Cosa succede nella testa dei bambini nei momenti difficili
Nella notte era suonato il telefono. La notizia della morte di mia sorella per un incidente automobilistico mi ha colto così di sorpresa da farmi quasi perdere i sensi. Ero sconvolta. Dopo un attimo di torpore e silenzio, che mi è parso un’eternità, ho cominciato a piangere e singhiozzare. Mio marito è subito corso da me, spaventato anche lui. «Cosa è successo?» mi ha chiesto. Non riuscivo a dirgli niente. Piangevo e singhiozzavo. «Calmati, così svegli il bambino» mi ha ingiunto.
Il bambino? Non ci stavo pensando. Oh mio Dio, se mi vedeva in quello stato cosa avrebbe pensato? E come avrebbe potuto, lui che ha solo 6 anni, reagire alla notizia che la sua adorata zietta, quella che lo portava al parco giochi, quella che gli leggeva le storie più belle, non ci sarebbe più stata nella sua vita?
Furono questi pensieri a rimettermi subito in uno stato più regolato e consapevole. Mentre riprendevo il controllo e mi vestivo in tutta fretta per correre all’ospedale dove avevano trasportato il corpo di mia sorella, dissi a mio marito di non dire nulla al bambino quando la mattina seguente si sarebbe svegliato. «E cosa gli rispondo se mi chiede dove sei andata? Ci sei sempre tu al mattino per la colazione e per accompagnarlo a scuola…» «Digli che c’è stata un’emergenza di lavoro e che sono stata chiamata per gestirla.»
Quel giorno feci di tutto per presentarmi al cancello di scuola a metà pomeriggio in orario per riprenderlo all’uscita dalle lezioni. Era stata una delle giornate più brutte della mia vita, ma riuscii a indossare un sorriso di ordinanza e a far finta che tutto fosse come al solito. Nelle ore seguenti il mio cellulare scottava per le telefonate ininterrotte di amici, parenti e colleghi che volevano farmi le condoglianze, sapere che cosa era successo. A qualcuno rispondevo chiudendomi in bagno. Altre le lasciavo squillare senza dare risposta. Ero seriamente intenzionata a proteggere il bambino da tutto quel cancan, quel dolore, quello sgomento.
Fu una scelta sbagliata.
Non gli dissi niente, non lo portai al funerale, ma in quei giorni concitati chiesi aiuto a una mamma della sua stessa scuola, affinché potesse tenerlo al pomeriggio a giocare e studiare con il suo compagno.
Dopo due settimane, un pomeriggio, uscendo da scuola, mio figlio mi fece una scenata terribile proprio sul cancello. Urlava, gridava e mi dava pugni con violenza di fronte a tutti gli altri genitori, che assistevano increduli a ciò che stava accadendo. Io non comprendevo che cosa fosse successo e ci ho messo più di un’ora per portarlo a casa e calmarlo. «Tu lo sapevi che la zia era morta. Non mi hai detto niente! Perché? Perché?» Un compagno gli aveva riferito quello che aveva sentito nella conversazione di sua madre al telefono con una sua amica. Parlavano di mia sorella, del suo incidente. Parlavano anche di mio figlio, dicendo che, per quel che ne sapevano, lui non era stato informato di nulla. Quel compagno aveva raccontato tutto al mio bambino, senza accorgersi del trauma che gli stava procurando. E che poi, lui, ha subito manifestato con me all’uscita da scuola. Per riuscire a tornare in una situazione di equilibrio, abbiamo dovuto raccontargli tutto, per filo e per segno. Abbiamo dovuto mostrargli le fotografie del funerale che un giornale locale aveva pubblicato a commento della notizia del terribile incidente. Abbiamo poi dovuto portarlo al cimitero, dove è stato per me terribile vederlo piangere disperato. Tornati a casa, ha voluto fare un disegno per la zia e il giorno dopo, finita la scuola, ha voluto tornare per lasciarglielo sulla tomba. Si è definitivamente calmato dopo aver compiuto questo gesto. È ritornato sereno. Ho pensato a lungo, dopo la crisi del mio bambino, a cosa non aveva funzionato in questo momento terribile della nostra vita familiare. Posso dirlo con tutta tranquillità: l’errore è stato mio. Avrei voluto non fargli provare un dolore che invece per lui era inevitabile – e anche necessario – provare. Ora lo so.
Questa è la testimonianza di Carolina, mamma di Pietro, che ora ha 9 anni. La loro storia è emblematica dei molti argomenti di cui tratta questo libro, perché ci testimonia che, quando dobbiamo parlare di temi emotivamente intensi e di particolare pregnanza con soggetti in età evolutiva, noi adulti abbiamo grandi responsabilità. Dobbiamo sapere cosa dire e come comunicare ciò che mettiamo al centro dei messaggi che rivolgiamo ai bambini. Non è un compito facile. Molti di noi hanno avuto genitori che hanno trasformato in tabù gli stessi temi che noi desideriamo invece inserire nel progetto educativo familiare. Se da bambini non abbiamo avuto modo di sperimentare interventi competenti ed efficaci da parte degli adulti che erano per noi un riferimento educativo, ci mancheranno, nel nostro mondo interno e nella nostra memoria emotiva, un esempio e un modello cui ispirarci. In tal caso, molti adulti tendono a ripercorrere la stessa via del silenzio da cui provengono, riproponendo ai propri figli l’esperienza delle «parole non dette» vissuta in prima persona quando erano bambini.
Altri adulti – e voi probabilmente siete tra loro, visto che avete questo libro tra le mani – decidono invece di produrre un cambiamento, di rivoluzionare la «legge del silenzio» che hanno subìto quando erano bambini.
In questo secondo caso, però, bisogna «attrezzarsi», ovvero bisogna «imparare sul campo» il cosa e il come.
Come riusciamo a parlare con i bambini di temi dolorosi
Sapere cosa dire è molto importante, perché in relazione a temi che riguardano aree così importanti della vita – come le relazioni familiari, il lutto, la separazione dei genitori – le parole fanno la differenza e comunicano, a chi è più piccolo, che gli adulti hanno il desiderio di «costruire» il mondo dei significati, stando al loro fianco, rispondendo alle loro domande, non negando e non fuggendo dai temi che possono sembrare ostici e apparentemente difficili da affrontare. Molti di noi, da bambini, hanno provato a sollecitare genitori e insegnanti per ottenere informazioni e spiegazioni sulle grandi questioni della vita. Ma spesso, tutto quello che ci è stato risposto consisteva in frasi elusive o dismissive del tipo «Non sono cose adatte a te», oppure «Te lo dirò quando sarai più grande», o ancora il tipico «Sei troppo piccolo per queste cose». Risposte di questo genere sono vuote di «parole» e perciò testimoniano che l’adulto non sa cosa dire (o preferisce non dire); inoltre, generano la prima «distanza» tra adulti e bambini e insegnano a questi ultimi che i grandi spesso non sanno essere i riferimenti educativi in aree in cui invece sono assolutamente necessari.
Il secondo aspetto importante è che gli adulti potrebbero anche sapere «cosa» dire a un bambino, ma potrebbero sbagliare il «come». Ovvero, mentre stanno dicendo la cosa giusta, il loro stile comunicativo e il loro modo di stare con l’interlocutore testimoniano una fatica, una difficoltà, un disagio sul piano emotivo che possono a loro volta generare confusione e ambiguità sul piano emotivo di chi ascolta, e quindi invalidare il messaggio che stanno comunicando.
RIFLETTI. Dove ho imparato le parole per dire
Provate a ripensare a quando, da bambini e preadolescenti, vi siete confrontati con degli adulti che stavano cercando di parlarvi di temi difficili come la morte o la separazione (che vi riguardavano personalmente o che coinvolgevano persone a voi vicine).
Che ricordo avete di quelle comunicazioni?
Quali erano le vostre sensazioni?
Oppure, provate a ricordare i momenti in cui gli adulti hanno cercato di dirvi cose che erano chiaramente bugie, con lo scopo di non esporvi a delle verità scomode.
Come vi siete sentiti in quelle situazioni?
Che cosa avete pensato dell’adulto che stava parlando con voi, generando confusione?
In che misura questo ha influenzato il rapporto di fiducia con quell’adulto? Si è modificato dopo quelle comunicazioni così destabilizzanti e poco efficaci?
In questo senso, noi adulti, in particolare se genitori, abbiamo bisogno di competenze comunicative ed emotive tali da renderci, agli occhi dei nostri figli (o dei nostri studenti, se siamo docenti), interlocutori affidabili e autorevoli. Queste competenze ci servono anche per evitare di compromettere la fiducia che hanno in noi, mettendo a repentaglio la credibilità che ci siamo conquistati nel corso della loro crescita.
Il nostro modo di comunicare, le nostre reazioni emotive, la compostezza con cui accompagniamo le spiegazioni che forniamo su temi complessi e difficili, la visione del mondo e il senso di sicurezza che sappiamo trasmettere mentre facciamo tutto ciò: è questo il messaggio principale che arriva alla mente del bambino e che, in automatico, si traduce nel codice emotivo con cui il minore interpreterà il senso e la portata degli accadimenti.
Detto in altre parole: il genitore, l’adulto di riferimento, la persona che fornisce attaccamento e accudimento al minore, grazie al proprio senso di sicurezza e autocontrollo aiuterà il bambino a sentire che – anche quando la nave è in tempesta – al timone c’è un pilota di cui ci si può fidare e a cui ci si può affidare.
I più piccoli hanno già sperimentato molte volte e in situazioni concrete questo principio educativo. È la stessa cosa che succede quando un bambino cade mentre sta correndo o camminando. Spesso, prima di capire quale reazione emotiva avere, si volta verso l’adulto di riferimento. Se incontra un volto calmo e rassicurante, che sa dire parole tranquillizzanti, allora si rialza e riprende la sua corsa. Se, al contrario, il volto dell’adulto comunica preoccupazione e ansia, il bambino subisce una vera e propria battuta d’arresto e percepisce un senso di disagio e pericolo, che lo potrà portare a piangere anche se non si è fatto male per davvero. Questo esempio dimostra che l’adulto deve sentire la responsabilità di accogliere il bambino con il suo stato di attivazione emotiva e, senza negare nulla, gli deve fornire codici affettivi e interpretativi capaci di dargli una visione realistica e autentica del mondo che lo circonda, e di trasmettergli un senso di protezione, autorevolezza e affidabilità.
COME FARE. Come mantenere la calma in una situazione emotivamente molto forte?
Mantenere la calma quando tutto ci porterebbe a fare l’esatto contrario, ovvero arrabbiarci, allarmarci, spaventarci, non è facile. Ma se siamo adulti e di fianco a noi c’è un minore, non dobbiamo mai dimenticarci che questo per noi diventa un dovere. E per lui un diritto.
Come si fa a mantenere la calma? Se abbiamo una buona capacità di autoregolazione emotiva questo ci risulterà già abbastanza naturale. Avere un’espressione calma significa lavorare su tre aspetti fondamentali:
- il tono di voce, che deve essere sempre regolato e senza eccessi di emotività (evitare di avere una voce spezzata dal pianto, affranta, indebolita);
- la postura del corpo, che deve rimanere aperta, rilassata e accogliente. Appena sentiamo un irrigidimento in un distretto corporeo è bene che, chiudendo gli occhi e respirando profondamente, visualizziamo nella nostra mente quella specifica zona e, sfruttando il controllo che ci viene fornito dai nostri respiri regolari, piano piano sciogliamo lo stato di tensione muscolare;
- l’espressione del volto. È il nostro viso, con le sue infinite micromodificazioni involontarie, che dà informazioni sullo stato emotivo da cui veniamo «abitati» in alcuni momenti. Quindi è importante chiedersi: qual è l’emozione che il mio volto comunica agli altri in questo momento? Diventare consapevoli delle emozioni che mostriamo agli altri ci permette di avere maggiore autocontrollo e di poter «dare il meglio di noi» soprattutto all’interno di relazioni in cui c’è un minore che va protetto e sostenuto.
Integrare i due emisferi del cervello: come le neuroscienze ci aiutano a sostenere la crescita dei nostri figli
Noi adulti, con le nostre reazioni emotive, spesso precipitiamo i bambini in «gorghi» emotivi dai quali fanno fatica a riemergere. Trasferiamo su di loro emozioni che non siamo in grado di risolvere ed elaborare dentro di noi, dove le informazioni verbali e le narrazioni esplicite (ovvero ciò che comunichiamo con le parole) si mischiano con le informazioni e le narrazioni implicite (ovvero con tutto ciò che parola non è, ma che accompagna le parole, come espressioni del viso, stati emotivi, linguaggio corporeo, tono della voce, velocità o lentezza dell’eloquio). Tenere insieme gli elementi formali ed espliciti (le parole) con quelli informali e impliciti (tutto il resto) implica un lavoro di integrazione tra i due emisferi (destro e sinistro) che compongono il nostro cervello, e che sono collegati attraverso una struttura composta da fibre nervose chiamata «corpo calloso».
Emisfero destro e sinistro sanno lavorare in modo autonomo, percepiscono e decodificano gli elementi esterni in modo differente, ma la nostra esperienza mentale, derivante dalla percezione degli stimoli esterni, è il risultato dell’integrazione da essi compiuta. Un dato proveniente dall’ambiente, infatti, attiva contemporaneamente aree cerebrali che lavorano in modo sintono e sincrono, producendo un’esperienza mentale che, per il soggetto, è la sintesi automatica dei processi che si verificano nella zona destra e sinistra del cervello. Ogni emisfero ha la sua specializzazione e il suo modo unico di gestire l’informazione che va a elaborare. L’emisfero sinistro si affida alla parte testuale dello stimolo, analizza e decodifica le parole implicate e si concentra su ciò che viene detto. L’emisfero destro è invece più focalizzato sull’elaborazione dei dati di contesto, ovvero gli elementi di sfondo, i toni e le atmosfere.
Quando si è bambini spesso è l’emisfero destro a fornire i riferimenti più importanti per comprendere e analizzare ciò che sta succedendo. Sin dalla nascita, infatti, il bambino affida la sua percezione del mondo non alle parole che gli vengono dette ma allo stile, al modo con cui gli adulti si relazionano con lui, interagiscono e si prendono cura dei suoi bisogni. Ecco, perciò, che per un bambino spaventato da un rumore improvviso che lo ha svegliato di notte risulta molto più tranquillizzante un adulto che lo guarda in silenzio negli occhi e gli sorride, rispetto a un adulto che, stando in un’altra stanza, gli spiega che è caduta una mensola carica di libri e che perciò non si deve preoccupare. Se quest’ultima spiegazione può essere di aiuto per un preadolescente – che è in grado di decodificare rapidamente il significato di quanto gli viene detto e di regolare la costruzione dei significati a livello intrapsichico facendo leva sulle sue competenze cognitive –, non vale invece per un bambino piccolo che, non potendo ricorrere al pensiero astratto, necessita invece di una porta di accesso «emotiva» fornitagli dall’adulto per placare in fretta il suo stato di sregolazione. In questo senso, un adulto calmo che lo guarda negli occhi sorridendo gli restituisce in un istante la percezione che il mondo fuori è un posto sicuro, anche se il forte rumore che lo ha svegliato all’improvviso ha momentaneamente messo in crisi questa convinzione profonda.
Per comunicare con i bambini in modo efficace e coerente, un adulto deve prima di tutto sentire di poter conquistare uno stato di tranquillità sufficiente per sé. I temi di cui si occupa questo libro implicano un forte coinvolgimento emotivo, e spesso attivano in chi parla e in chi ascolta reazioni profonde e inaspettate. Se un bambino che si sente comunicare una notizia dolorosa può avere reazioni sregolate e fuori controllo, questo non dovrebbe invece avvenire nell’adulto che gliela fornisce. Il che non significa che l’adulto debba presentare i fatti in modo emotivamente sterile e asettico, bensì che sappia mettere in gioco ciò che sente senza mai esserne in balia e perdere il controllo. È importante che, quando è in relazione con un bambino, l’adulto non finga e non reciti, bensì che proponga uno stato di «sé» in cui, seppur in condizioni faticose, sa comunque mantenere un buon livello di autoregolazione e autocontrollo.
RIFLETTI. Quanto sono in grado di controllare le mie emozioni?
Quando siamo in balia di un’attivazione emotiva molto forte, può essere utile sostare per un po’ di tempo davanti a uno specchio e osservare la nostra immagine riflessa. Partendo da quello che vediamo, possiamo, dentro di noi, provare a cambiare il nostro vissuto emotivo attraverso un dialogo interiore che ci tranquillizzi e ci aiuti a tornare nella situazione di calma e di autocontrollo.
Conoscere la diversità di funzionamento e decodifica dei due emisferi cerebrali è di grande importanza per un adulto, perché lo aiuterà a comunicare in modo efficace con un bambino, in particolare se bisogna dare informazioni su eventi o fatti che possono provocare ansie, timori o paura.
È alla luce di queste informazioni che l’adulto può comprendere perché è importante seguire, nella relazione e nella comunicazione, un copione che usa parole adeguate per descrivere tutto ciò che ci si trova a vivere e sperimentare, non limitandosi ai soli fatti oggettivi, ma provando anche a raccontare i correlati emotivi di quei fatti (ovvero come mai ci sentiamo in un certo modo, perché si attivano dentro di noi quelle specifiche emozioni, ma anche quali risorse abbiamo a disposizione per far fronte a una situazione complessa o dolorosa e quindi perché si può rimanere «al sicuro» nel qui e ora della nostra vita).
Il bambino non ha parole per descrivere i propri stati mentali, l’adulto sì. Ed è per questo che spetta a lui farsi carico di traghettare il piccolo in ansia o spaventato da un territorio in cui tutto sembra caotico e inspiegabile verso una zona dove, pur non potendo cambiare ciò che è successo o sta succedendo, il bambino può guardare al qui e ora, e soprattutto al futuro, con un relativo senso di sicurezza e fiducia, percependo che l’adulto sa proteggere, confortare, spiegare e accogliere tutto quello che per lui rappresenta un «peso sul cuore».
Il potere del cinema come spazio per l’integrazione
È scientificamente provato che il cinema può avere una funzione terapeutica. Questo è vero in tutte le fasi della vita. Le storie narrate nei film permettono agli spettatori di identificarsi con i personaggi, di sentire le loro emozioni e di approfondire in qualche misura la conoscenza di sé. Mentre vediamo un film, oscilliamo di continuo tra immedesimazione e distacco. È come se viaggiassimo vicini alle nostre parti più caotiche, ma a una distanza di sicurezza che ci permette di non sbatterci contro. Se scegliamo un film che tratta temi che ci toccano, il nostro processo di identificazione potrà essere anche molto forte, ma comunque, per quanto vicina a noi, quella non potrà mai essere la nostra storia. Non siamo noi i protagonisti, e di conseguenza non siamo in pericolo. Possiamo avvicinarci alle nostre emozioni, anche a quelle più intense, e metterle in gioco su una storia che non riguarda noi.
Guardare un film è sempre un’esperienza che ci rivela qualcosa in più di noi stessi.
Al termine della Parte prima del volume abbiamo dedicato un capitolo all’analisi di alcuni film che affrontano il tema della morte e del lutto, mentre al termine della Parte seconda ne abbiamo dedicato un altro a film incentrati sul tema della separazione.
È ovvio che quando il dolore è troppo vivo non è il caso di gettare altra benzina sul fuoco. Se si è straziati dalla perdita di una persona cara, non è il caso di vedere un film che porta a vivere ancora più intensamente la disperazione. Ma il cinema ha ben altre potenzialità. Un film può aiutare chi si è chiuso in se stesso, chi fatica a tirar fuori il proprio dolore o le proprie paure. Se guardo un film con qualcuno, tra noi si crea un ponte comunicativo, una condivisione delle emozioni che può essere la base per un dialogo profondo. È come se avessimo condiviso qualcosa di importante e intenso, e ci trovassimo nella condizione di riuscire a parlarne con più facilità. Il film diventa così un ottimo riscaldamento al dialogo, all’empatia e all’espressione delle emozioni. Mentre guardiamo un film, il nostro corpo ci comunica infiniti messaggi, alcuni dei quali sono visibili anche all’esterno. Se ci commuoviamo o se ci mettiamo a ridere, lasciamo uscire quello che sentiamo dentro. Le emozioni a volte possono diventare contagiose.
Abbiamo scelto dei film per ampliare il lavoro su questi temi complessi. Abbiamo indicato dei titoli per gli adulti e altri che possono essere visti con i bambini. Non ci sono regole rigide su come valorizzare i contenuti del film nella relazione con un minore. L’indicazione generale è quella di condividere la visione, provare a capire quanto il bambino si sia sintonizzato su ciò che ha appena visto e poi cercare di indagare le emozioni che ha provato. Si inizia sempre dal vissuto: Quando ti sei emozionato? Cosa ti è piaciuto? Cosa no? Che personaggio ti è piaciuto di più? Quale meno? Perché?
A partire dalla risonanza generata dalla visione è possibile allargare il pensiero all’esperienza: Questo film ti ha fatto pensare a qualcosa che hai vissuto anche tu? Come ti sei sentito? Ti ha suscitato qualche riflessione? Hai imparato qualcosa?
A volte, dopo un film molto intenso, non si ha voglia di dire niente. Serve silenzio per far decantare le emozioni. Non è un fatto negativo. Può essere che a distanza di tempo si riaccenda nella mente un’illuminazione, magari proprio stimolata dalla pellicola, che ci aiuta a tenere insieme i pezzi della nostra vita. Vedere insieme un film è l’occasione per stare vicini e creare un contatto. Già questo ha un immenso valore, nei momenti difficili e non solo.