo di quella serie di livelli di cui aveva parlato la donna. Alzando la candela sulla propria testa, si fece avanti nel nuovo spazio. Sentiva sotto i piedi una superficie regolare, che pareva ondeggiare appena sotto il suo passo. Doveva trattarsi di un tavolato, steso su lunghe travi che correvano da un lato all’altro del nuovo ambiente. Un’esatta replica di uno dei solai della torre che si ergeva all’aperto sopra la sua testa, a riprova di come la definizione di Templum Inversum fosse precisa. E nonostante la luce della candela fosse insufficiente a strappare alle tenebre la totalità dello spazio, la leggera eco che accompagnava ogni suo passo bastava come prova di quanto questo dovesse essere vasto.
Non v’era però traccia delle decorazioni fastose e delle colonne di cui aveva parlato la donna. Quello che riusciva a scorgere non differiva in nulla dalla scabra struttura di un qualunque edificio monastico, somma di legno, pietra e mattoni riuniti insieme per sfidare i secoli e non per gridare vanamente la gloria del costruttore.
Aveva percorso una ventina di passi, e la parete di fondo cominciava ad apparire. Ma c’erano degli oggetti voluminosi che si stagliavano contro la superficie di mattoni. Grosse casse, alcuni armaria e rastrelliere che alloggiavano decine di picche e lance di diversa foggia.
Si avvicinò incuriosito, sollevando il coperchio di una delle casse. Dentro, avvolte in pezze di tela bianca, giacevano dozzine di spadoni a due mani, e negli armaria erano appese in ordine altre dozzine di cotte di ferro e di elmi da battaglia. Si mosse verso la parete d’angolo e scoprì casse e contenitori di foggia analoga che erano allineati lungo anche quella. V’era di che armare un esercito, evidentemente quella doveva essere l’armeria segreta dell’Ordine, scampata alle ricerche degli uomini del re.
Dante continuava ad aggirarsi intorno, ammirando la qualità di tutti quegli strumenti di morte, forgiati nel migliore degli acciai. Un’arte che i templari dovevano aver appreso certo grazie ai loro contatti con i sapienti forgiatori di Damasco.
C’era ancora qualcosa che lo sconcertò: dei grossi tubi di ferro, rinforzati da bandelle, e alloggiati su una sorta di affusti di solido rovere. Il poeta si chinò su uno di essi, esaminandolo attentamente alla luce della candela. Per la prima volta si trovava davanti una di quelle nuove armi di cui favoleggiavano i mercanti che tornavano dalle lontane Indie, e che si nutriva della Voce del Drago, in grado di trasportare in Terra la potenza del tuono nei cieli.
Dante sapeva quali fossero gli effetti di quella diabolica mistura, per averli visti in uno dei momenti più drammatici della sua esperienza di priore in Firenze.* Ma quello che solo pochi anni prima era ancora un segreto custodito da un misterioso personaggio come Martino da Vinegia, ora pareva uscito dal laboratorio degli alchimisti, pronto a scendere sui campi di battaglia.
Accanto all’affusto giaceva una piccola piramide di sfere di quella che sembrava terracotta, ciascuna dotata di uno spezzone di corda che fuoriusciva da un foro sulla superficie. Anche lo spezzone appariva intriso di quella stessa polvere, destinato a trasmettere la fiamma all’interno con un ritardo sufficiente a permetterle di raggiungere un lontano bersaglio.
Trascorse ancora alcuni lunghi istanti a esaminare quei nuovi ritrovati per la guerra, pensando a come sarebbe cambiata l’arte bellica nel giro di pochi anni.
Ma non v’era traccia del misterioso artefice che si era nascosto dietro la persona di Benarriva, né di manufatti che potessero essere ricondotti a lui.