Il lettore non si spaventi, stiamo quasi per riannodare le fila del nostro discorso. Fra un momento riprenderemo infatti a parlare del fās. Per farlo, però, è necessario svolgere un’ultima riflessione, stavolta relativa al secondo dei campi culturali che questa categoria (dopo la religione) evoca e trascina con sé: la giustizia.
Come abbiamo già notato sopra, se osserviamo le origini di Roma attraverso le «figure del ricordo» che ne animano i racconti, quando la legge «si presentò» alla Città non lo fece – come voleva Fustel de Coulanges – «da sé e senza che si dovesse cercarla» in quanto «conseguenza diretta e necessaria della credenza religiosa». Tantomeno, come ugualmente abbiamo visto, la memoria culturale romana conferma l’idea di Fustel che a Roma «il vero legislatore… non fu l’uomo, fu la credenza religiosa che l’uomo aveva in sé»1. Al contrario, come abbiamo visto seguendo il racconto di Livio, fu Numa, «uomo di grandissime conoscenze (consultissimus) nel campo del diritto umano e divino», colui che «rifondò da capo con il diritto, le leggi e i costumi» una città che era stata «fondata con la violenza e con le armi». Secondo la memoria culturale romana, dunque, uno stesso uomo, attingendo alle sue «conoscenze» aveva donato alla Città sia le istituzioni religiose, sia quelle giuridiche. Anche in questo caso la tradizione (rappresentata soprattutto da Dionigi di Alicarnasso e da Plutarco) ci fornisce versioni differenti della stessa vicenda, attribuendo già a Romolo l’emanazione di alcune leggi di grande importanza: relative al matrimonio, ai figli, alla patria potestas, alla successione, all’omicidio, e cosí di seguito2. Nel suo Encheiridion, del resto, il giurista Pomponio ricorda «leggi» promulgate da Romolo, che assieme ad altre sancite dai re seguenti sarebbero state poi raccolte da Papirio nel cosiddetto Ius civile Papirianum, al tempo di Tarquinio il Superbo3. Ci troviamo nuovamente di fronte a scarti, a variazioni fra le diverse narrazioni che (nella tradizione romana) accompagnarono gli inizi di alcune importanti istituzioni culturali4. In ogni caso anche per ciò che riguarda i fondamenti giuridici della Città, cosí come avviene con quelli religiosi, a contrassegnarli è il medesimo stile culturale umano che abbiamo descritto nelle pagine precedenti.
Continuiamo dunque a seguire il racconto di Livio. Come già sappiamo, alla propria morte Numa trasmise le norme da lui elaborate ai pontefici, che ne restarono a lungo i gelosi custodi. Il fatto che un collegio sacerdotale possedesse ed esercitasse a un tempo lo ius divinum e lo ius humanum, però, non significa che il diritto avesse avuto a Roma una fondazione divina. A istituirne le norme, infatti, era stato comunque un uomo, non la voce o la prescrizione di un dio. Una affermazione che resta valida anche se si segue la versione secondo cui a Roma le prime leggi sarebbero state promulgate da Romolo. Il fatto è che a Roma al momento di legiferare «gli dèi sono assenti»: lo sono agli «inizi» della Città, come abbiamo visto, perché i re che promulgano leggi lo fanno solo in base al proprio potere regale, come Romolo, o alla loro conoscenza del «diritto umano», come Numa; cosí come lo saranno al momento in cui i decemviri promulgheranno le leggi delle XII Tavole5. A Roma «il legislatore non si pone come l’intermediario fra la divinità e i sudditi»6. Anche sul versante giuridico, insomma, ci troviamo di fronte a quello stesso stile culturale romano che mette gli uomini, non gli dèi, alle origini delle proprie istituzioni – pur attribuendo, nel medesimo tempo, una grande importanza alla religione e alle sue pratiche. Questa capacità della cultura romana di pensare insieme, nello stesso tempo e senza contraddizione, la fondazione umana delle istituzioni giuridiche o religiose e un’intensa partecipazione alla vita religiosa, costituisce quella «alterità» dei Romani (la particolare «coppa» con cui essi attinsero al comune bacino delle culture) della quale abbiamo già parlato. «Come arriveremo mai a comprendere un giorno i meccanismi delle culture», aveva scritto Arthur M. Hocart, «se ci ostiniamo a separare ciò che gli uomini hanno unito e a unire ciò che hanno separato?»7. Siamo dunque giunti a parlare dei rapporti fra religione e giustizia presso i Romani. Per proseguire lungo il nostro cammino, però, vorremmo scegliere una direzione meno consueta, trasversale: ma forse proprio per questo piú diretta.
1. Il «fās» che non divenne un dio.
Proviamo a prendere per un momento il punto di vista delle divinità. Quando si tratta di religione, infatti, ci si aspetta necessariamente che entrino in gioco degli dèi e delle dee. Parlando di religione e commercio, per esempio, la mente corre subito a Mercurius, mentre in tema di religione e artes si affaccia l’immagine di Minerva, cosí come quella di Mars quando si entra nei territori della guerra o quella di Ianus quando è questione di «inizi». La domanda a questo punto sorge spontanea: fra le molte e importanti divinità della Città, ce n’è qualcuna che rappresenti direttamente la giustizia? Come ha osservato di recente Aglaia McClintock, la risposta è sostanzialmente negativa8. Questa singolare debolezza del pantheon romano risalta ancor piú fortemente se, sullo stesso terreno, lo confrontiamo con quello greco, all’interno del quale le divinità della giustizia non solo sono presenti, ma esercitano un ruolo antico e maggiore. A cominciare da Themis, la figlia di Gaia e Ouranos, sposa di Zeus, che attribuisce veste e statuto divini alla «nozione» greca di thémis. Secondo la felice analisi di Jean Rudhardt, la thémis può essere descritta come una «esigenza vissuta» «sentita», chiaramente «percepibile», che come tale ha la capacità di esercitare il proprio controllo su una pluralità di sfere: dal comportamento rituale alle relazioni amorose e affettive, dai doveri verso la società a quelli nei confronti dell’individuo, ed è capace di determinare perfino il buon ordine dell’universo9. La dea Themis, che della thémis rappresenta la trasposizione divina, esprime dunque la ricerca della stabilità, ponendosi come tutrice sia dell’ordine sociale che di quello naturale. Dopo Themis occorre certo ricordare Dike, figlia di Themis e di Zeus, la divinità sempre «a fianco» del padre, pronta a registrare sulle sue tavole i crimini che gli uomini commettono contro il suo volere e a punirli; per finire con Nemesis, la grande dea di Ramnunte, che alla maniera della némesis di cui costituisce la divina rappresentazione – la «giusta ira», la «riprovazione» – esprime l’aspetto della punizione10. A fronte di queste grandi divinità greche, che articolano la nozione di «giustizia» in una molteplicità di sfaccettature, a Roma troviamo solo figure sbiadite e minori: ma soprattutto troppo recenti per essere riportate ai momenti che, secondo la memoria culturale romana, avevano marcato la fondazione delle istituzioni cittadine. Personificazioni come Aequitas o Iustitia, infatti, compaiono solo tardi sulla scena religiosa e soprattutto sono poco rappresentate11; mentre la greca Nemesis non sarà mai perfettamente integrata nel pantheon romano, «dea che non trovò un nome latino neppure sul Campidoglio»; oltre tutto, nella percezione comune Nemesis appare legata a campi piuttosto diversi rispetto a quella della giustizia. Solo a partire dal II secolo la statua della dea si diffonderà in particolare negli anfiteatri, là dove venivano eseguite le condanne a morte: in questi luoghi la sua presenza costituirà una manifestazione della giustizia imperiale12.
In realtà tale vistosa assenza di divinità della giustizia a Roma costituisce non un fenomeno casuale, ma la conseguenza di un preciso intento. E questo costituisce ovviamente un elemento di grande importanza, uno scarto culturale talmente vistoso (una società che non ha voluto le divinità della giustizia) da attrarre necessariamente la nostra attenzione. Come potevamo aspettarci trattandosi di culti, a prendere una decisione – molto rilevante – in questa materia fu Numa in persona13:
Vedendo che i contratti stipulati in pubblico e davanti a testimoni sono garantiti dal sentimento di vergogna (aidós) nei confronti delle persone che assistono, e che in questi casi sono pochi i colpevoli della loro violazione, mentre i contratti stipulati senza testimoni, che sono molto piú numerosi degli altri, hanno come unica garanzia la fides (pístis) dei contraenti, ritenne di doversi preoccupare di questa piú che di ogni altra cosa e di renderla degna di venerazione divina. Egli pensò che Themis, Dike, Nemesis, e quelle che dai Greci sono chiamate Erinni e altre entità simili a queste erano già state divinizzate e onorate a sufficienza dagli uomini dei tempi precedenti (tôn protéron), mentre la Fides (Pístis), della quale non c’è fra gli uomini sentimento (páthos) piú grande né piú sacro, non aveva ancora ottenuto un culto, né in pubblico né in privato. Come risultato di queste riflessioni primo fra gli uomini eresse un tempio alla Fides pubblica (Pístis demosía) e istituí sacrifici in suo onore a spese pubbliche, come per tutti gli altri dèi.
Eccoci tornati a Numa, l’uomo che aveva il potere e la competenza di decidere quali divinità si dovessero onorare, nella città che stava ri-fondando, e quali no: e anche come e perché dovessero essere onorate. Secondo il racconto di Dionigi, dunque, a Roma la dea Fides teneva il posto che avrebbe dovuto essere occupato da Themis, Dike, Nemesis, le Erinni «o altre simili entità» afferenti alla sfera della giustizia. Si tratta di una informazione di grande importanza, che proietta alle origini stesse della città il disinteresse, se cosí possiamo chiamarlo, per delle vere e proprie «divinità della giustizia» e lo inscrive direttamente nella memoria culturale relativa alle origini. Storicamente sappiamo che a consacrare un tempio a Fides sul Campidoglio – nelle immediate vicinanze di quello dedicato a Iuppiter Optimus Maximus – furono A. Atilio Calatino (254 o 250 a.C.) e nuovamente M. Emilio Scauro (115 a.C.)14. Il fatto però che la memoria culturale intendesse enfatizzare l’antichità della presenza di Fides fra i Romani, alla maniera di Dionigi, è ulteriormente dimostrato dal fatto che, secondo una diversa versione della vicenda mitica, sarebbe stata addirittura una nipote di Enea, Rhome, a dedicare un sacello a Fides sul Palatino; mentre Virgilio, nell’episodio in cui Iuppiter profetizza la futura grandezza di Roma, parla di cana Fides «Fides canuta» (l’aggettivo ha un significato assai trasparente) e mette la dea in compagnia di Vesta, Romolo e Remo come coloro che daranno iura ai Romani15. Sappiamo che la dea era onorata secondo regole rituali dal colore decisamente arcaico. Sempre secondo le prescrizioni di Numa, infatti16,
i flamines si recavano al suo santuario su un carro coperto trainato da due cavalli e celebravano il sacrificio con le mani coperte fino alle dita, per indicare che la Fides è inviolabile e che, allo stesso tempo, ha sede nella mano destra.
Dunque Numa, rifiutandosi di dedicare templi a Themis, Dike, Nemesis e le Erinni, decide di dedicare un culto alla dea Fides. E si tratta non di questa divinità in generale ma, specificamente, della Fides Publica, ossia la divinità che garantisce il rispetto dei contratti stipulati fra i cittadini in assenza di testimoni17. Attraverso la creazione di un culto per Fides il re dava fondamento insieme istituzionale e religioso (secondo lo stile culturale romano) a un costume che, come nota lo stesso Dionigi, diventerà tipico della prassi giuridica a Roma18:
quando infatti sorgeva un dubbio riguardo a un contratto stipulato senza testimoni, cioè tra persona e persona, era la pístis (fides) di uno dei due che erano in lite a risolvere il conflitto e a non consentire che esso degenerasse. Anche i magistrati e i tribunali giudicavano la maggior parte delle cause con giuramenti fondati sulla pístis (fides).
La giustizia divinizzata da Numa è dunque quella che si basa sul rispetto della parola data e dei giuramenti formulati, una divina giustizia a carattere orizzontale, concatenante, che rappresenta i vincoli che stringono i cittadini l’uno all’altro. Non a caso Fides è rappresentata dal simbolo della mano destra, quella che si porge al partner, o delle due mani che si congiungono (presenti sia nelle testimonianze letterarie sia in quelle iconografiche) a mostrare l’importanza della reciprocità che governa la sua provincia19.
Il disinteresse di Numa nei confronti di «Themis, Dike, Nemesis e quelle che dai Greci sono chiamate Erinni e altre entità simili a queste», a vantaggio della sola Fides pubblica, ci permette di riannodare finalmente le fila delle nostre riflessioni e tornare al tema del fās. Infatti, quando il lessicografo Festo descrive la natura di Themis lo fa con queste parole20:
Ritenevano che Themis fosse la dea che prescriveva agli uomini di ricercare ciò che fosse fās, e pensavano che essa fosse ciò che è anche fās.
Questo rapporto fra la divina giustizia dei Greci, Themis, e il fās dei Romani è interessante, piú avanti dovremo anzi tornarci. Solo, si noti, alla dea greca viene fatta corrispondere una entità che a Roma non è rappresentata da una divinità: a Roma non esiste un dio Fās21. Se i Greci diedero veste divina alla loro thémis, i Romani non pensarono mai di divinizzare il loro fās. Cosa che verisimilmente sarebbe accaduta, se davvero si fosse trattato di una legge, una norma, una forza di carattere divino, come è avvenuto in Grecia per thémis.