Capitolo ottavo

Scrivere il destino

Proviamo dunque a trarre le prime conclusioni del nostro discorso, riprendendo in mano il tema da cui siamo partiti: il destino inteso alla maniera di un fatum o di fata, ossia come un «detto». Come abbiamo visto i fata – «parola potente» – vengono talora messi in bocca a un vates, a un indovino, mentre i poeti – Virgilio e Stazio – e i loro interpreti ci presentano il fatum o i fata come «detti» pronunziati dal padre degli uomini e degli dèi. Varrone invece, con Orazio e Catullo, affida il compito di enunciarli alle Parcae, ovvero ai Tria Fata, come li chiama Gellio (divinità di cui abbiamo avuto anche modo di seguire le complesse vicende), senza dimenticare le Carmentes. A seconda delle diverse rappresentazioni culturali, dunque, il locutore del fatum, ovvero dei fata, può mutare identità – la parola determinante passa dalle labbra dell’indovino a quelle di Iuppiter, delle Parcae, dei Tria Fata, delle Carmentes. Resta il fatto però che da una volta all’altra il «destino» viene a coincidere, sempre e comunque, con un «detto», che i Romani sentono originato da una fonte divina. Il destino è rappresentato come una parola potente, talora un «canto», che emana da un’agency superiore in un momento che può sí coincidere con quello in cui un vate ispirato emette o ha emesso il proprio responso; però può anche collocarsi esplicitamente al momento della nascita, come accade quando a determinarlo sono le Parcae o le Carmentes, oppure risalire a chissà quando, parola persa nelle nebbie di un tempo appartenente solo agli dèi che la detengono. Il fatum è un «detto» divino di cui, se si è fortunati, è possibile venire a conoscenza tramite un indovino o l’interpretazione di un oracolo contenuto nei Libri Sibyllini. Oppure si tratterà di una «parola» che le orecchie degli interessati non riusciranno mai a udire, né la loro mente riuscirà mai a conoscere – salvo che essa sarà stata comunque pronunziata una volta per sempre e risulterà non meno determinante per la loro vita. Adesso però è venuto il momento di rivolgerci a una nuova, e ultima, incarnazione del fatum e dei fata dei Romani: li vedremo infatti realizzarsi non piú attraverso la potenza della parola parlata, ma con l’ausilio delle pratiche scrittorie.

1. Gli archivi del destino.

Con il passare del tempo, infatti, quando anche a Roma la scrittura si sarà ormai stabilmente impadronita delle rappresentazioni culturali, anche le Parcae si adatteranno al nuovo regime, abbandonando la vocalità della parola per abbracciare la fissità dell’alfabeto1:

Va’ pure dentro la casa delle tre sorelle [dice a Venus lo Iuppiter delle Metamorfosi ovidiane] e lí potrai vedere l’immenso archivio del mondo (tabularia rerum), costruito in bronzo e solido ferro, che non teme né il tremare del cielo né l’ira del fulmine né – sicuro ed eterno – le rovine del mondo. Vi troverai incisi su metallo indistruttibile (adamante) i destini (fata) della tua stirpe. Io li ho letti, li ho imparati a memoria e te li riferirò (legi ipse animoque notavi / et referam) perché tu non sia piú ignara del futuro.

Ovidio ci fa assistere a una scena alquanto sorprendente. Da divinità profetiche che un dí «costituivano» il fato degli uomini attraverso l’efficacia della loro parola – del loro fari come diceva Varrone – le Parcae hanno assunto il ruolo di scribae, come le chiamerebbero i Romani: sono divenute le custodi di un immenso archivio in cui – registrati per iscritto – sono contenuti i destini del mondo. Con questi versi il poeta evoca verisimilmente l’immagine dell’enorme Tabularium edificato nel 78 a.C. sul lato ovest del Foro: l’edificio in cui si conservavano i documenti relativi all’amministrazione pubblica, leggi, senatusconsulta, plebisciti, protocolli delle discussioni in Senato o delle elezioni, decreti, e cosí via2. Cosí come altre volte accade, la fantasia di Ovidio si è lasciata guidare dall’impronta sempre fortemente civica, e soprattutto giuridica, della cultura romana – adesso i fata hanno ricevuto una sostanza burocratica simile a quella che caratterizza le decisioni sancite e registrate dai poteri della respublica, e come tali sono raccolti e conservati in un luogo sorvegliato da attente custodi. In questo nuovo contesto, in cui i destini sono adesso fissati per iscritto, anche Iuppiter muta il proprio stato: da locutore (e locutore determinante) di una parola potente, come lo abbiamo visto agire sopra, è divenuto semplice lettore di ciò che altri hanno scritto. Il padre degli uomini e degli dèi «legge» le parole che trova incise sui tabularia e le impara a memoria, cosí da poterle «riferire». L’avvento dei caratteri alfabetici nei territori del destino ha mutato radicalmente anche le modalità di comunicazione cui i fata sono soggetti: allo stesso modo in cui le Parcae sono divenute scribae, Iuppiter si è mutato in monitor, per dirla ancora con i Romani, in «ricordatore»: quel servizievole personaggio che oralmente riferisce, o suggerisce, ad altri (oratori, attori, sacerdoti) ciò che sta scritto in un determinato testo3.

La rappresentazione ovidiana delle Parche e del destino – giuridica, burocratica, archivistica – manifesta come meglio non si potrebbe la centralità che la pratica della scrittura ha assunto ormai all’interno della cultura romana. Cosí come la promulgazione della lex, registrata e incisa per essere conservata, si sta affermando di fronte alla tradizionale pratica dello ius, ancora ricca di risonanze orali; allo stesso modo il fatum «pronunziato» dalla divinità cede terreno di fronte alla rappresentazione di un destino scritto e conservato in un pubblico tabularium. Difficile non vedere un andamento parallelo in questi due processi culturali. In entrambi i territori, sia quello del destino sia quello del diritto, il potere di fare autorità, esercitato dal contesto performativo della pronunzia orale, sta cedendo il passo alla scrittura, ovvero al potere detenuto dalla sua permanenza. Né vi è da stupirsi se questa nuova identità assunta dalle Parcae – divenute adesso scribae – si diffonde a Roma sull’onda dei caratteri alfabetici. Vediamo ad esempio la maniera in cui Marziale si rivolge a un amico che è sul punto di lasciare Roma per recarsi in Britannia4:

Tu rimandi i piaceri, ma Atropo non rimanda il proprio filo, e ogni ora ti viene registrata in conto (scripta).

Non v’è momento che sfugga alla «registrazione scritta» della Parca, la dea del destino è una scriba – o forse in questo caso sarebbe piú proprio chiamarla libraria – la cui diligenza è impeccabile. Secoli dopo anche il poeta Claudiano (IV secolo d.C.) si ricorderà delle Parche librariae e rappresenterà Iuppiter nell’atto di proferire parole (voces) che Atropos «trascriveva (notabat) su metallo indistruttibile (adamante5. Adesso il padre degli uomini e degli dèi è tornato a esercitare il suo ruolo di locutore determinante del fatum, non si limita piú a leggere, imparare a memoria e riferire destini scritti da altri, è lui che li detta: resta però il fatto che essi vengono registrati per iscritto dalla Parca. Anche le iscrizioni funebri faranno ugualmente appello alla scrittura del destino.

Perché la Parca ha scritto (scribsit) molti anni alla madre, molti anni al padre, contro la loro volontà?

Cosí si lamentano, in un’epigrafe trovata fuori da Porta Pinciana, gli inconsolabili genitori di un ragazzo morto anzi tempo6. L’immagine delle Parche che scrivono piacerà anche ai cristiani. Ecco infatti il modo in cui il panegirista latino Pacato Drepanio (IV secolo d.C.) loderà la straordinaria memoria dell’imperatore Teodosio7:

Cosí come si dice che accanto a quel Dio, partecipe della tua maestà, stiano i Fata, per assisterlo con le loro tavolette (tabulae), forse anche tu hai al tuo servizio qualche forza divina, che scrive ciò che dici e te lo suggerisce?

Anche il Dio dei cristiani, dunque, si avvale di «tavolette» su cui i Fata registrano i suoi imperscrutabili disegni: mentre nella smaccata lode rivolta alle capacità mnemoniche di Teodosio, Pacato fa balenare l’idea che una «forza divina» accompagni il dire dell’imperatore, alla maniera di uno scriba e di un monitor nello stesso tempo. Infine nel fantastico mondo creato da Marziano Capella (IV-V secolo d.C.), un autore che tanta influenza avrà nei secoli a venire, Clotho, Lachesis e Atropos sono rappresentate non solo come «librariae degli dèi e custodi dell’archivio», ma addirittura come orthographae, impeccabili conoscitrici dell’arte scrittoria: le quali, appuntando i propri stili e acconciando le cere necessarie, registrano «con amore di verità» i detti di Iuppiter8.

Questa nuova identità scrittoria delle Parche influirà anche, à rebours, sul modo in cui verranno letti i versi del maggior poema latino, l’Eneide. Quando Virgilio, subito all’inizio dell’opera, descrive il conflitto destinato a scoppiare un dí fra Roma e Cartagine, conclude la sua profezia in questo modo: sic volvere Parcae, «cosí hanno filato le Parche», ovviamente facendo appello all’immagine del fuso che «si volge» fra le mani delle filatrici. Ma Servio, nella sua nota di commento, troverà il modo di ampliare l’immagine virgiliana nella nuova direzione9:

[Il poeta] ha tratto (volvere) o dal filo o dal libro (liber): perché delle Parche una parla, una scrive, l’altra fila.

In effetti per scrivere su un volumen lo si deve prima «svolgere» (volvere), è questo che Servio deve aver pensato; piú in generale, però, il commentatore poteva avere in mente anche certe raffigurazioni romane delle Parche in cui una tiene in mano per l’appunto un volumen: cosa che costituisce una decisa innovazione iconografica rispetto alla tradizione figurativa greca relativa alle filatrici, cosí come l’abbiamo vista sopra10. Del resto un mito, tramandatoci purtroppo solo da un breve appunto di Igino, attribuiva alle Parche addirittura l’invenzione di alcune lettere dell’alfabeto, A B H I T Y11. Concreto contributo delle divinità fatidiche alla registrazione scritta dei loro verdetti?

Figura 11.

Sarcofago di fanciullo con le tre Moirai stanti, II-III secolo.

Figura 11. Sarcofago di fanciullo con le tre Moirai stanti, II-III secolo.

Figura 12.

Sarcofago di fanciullo con le tre Moirai stanti, fine II secolo.

Figura 12. Sarcofago di fanciullo con le tre Moirai stanti, fine II secolo.

Questo genere di rappresentazioni, egregiamente studiato da De Angeli, è frequente sui sarcofagi a carattere mitologico, là dove figurino eroi che ebbero un destino particolarmente tormentato. È questo soprattutto il caso di Meleagro, personaggio accanto al quale vediamo rappresentata una Parca con il piede appoggiato su una ruota (ad evocare Nemesi?) mentre nella mano regge un volumen su cui si appresta a scrivere. Il tizzone dell’originario racconto mitologico, che incorporava la quantità di vita assegnata all’eroe dalle Moire, ha insomma ceduto il posto al piú moderno volumen – l’arcaica fisicità del «life-token» contro l’acculturata astrazione dei caratteri alfabetici. Piú interessante per noi, comunque, risulta il caso dei numerosi sarcofagi «biografici», tutti risalenti grosso modo al II secolo d.C., nei quali «la raffigurazione delle Parche appare esclusivamente documentata all’interno di una scena di infanzia del defunto … nella quale, seppure con alcune differenze all’interno delle singole composizioni, si assiste alla presentazione del piccolo alla madre da parte di una nutrice, dopo averlo sottoposto a un lavacro». È sullo sfondo di questa scena che sono visibili le Parche: di cui una regge il fuso, mentre l’altra, con un dito o con una bacchetta, indica un punto su un globo, e la terza infine ha in mano un volumen12. Se la Parca con il fuso in mano rinvia alla consueta figura della filatrice, l’azione della seconda divinità, che indica un punto su di un globo, segna una ulteriore novità rispetto alla tradizione. Questa rappresentazione corrisponde infatti all’ingresso delle Parche nella dimensione cosmica13; cosí come rimanda alla pratica astrologica secondo cui il destino individuale era determinato in base alla posizione occupata dai segni celesti al momento della nascita del bambino: sull’onda di una consuetudine che sempre piú si era venuta affermando nella cultura romana a partire dalla fine della repubblica14. Quanto al volumen, ossia l’attributo che piú ci interessa in questo tipo di rappresentazioni, esso ci riconduce ovviamente a quella dimensione «scritta» del destino che ci è ormai divenuta familiare attraverso le testimonianze letterarie. Fuori dal contesto funerario, la rappresentazione delle Parche che scrivono la incontriamo in un mosaico della Casa di Teseo, a Néa Paphos (IV-V d.C.). Clotho, Lachesis e Atropos, identificate dalle scritte che accompagnano le immagini, sono raffigurate in piedi dietro Peleo e Teti, che stanno per assistere al bagno del piccolo Achille, seduto sulle ginocchia della nutrice. Clotho regge il fuso e la conocchia, Lachesis ha in una mano lo stilo e nell’altra la tavoletta, Atropos tiene fra le sue un volumen15. In questa rappresentazione – iconograficamente simile a quelle che abbiamo incontrato nei sarcofagi «biografici» – è assente però il tema astrologico: non vediamo la consueta Parca che indica un punto sul globo. Ne esce rafforzato, però, il tema della scrittura del destino, affidato a ben due fra le Parche, che sembrano anzi realizzarlo attraverso due modalità differenti: se infatti Lachesis, fornita di stilo e tavoletta, si appresta indubitabilmente a scrivere, Atropos, che svolge il proprio volumen davanti a sé con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, potrebbe essere raffigurata nel momento in cui si accinge a recitare le parole di un destino già registrato, affinché Lachesis lo trascriva.

Figura 13.

Coperchio del cosiddetto «Sarcofago di Portonaccio» con scena di battaglia tra Romani e barbari, marmo, 180 circa.

Figura 13. Coperchio del cosiddetto «Sarcofago di Portonaccio» con scena di battaglia tra Romani e barbari, marmo, 180 circa.

Figura 14.

Coperchio di sarcofago, marmo, I secolo a.C. - I secolo d.C.

Figura 14. Coperchio di sarcofago, marmo, I secolo a.C. - I secolo d.C.

In scene come queste, e soprattutto nelle immagini ricorrenti sui sarcofagi «biografici», si è voluta vedere una rappresentazione del dies lustricus: ossia il nono giorno a partire dalla nascita (ottavo per le femmine) nel quale ai bambini veniva imposto il nome. Si tratta però di una cerimonia mal documentata per noi, di cui in realtà non conosciamo il rituale, per cui identificarne gli elementi in queste scene risulta difficile16. Macrobio, che ce la descrive assai succintamente, ci dice che in questa occasione «i bambini vengono purificati (lustrantur) e ricevono il proprio nome». Non è affatto detto però, anzi non è neppure probabile, che la lustratio cui i neonati venivano sottoposti consistesse in un banale lavacro, come quello rappresentato sui sarcofagi: dobbiamo piuttosto aspettarci un piú complesso rituale di purificazione, sul tipo degli Amphidromia ateniesi17. A rendere piú oscura la questione, e non certo a chiarirla, si aggiunge da parte di Tertulliano la menzione di alcune misteriose divinità chiamate Fata Scribunda, le quali sarebbero state «invocate» durante l’«ultimo giorno» della settimana successiva al parto: dunque, parrebbe, nel giorno del dies lustricus18. Si tratta però di divinità dal nome bizzarro, a mio giudizio neppure troppo sicuro19, ragion per cui, piuttosto che concludere questo capitolo perdendoci in una selva di congetture, preferiamo soffermarci su una testimonianza forse meno intrigante, ma che ha perlomeno il sapore dell’autenticità, se non della vita vissuta.

2. Scrivere i «fata» a Burdigala

Il poeta Decimo Magno Ausonio, di Burdigala (IV secolo d.C.), ebbe un rapporto particolarmente stretto con lo zio materno (avunculus) Emilio Magno Arborio. Costui era un personaggio importante della Gallia Narbonese, uomo di grande cultura, avvocato, oratore, la cui fama e le cui attività si erano estese fino alla lontana Costantinopoli. Dietro questo speciale legame fra avunculus e sororis filius – che Ausonio stesso ci documenta in uno dei suoi Parentalia, dedicato appunto allo zio Arborio – possiamo vedere qualcosa di piú del rapporto che poteva sussistere fra un nipotino vivace e uno zio particolarmente affettuoso. Il poeta apparteneva infatti a una famiglia gallo-romana, che è lecito supporre conservasse ancora alcuni tratti della società celtica. Ora, sappiamo che in questo contesto culturale il rapporto avunculare era rivestito di una importanza speciale; né può essere un caso che nella famiglia del poeta – cosí come ci viene mostrato ancora attraverso i Parentalia – il rapporto privilegiato fra zio materno e nipote si ripeta a diversi livelli della genealogia20. In particolare, sappiamo che lo zio Arborio si era occupato dell’educazione del nipote fin dai primi anni, secondo un modello anch’esso tipico delle società in cui il rapporto avunculare è particolarmente forte: in esse infatti allo zio materno tocca proprio il compito di esercitare il «fosterage», ossia l’allevamento e l’educazione del fanciullo fino a una certa età. Ausonio evoca esplicitamente questo ruolo svolto dall’avunculus nei suoi confronti, asserendo che Arborio era stato per lui «padre e madre» e che lo «aveva educato alle arti che è bello conoscere» quando era «lattante, fanciullo, giovane e uomo»21. Un «fosterage» completo, insomma, dai primi giorni di vita fino all’età adulta. Veniamo però alla parte del componimento che piú ci interessa, quella in cui il poeta ricorda un momento assai significativo del suo rapporto con lo zio22:

Dopo che ti fui affidato nei miei primi anni (me postquam primis tibi traditus annis), e ti piacqui, dicesti che la mia nascita ti sarebbe bastata. E dichiarando (professus) che io sarei stato motivo di grande onore (clarum decus) per gli antenati, dettasti ai miei Fati parole di cui prendere nota (dictasti Fatis verba notanda meis).

Arborio si era dunque preso cura del piccolo Ausonio alla maniera di un figlio, affermando che «la sua nascita gli sarebbe bastata». Ma come abbiamo visto, ci fu anche dell’altro. In una certa circostanza, infatti, egli aveva dichiarato che il piccolo sarebbe stato un giorno «motivo di grande onore per gli antenati»23: con queste parole di buon augurio lo zio aveva in qualche modo determinato il destino del nipote, facendo sí che i Fata le annotassero nel loro libro. Si è supposto che Arborio avesse pronunziato questa frase nel giorno del dies lustricus24, la ricorrenza di cui abbiamo già parlato sopra, ma si vede bene che non può essere cosí. La successione cronologica è chiara. Il piccolo Ausonio viene affidato all’avunculus «nei primi anni», e «in seguito» (postquam) a questo periodo Arborio dichiara che non ha bisogno di figli propri, visto che ha un nipote come lui: è a questo punto che egli pronunzia la fatidica frase relativa al «grande onore» di cui Ausonio sarà motivo per gli antenati. Essa si colloca dunque non nel periodo in cui il nipote era ancora «lattante», per usare l’espressione dello stesso Ausonio, ma dopo alcuni anni che lo zio aveva intrapreso il proprio «fosterage» e aveva imparato ad apprezzare le qualità del nipote. Il fatto che le parole di Arborio siano risuonate in un momento diverso dai primi giorni di vita di Ausonio, però, non toglie interesse all’episodio, al contrario. In qualsiasi momento lo abbia fatto, Arborio ha pronunziato detti che hanno valore di omina, come direbbero i Romani: attraverso la bocca dello zio si manifestava una voce divina, profetica, a carattere determinante, secondo quel modello di fatum/parola che ben conosciamo. Nei suoi versi però il poeta trascrive (è il caso di dirlo) questo evento attraverso la metafora che era ormai invalsa nella rappresentazione del destino: quella dei Fata che lo registrano per iscritto. Non v’è dubbio che la personalità del pronunziante, il suo prestigio e soprattutto il ruolo che egli rivestiva nei confronti del piccolo Ausonio, avessero attribuito una speciale efficacia alla frase “determinante” da lui pronunciata, tanto da invitare i Fata a prenderne nota. Ma nella casa del poeta la “scrittura dei fati” era davvero solo una metafora?


Figura 15.

Il primo bagno di Achille, mosaico, fine IV - inizio V secolo d.C., particolare con le tre Parche.

Figura 15. Il primo bagno di Achille, mosaico, fine IV - inizio V secolo d.C., particolare con le tre Parche.

Nel componimento che, all’interno dei Parentalia, segue quello di cui abbiamo appena parlato, Ausonio ricorda il padre di Arborio, il suo avus materno: Cecilio Argicio Arborio. La vita di quest’uomo fu avventurosa, segnata da alterne fortune, ma una cosa in particolare lo rendeva memorabile per il nipote: egli era infatti «esperto nella conoscenza dei moti celesti e degli astri che predicono i destini», benché quest’arte egli solesse praticarla «di nascosto (dissimulans)». E poi25:

Non ti fu ignoto neppure il corso astrale (formula) della mia vita, che avevi celato in tavolette sigillate (signatis … tabulis). Il segreto non fu mai tradito, ma il sollecito affetto di mia madre [la figlia di Argicio Arborio] rivelò ciò che l’attenta vigilanza del nonno aveva tenuto nascosto.

Questo frammento di cronaca familiare tramandatoci da Ausonio apre di fronte ai nostri occhi uno scenario quasi romanzesco – un nonno esperto nei misteri dell’astrologia, una madre che ne viola i segreti, indiscreta e affettuosa… Il che significava, però, che in casa di Ausonio c’era qualcuno che, fuor di metafora, i destini li scriveva davvero, consegnandone l’arcano alla custodia di tabulae tenute sotto sigillo. Per merito dell’amore che sua madre gli portava, Ausonio aveva avuto il privilegio di conoscere realmente la «scrittura» dei propri fata.