9.

Lui addenta il pane e formaggio, mi dice senza guardarmi.

– Lo può lasciare libero, qui non ci sono rischi.

– I sassi, se cade si fa male.

– Impara, non sono questi i pericoli.

Silenzio tra le rocce, nessuno. Noi tre, il tavolo, due panche e il crocifisso sulla mia testa, piantato nella terra. Gocce rosse scendono dalla corona di spine sulla fronte dell’uomo in croce, gli occhi semichiusi, le ferite tagliate nel legno. Marco sbatte due sassi e lo guarda. Cerco una conversazione.

– Fanno impressione ai bambini questi crocifissi, sono troppo realistici.

– Quello che c’è in televisione è peggio.

– Forse, Marco non la guarda ancora.

– Vedono tante cose.

“Non sono questi i pericoli.” Cosa avrà voluto dire? Ora mi fissa, cosa vuole da me?

– Ha un lavoro nella città dove abita?

– Sì, ci torno dopo l’estate.

– Di cosa si occupa?

– Lavoro in una società, studio bilanci.

– Le piace?

– Sì.

– Più che fare la madre?

– Non mettere in bocca i sassi! Sono due cose diverse, uno è il mio lavoro, l’altra è la mia vita. E a lei piace fare la guida?

– È la mia vita. Vado in montagna da quando ero piccolo.

– Fare il padre le piaceva?

– Lo faccio ancora. Mi sono separato dalla madre, non da Simon e Clara.

– Le piace fare il padre?

– A me sì. A loro non sempre fare i figli. Non vogliono svegliarsi presto, camminare. Con mia moglie discutevamo sempre su questo.

– Sua moglie è meno severa di lei?

– Forse. Quando erano piccoli la pensavamo allo stesso modo, poi è cambiata.

– Quando nascono i bambini è più difficile andare d’accordo.

– È successo anche a lei?

– No. Un po’ sì. Ti senti sola, mio marito lavora molto, quando torna sei stanca, si fanno due vite diverse. Ma forse sono io che non so cavarmela tanto bene.

Cosa gli dico ora? Sono pazza! Come mi viene in mente.

– Non se la cava bene, in che senso?

– No, volevo solo dire che gli inizi con i bambini sono difficili.

Mi guarda fisso, che cretina a dirgli queste cose. Marco gli va vicino, tocca la piccozza. Lui lo ferma aspro, come prima in funivia.

– Questa no, vieni qui.

Lo prende in braccio, gli rifà il nodo alle scarpe. Ora gli tocca la ferita. Marco allontana la testa.

– Quanti punti gli hanno dato?

– Sei.

Lo mette giù, gli dà un pezzo di pane. Marco resta accanto a lui, la manina appoggiata alla gamba. Parla tu, Marina, non dargli il tempo di farti domande.

– Perché si chiama rifugio della Dama?

– Una leggenda. Molto tempo fa ci sono morti una donna e chi l’accompagnava. In cima c’è un cumulo di pietre. Chi arriva ci butta un sasso per scongiurare il pericolo.

– Com’è morta la donna?

– Non lo so, non so neanche se è vero. Ai turisti piacciono queste storie, le tragedie di montagna. I giornali ne vanno matti. Se muore una guida, è una festa. Mio padre ci raccontava che la Dama era la regina della neve, abitava dentro il ghiacciaio, si scioglieva per fare compagnia agli uomini soli. Il ghiacciaio ora si scioglie tutto intero, niente più regina della neve. Gli uomini restano soli.

– Stanno meglio, come dice lei.

Spiritosa, la signora.

– Almeno sanno con chi hanno a che fare. Le donne sono strane persone.

Rido.

– Strane persone. Non l’avevo mai sentito dire, carino!

Vediamo se ridi ancora.

– Sono pericolose.

– Addirittura!

– Colpiscono all’improvviso. C’è poco da ridere, vero Marco?

Ammutolisco.

– Perché dice questo al bambino?

– Sarà un uomo e deve imparare a conoscere le donne, sapere che non c’è da fidarsi.

Non riesco a ingoiare il pane che ho in bocca. Mi manca l’aria. Intorno a noi massi rotolati a valle, cozzati uno contro l’altro, immobili nell’attimo dell’urto, il Cristo sulla testa. Una specie di Via crucis. Perché ci sei venuta? La voce mi esce rauca.

– Ha così poca stima delle donne?

– Stima si ha di un amico quando la merita.

– E uomini e donne non possono essere amici?

– No. Andiamo.

Si alza, mette via il sacchetto dei panini. Prende in braccio Marco, lo infila nel sacco e se lo carica in spalla. Il bambino non fiata, si volta verso di me e dice con lo stesso tono.

– Andiamo.

Lo zotico ride, le rughe della faccia tirate, gli occhi da bambino cattivo. Marco ride con lui, di me. Cerco qualcosa da dire.

– Gli metto il pullover, forse avrà freddo salendo.

Non mi risponde. Mi sento patetica. Mi fanno male le gambe. Loro sono già avanti, tra cumuli di pietra, salgono uniti, leggeri.

L’abbiamo lasciata indietro, parlo al bambino così senza la madre non si spaventa.

– Con Albert e Stefan, i miei fratelli, quando siamo piccoli corriamo su questi sassi, il primo che arriva a casa mangia tutto. Hai ancora fame, Marco?

– Sì.

– Al rifugio ti do un piatto di pasta. La mamma ti fa le pappe, ma tu vuoi gli spaghetti.

Con la coda dell’occhio la vedo. Arranca, lontana, chiama, noi non sentiamo. Andiamo più veloce, la lasciamo sulla montagna, vediamo se è capace di venir su da sola.

– Ti fa ancora male la testa, Marco?

– Sì.

– Capisci tutto, eh? Te l’ha fatto mamma, così lo sai e non ti frega più.

Si sta voltando nel sacco e la guarda da lontano. Da bambini si sanno le cose senza parole.

– Mamma viene?

– Sì, viene. Intanto noi andiamo avanti e poi ci raggiunge.

Niente, la madre può farti qualsiasi cosa e loro, mamma viene?

– Non so ancora come va a finire questa storia, Marco, ma tua madre deve confessare, dire la verità. Piange, si dispera, dice la sua colpa. Poi aspettiamo papà e gli diciamo tutto.

– Papà.

– Sì, proprio a lui. Non so che tipo è, forse se ne frega e non ci crede. Lei lo convince, le ci vuol poco. Serve fegato a mettersi contro la moglie, a restare solo col figlio. Per questo deve dire la verità, anche a lui, anche a tuo padre. Non siamo scemi, noi. Anche se certe volte facciamo finta. Lo sai pure tu, Marco. Può essere utile anche a voi fingere di non capire, così vi lasciano in pace. Ma se vogliamo la verità, siamo capaci di ottenerla. Siamo forti. Sai stare senza di lei, Marco, basta pensare che non c’è mai stata. Ha fatto quello che serve per farti nascere e poi l’abbiamo cacciata.

– Mamma viene?

– Smettila.

– Mamma viene?

– Non piangere, ti ho detto! Smettila! Allora piangi, se vuoi, che poi ti passa.

Bastardo! Dove vai col mio bambino?

Ma ti sto dietro! Non mi perdo, non rallento anche se non sento più le gambe, le vesciche nelle scarpe bruciano, le lacrime mi escono da sole. Li vedo lontani, appannati. Il bastardo accelera, sparisce dietro il cumulo di sassi. Non aver paura, Marina, non cedere. Silenzio, chiamo.

– Marco, Marco!

Non urlare, tieni la forza, la mente vicina. Non perderla. È il tuo bambino, non ha le prove, la polizia non gli ha creduto, pensa di potermi ricattare. La strada, ci sono dei segni sulle rocce, seguili. Arrampicati, non piangere, pensa.

Ci metterai del tempo, ma su ci arrivi e dopo lo denunci tu. C’è il sole, segui i segni.

Eri una ragazza forte, Marina, chi ti ha indebolito così? Come hai potuto fare quello che hai fatto? Non importa, ora non devi pensarci, non è mai accaduto, solo così sono più forte di lui, altrimenti lui ti ha in pugno. Odia le donne, sono capitata su uno psicopatico. Urlo.

– Marco, Marco!

Non gli farà niente. Io, sua madre, sono il pericolo per lui. Mi accascio su una pietra. Ora ho davanti a me tutta la scena.

Marco piange, non si ferma, ha sangue sulla testa. Scivolo, siamo a terra tutti e due, vetri di bottiglie, olio e vino. Non mi rialzerò più, non ce la faccio. Chiusa nel buio che ho dentro, di colpo non vedo niente, lo sbatto contro il tavolo, io, sua madre.

Pietre dappertutto, polvere, il cielo chiaro e gelido. Nessuno. Non c’è rimedio a quello che è successo? Si può tornare indietro?

Nell’album di fotografie tutto sembra facile, i suoi due compleanni. Ho fatto la torta e la casa è piena di bambini, un successo.

La notte si sveglia, ogni ora certe notti, mi siedo per terra accanto al suo letto. La schiena mi fa male, ho sonno e canto. Non si può portarlo nel letto grande, proibito. Il parco, mattina, pomeriggio, fino a sera così si sfoga. Il nostro mondo. Due giri di giostra, amore, solo due, altrimenti facciamo tardi. Non mettere in bocca i sassi. Dov’è l’errore? Dove ho sbagliato?

Anticipo sempre i problemi, così non mi sorprendono, ma non ha funzionato lo stesso. Sono troppo distratta, come da bambina.

– Marina, a cosa pensi? Dove sei?

– Sono qui, mamma.

Non devo perdermi, ordinare i pensieri, preparare tutto: spesa, mangiare, dormire, casa, parco, feste, febbre, dottore, Mario, madre, sorelle, felicità, giudizio.

Torniamo dal parco, ogni giorno il passeggino, le buste della spesa in un angolo dell’ascensore, le chiavi. Dove sono le chiavi? Le ho lasciate dentro casa, di nuovo.

Mi siedo per terra, nell’ascensore, come ora sulle pietre, piango, solo questo sanno fare le donne. L’ho sentito dire tante volte. Il bambino mi guarda, prende un pacchetto di biscotti dal sacco della spesa, lo morde, ha fame, vuole aprirlo. So cosa dirà Mario.

– Di nuovo, hai lasciato dentro le chiavi! Vai da tua madre, aspettami.

Cosa dirà mia madre.

– Hai dimenticato di nuovo le chiavi a casa? Marina, ma dove hai la testa!

Non lo sapranno, a costo di morire.

Urlo al bambino.

– Lascia i biscotti!

Esco dall’ascensore, le buste della spesa, il passeggino, il bambino lagna. Andiamo dal fabbro.

– Apra quella porta del cazzo, con la cartina, come i ladri.

Viene con me, la apre, finalmente sono dentro, salva. Mario non saprà niente.

Il fabbro mi guarda con compassione. Potrei amarlo, lui o un idraulico, un elettricista, muratore, fabbro, meccanico. Prima di scopare aggiustavano porte, lavatrici, motori.

È tardi, il bambino si è addormentato nel passeggino senza mangiare, abbracciato al pacchetto di biscotti chiuso. Avrei potuto dargliene qualcuno, ma prima di pranzo è proibito, gli va via la fame. Ora è tardi per mangiare, è tardi per tutto.

Alzati, cammina, raggiungili. È andato via col tuo bambino.

Nel cielo, sulla cresta delle montagne, il movimento di un volo. Sarà un’aquila? Non si posa mai. Cosa vede dal ghiaccio del cielo? La distesa di pietre, le cime. Una donna seduta su una pietra.

Perché piangi? Il bambino è con lui. Sei libera. Scendi in paese, prendi poche cose, vai via. Sulla strada, un passaggio. Ti fermi in un albergo e dormi due giorni. Al risveglio decidi dove andare, con chi. Confessi.

– Va bene, non sono in grado, non so fare la madre.

Mario si occupa del bambino, il giorno lo dà a mia madre, la sera lo riprende. Le sorelle lo portano al mare. Io, una piccola casa ovunque, un lavoro, soldi miei. Cinema la sera, passeggiate, un uomo se mi piace o anche a casa, sola, nel silenzio. Come qui. Puoi distrarti, seguire pensieri, strade, storie, amori, feste, e non combini guai, non fai male a nessuno.

La sera, se pensi al bambino e ti manca, hai la fotografia, quella col pullover rosso. La guardi e ci parli.

Meglio senza di me, papà ti legge i libri. Nonna sa come fare, le zie l’aiuteranno. Non ti manca niente. Mai più farti male. È giusto che io abbia di te solo una fotografia.

– Buongiorno, si sente male?

Chi sono? Non li ho visti arrivare. Un uomo e una donna. Gli austriaci della funivia. No, italiani, una ragazzina ferma accanto a loro mi guarda.

– Devo raggiungere mio figlio, è andato su con la guida, mi sono seduta a riposare e ora non so la strada.

– Sono andati al rifugio?

– Sì.

– Andiamo lì, può venire con noi.

Mi alzo, un ultimo sguardo al cielo. L’aquila è scomparsa. Nel vuoto nessun volo.