LA TORRE DEL LEONE

Appariscono le Segrete in fondo di torre. Un archivolto sopra due pilastri tozzi, aperto nella muraglia maestra, lascia scorgere il luogo della giustizia a traverso un saldo e rude cancello di ferro. Un’apertura verticale, lunga e stretta come una balestriera, è l’unico occhio del carcere; ma non vi passa alcun barlume, essendo ancor notte, poco innanzi mattutino. Quivi è il ceppo apprestato, e il giustiziero co’ suoi manigoldi e con l’altra sua gente; e i torchi v’ardono. Alcuno non è di qua dalla muraglia, di qua dall’arco inferriato. Chiuso è l’usciuolo che dal lato manco dà accesso a questa parte.

Ugo e Parisina sono di là dal cancello, in piedi entrambi, allacciati così che sembrano indissolubili. La voce di lei, nella gola che sta per esser mozza, è fresca come il giubilo dell’allodola.

PARISINA

Non odo più,

non odo più la stilla

del tempo che cadere

udivo nelle notti

senza riposo.

L’alba indovino.

UGO

Né odo il cuore;

ché non più sire

egli è delle mie vene.

Per la tua vita

accôrre, la mia vita

non ha confino.

PARISINA

Udito hai tu,

udito hai tu sul muro

della torre crosciare

la piova? Tutto è fresco,

tutto è mondato.

Or mi ricreo

come il fil d’erba.

E so che nel ciel ride

già la stella diana.

UGO

Passato è un tempo,

passato è un tempo

ch’io non posso più dire;

e quel che innanzi avvenne

e quel che dopo ancóra,

io nol viddi, nol seppi.

Forse or ti nasco;

e la morte, ch’è sopra,

par sì lontana.

PARISINA

Ah tu non sai,

non sai qual sia

nella tua bocca

la voce nova!

La volta cupa

ove risuona

sembra il segreto

antro d’un fonte.

UGO

Vedi che occhi

s’apron ne’ miei?

In me tu sali,

cresci qual mare

senza amarezza.

Il flutto è in sommo.

Non ho il tuo sguardo

sotto la fronte?

PARISINA

Tutte le lacrime,

ah tutte le mie lacrime

son divenute un sorso

d’acqua sorgente!

L’ho nella bianca gola.

Ho la più fresca

acqua del chiaro mondo

nella mia gola

che sta per sanguinare.

UGO

O mio fascio di foglie,

o mio fastello d’erbe,

dove ti porterò?

È più dolcezza

nella tua tempia,

in tra ’l ciglio e i capelli,

che in qualunque contrada

del chiaro mondo. Or dove

andrem noi dimorare?

PARISINA

Se tanto ardemmo,

se tanto ci struggemmo,

se fummo in tanto foco,

novel tempo d’ardore

pur nel mondo di giù

andrem noi ritrovare?

UGO

Non nel mondo di giù,

non nel mondo che rugge.

Detto l’hai. Tutto è fresco,

tutto è mondato.

O mio fastello d’erbe,

dove t’ho da posare?

PARISINA

Posami accanto al ceppo.

C’inginocchiammo

due volte. Anco due volte

bisogna, o bello

e dolce amico,

bisogna a noi due volte

i ginocchi piegare.

La prima nel peccato,

la seconda nell’onta,

la terza nella morte,

la quarta nell’eternità…

Per l’usciuolo ferrato irrompe con un grido Stella dell’Assassino, e la segue la sua donzella che ammantata resta contro lo stipite.

Fa cuore.

Quella che grida è la tua madre.

STELLA DELL’ASSASSINO

Figlio!

O figlio, dove sei?

dove sei? Non ti scorgo,

non ti trovo. Rispondi!

Rispondi! Cieca sono

di pianto. Dove sei? Tardi son giunta?

T’hanno ucciso? O carnefice, carnefice,

mozzato l’hai? Rispondi tu! Discendo

in un sepolcro? Tutto è spento già?

Ella va barcollando dall’ombra verso il chiarore dei torchi; urta le mani nel cancello, vi s’afferra, lo scuote; poi ficca il viso tra le sbarre e guata.

Ah, sempre ella ti tiene!

Disperatamente si sforza di scuotere l’incrollabile ferro. La coppia non si scioglie: annodata e fissa rimane, come escita dal senso, come già dipartita e lontanissima.

Figlio, figlio,

io, io sono! Non m’odi?

non mi conosci?

Dinanzi al silenzio si smarrisce. Le sue mani incerte vagano sul suo volto scavato dall’ombra.

Ah, questo è sogno, questo

è sogno, o sortilegio,

o somiglianza di follìa. Che mai?

Certo, ah certo, incredibile

è ch’io m’abbia il mio senno,

e pur ch’io viva.

Ma vivo, e guardo, e vedo. Questo è ferro.

Alcuna cosa dunque

v’è più chiusa di questa,

v’è più sorda del muro,

più cruda della morte,

per separare dalla madre il figlio,

la carne dalla carne, me da te?

Ancóra ella ficca tra le sbarre la faccia, e ansa come appesa a ordigno di tortura.

O legamento d’Inferno! Se più

ti chiamo, più la serri! Come più

grido, più ti nascondi!

Quanto più mi dispero,

più ti profondi in lei!

O svergognata femmina, che gli hai

tu fatto? E tu,

e tu da chi sei nato?

Da leonessa, è vero!

E feroce è il tuo padre,

preghiere non ascolta,

suppliche non esaude;

ma da tre giorni e da tre notti rugghia

di strazio, senza tregua,

in sommo della Torre,

come leone;

e la città s’insanguina

del suo dolor selvaggio.

Aldobrandino è spento.

Non vedi tu che il sangue

del tuo fedele

col sangue delle adultere sgozzate

or gronda sopra a lei,

le cola per la gota che tu premi?

E ribrezzo non hai? Sciogliti, slàcciati,

da te scacciala, salva

l’anima tua!

Ella grida e s’agita invano come sopra lapide di tomba che non rende il sepolto.

Ma volgi il capo, volgi

almeno il capo, guardami una volta

sola! Chi ti son io?

Chi sono?

Il furore la solleva e la moltiplica.

Scrollerò

il ferro, torcerò

le sbarre, strapperò

i serrami. Ho la forza

di mille. O mala femmina,

lascialo! Ti comando

di sciogliere il mio figlio!

Il furore la strozza e l’accascia. I ginocchi le mancano, e i gomiti. Ella cede, s’umilia.

Ebbene, sì, tu l’hai.

Tu me lo prendi,

tu me l’uccidi,

tu me lo danni. È tuo.

L’hai suggellato in te

meglio che nella pietra

del sepolcro. Ma rendimelo

per un attimo solo,

ch’io lo baci e riversa piombi giù!

Rendimelo pel bacio d’agonia!

Sì, forte sei. Te lo dico. Più forte

sei della morte. È tuo,

tuo. M’inclino, mi piego,

imploro. È tuo per sempre.

Lo so. Perdono

ti chieggio d’ogni grido.

Ma sol voglio baciarlo,

toccare il suo mento

e i suoi capelli,

guardarlo per un attimo

negli occhi, e nulla più.

Parisina abbandona le braccia lungo i fianchi e un poco discosta il viso. Ma l’amato non allenta la stretta; anzi è come colui che, giacendo su la bocca, prende l’origliere co’ due pugni per più profondarsi nel nero sonno.

PARISINA

Vedi, non io lo serro

e non io tel diniego,

madre. Santa mi sei,

però che di te nacque.

E fammi perdonanza,

se puoi. Donami pace.

Ma forse non udita

da lui fu la tua voce;

né forse ei l’ode ancóra;

ché già, quando apparisti,

èramo là

d’onde non più ritorna

né più si volge

l’anima innamorata.

Dolcemente ella solleva il capo dell’inconsapevole, disnodargli tenta le braccia tenaci.

Intendi, o dolce amico.

Venuta è la tua madre

all’altra riva

per donarti commiato.

Convien che tu ti volga,

che incontro a lei ti muova

e che l’acqua rivarchi.

Egli sospira dal profondo, come rioppresso dalla nuvola del suo corpo.

UGO

Ah, soffro!

LA MADRE

O figlio!

PARISINA

Va.

UGO

Ah, perché soffro?

LA MADRE

Figlio!

PARISINA

Va.

UGO

Tu mi tieni.

PARISINA

No. Va.

Ella lo sospinge. Penosamente egli si muove come vincolato. I suoi occhi sono socchiusi come quelli che temono esser feriti o non sanno fugare il sopore. La sua voce è come di fanciullo smarrito, quella di Parisina è come soffio di persuasione.

UGO

Vieni. Accompagnami.

PARISINA

Va, va.

Egli s’arresta, quasi che da grande fatica estenuato sia per tentar di rompere il legamento invisibile. Chiama come in angoscia mortale.

UGO

Non posso. Parisina!

Con tutta l’anima abbrancata al ferro che non si crolla, la madre protende le labbra verso lui.

LA MADRE

O figlio,

o figlio, vieni, vieni!

Egli non più s’avanza. Non può giungere fino a lei. Non può ricevere il bacio materno. Altri suggellò le sue labbra per l’amore e per la morte. Chiama ancóra dal profondo; e si rivolge. E di sùbito la forza gli si riprecipita nelle vene, per gittarlo ancóra sul petto dell’invitta amante.

UGO

Parisina!

Dalla disperazione materna erompe un urlo inumano. Parisina prende tra le palme la faccia del morituro e l’affisa. Poi lieve inviluppa in un drappo nero il bel capo che dev’essere mozzato. Mentr’ella fa l’atto di condurre la vittima verso il ceppo, il giustiziero muove un passo, la scure brilla. Esala il grido estremo la madre, e cade riversa. Si scorge Ugo inginocchiarsi dinanzi al ceppo e di contro a lui inginocchiarsi Parisina, togliergli d’intorno al capo il drappo, ancóra prendergli tra le palme il capo e quivi sul ceppo tenerlo sotto il colpo imminente.

Per la balestriera entrano il barlume dell’alba e il segno fioco della Salutazione angelica.

EXPLICIT TRAGOEDIA

Nelle Lande di Guienna,

marzo, 1912.