3.

Bufera, tormenta. I clienti chiusi in albergo come topi, io libero finalmente. Cammino e non mi disturba. Non sento il mento e le guance. Arrivo alla partenza della funivia e torno indietro. Niente, per uno che faceva il giro dei passi in un giorno e conosceva ogni cima come il corridoio di casa sua. Ora mi basta, soprattutto oggi, non c’è un cane fuori, niente voci, tonfi di neve che cade dagli alberi, il vento ti fischia intorno, aghi ghiacciati picchiano contro la giacca.

– Vuoi andare in montagna con questo tempo, e con la tua gamba?

– Arrivo solo alla base della funivia e torno. Il tempo, vuoi che mi spaventi!

Luna non mi trattiene, mi conosce, e poi è il suo carattere non insistere. Tra noi è stato così dopo l’incidente.

Notte, siamo tornati a casa dopo due mesi di ospedale. Clara e Simon dormono. Lei ha rimesso a posto la sua roba negli armadi, di nuovo c’è odore di pulito. Mi alzo poco, gli esercizi due volte al giorno, ma ancora il giro delle stanze non l’ho fatto. Ritardo. Non voglio incontrare le pentole in cucina, la lavapiatti accesa, le loro scarpe all’ingresso, le sue calze e il reggiseno in bagno. Ha deciso di restare, non me l’ha ancora detto. È seduta sulla poltrona accanto al letto, faccio finta di dormire. Da giorni vuole parlarne. Apro gli occhi: se si deve fare, meglio deciderlo io il momento. Le chiedo.

– Non vai a dormire?

Mi guarda, è stanca, gli occhi cerchiati. In ospedale è venuta ogni giorno, si è occupata di me come una madre, non la mia. Parla piano, come ci fosse un morto nella stanza.

– Manfred, i bambini sono contenti di essere tornati in paese.

Le donne buttano avanti sempre i figli. Le chiedo con la voce più forte e tesa che mi viene.

– E tu?

Piange subito, ho premuto l’interruttore delle lacrime. La guardo, dovrebbe farmi effetto e invece niente, non so perché.

I primi anni di matrimonio combattiamo dalla stessa parte, poi, dopo la nascita di Clara, uno contro l’altra, e ora?

– Pensi che con un mezzo uomo andrà meglio, Luna?

Scuote la testa.

– Allora perché vuoi stare qui?

– Ti rimetterai in piedi, Manfred.

Non mi ha risposto, non lo ha più fatto da quel giorno. Non ho insistito, neanche lei con me. Basta che non si arrivi mai al punto, la ragione del suo ritorno.

Si siede sul letto, mi abbraccia. La tengo accanto, una finestra lasciata aperta sbatte in cucina, è andata via, quella che mi ha salvato dalla morte.

Da allora le voci degli altri, dei figli, dei fratelli, suoni come questi, il vento, la neve, niente ti tocca, ti entra dentro, un accompagnamento. E devi riandare a molti anni fa per sentire qualcosa, la montagna del Gigante, il male che ti ha fatto tua madre, l’odio e la pena per tuo padre, i fratelli, i Sane, non ti sembra di aver mai avuto più niente.

Tutta colpa di questa donna, arriva e ti mette nella merda, non sai perché. Ancora solo una mezz’ora e sono alla partenza della funivia, salgo al rifugio, la incontro, mi presenta il marito e la facciamo finita.

La funivia dondola nel bianco tra puntini di neve vorticosi. L’hanno già fermata due volte. Sono sola col ragazzo che ha chiuso le porte. Gli ho chiesto subito.

– Non viene nessuno?

– Pochi salgono con questo tempo.

Ho paura quando si ferma e oscilla nel vuoto. Mi reggo al corrimano agganciato alla parete, chiudo gli occhi. Come mi è saltato in testa di scendere con la bufera? Voglio andare da lui. Non ho dormito, la sua vicinanza, le frasi su di lui la sera mi girano in testa, e frammenti di questi anni e della vacanza con Marco, l’unica di cui ricordo ogni istante. Hanno incollato il legno sulla tappezzeria delle stanze, coperto il bambino con la bocca spalancata e gli occhiali. Anche la ferita di Marco ora è nascosta dai capelli.

Un giorno, ha tredici anni, si è fatto la doccia, i capelli pettinati all’indietro, l’accappatoio stretto in vita, il petto bianco e magro ancora senza peli. Ultimi mesi di bambino. Entra in cucina, la voce da uomo spaventato.

– Ho una cicatrice sulla testa, mamma, guarda, è bianca.

Non mi volto, non lo guardo.

– Non te n’eri mai accorto?

– No, cos’è?

– Quella volta in montagna, sei caduto dal tavolo, te l’ho raccontato.

– Ma è grossa, mi hanno messo punti?

Mi giro verso di lui, devo rassicurarlo, sorrido.

– Uno dei tanti ospedali che abbiamo visitato quando eri piccolo. Eri una peste.

La tasta col dito, dice.

– Una cicatrice nascosta, in fondo mi piace.

Lo abbraccio, gli do un bacio sulla testa.

– Come i soldati.

Si ritrae.

– Dai, mamma.

La funivia sfiora il pilone. Alzo lo sguardo sul ragazzo.

– È pericoloso?

Sorride.

– No, appena si calma un po’ riprendiamo a scendere.

Si calma, il vento, la sua furia, la mia. Volevo lasciare tutto, mi ha detto.

– Stai lì, non puoi.

L’ho fatto, Manfred, anche tu. La moglie, i figli, l’albergo. Cani alla catena. Un salto avanti e sbatti contro la cuccia, sei legato, non te lo ricordi? C’è qualcosa nella vita oltre questo?

La funivia riprende a scendere, andiamo giù lentamente nella nebbia di puntini bianchi che picchiano sui vetri. Vado alla casa, chiedo di lui, se incontro la moglie non importa, le dico.

– Sono qui in vacanza, passavo a salutarvi.

Mi basta niente per capire se è stata una fantasia inutile come la preghiera della sera che invento da bambina.

– Fai che domani a scuola lui si accorga di me.

Se lo guardo negli occhi, so se gli sono rimasta dentro. Metà strada, l’altra funivia ha bucato la nebbia della valle, viene su colpita da raffiche di neve. Piccola scatola identica alla mia, sale faticosamente per farmi scendere. Una in cima, l’altra giù. Non sono mai nello stesso punto, tranne l’attimo in cui si incrociano. Penso a lui, non devo dimenticare perché sono qui. Troppo facile abituarsi, dirsi.

– La vita è un’altra cosa. Amore, desiderio, chi ci crede?

Tu sempre, anche da bambina. Sei come tuo zio, dice mio padre. Lo zio che cantava la canzone del tuo nome. Marina, hai smesso di seguire consigli, fregatene della saggezza degli altri, fatti male, scopri da sola.

Di colpo lo vedo, dentro l’altra funivia, attaccato al vetro, mi guarda, spalanca gli occhi, la bocca, come il bambino del disegno. Urlo.

– Manfred!

Il ragazzo si volta. Che m’importa cosa pensa, devo sapere.

– Era lui, vero? Dove va?

– Sale dal fratello.

Penso: sale da me, cretino.

Dopo un attimo aggiunge.

– Troppo vento, questa corsa e la fermiamo.

Veniva su da me, e ora? Fermano la funivia, lui su, io giù. Divisi ancora.

– Marina!

Che scemo, non può sentirmi. Mi ha visto, ci siamo guardati, ha i capelli corti.

– Chi era, zio?, la donna che ti ha salvato?

Mi volto verso mio nipote. Christian è appoggiato alla parete opposta, la giacca a vento rossa della scuola di sci, il viso di Bianca, gli occhi chiari di Albert. Siamo soli, insieme al ragazzo della funivia.

– Come lo sai?

– Me l’ha detto Silvia, è andata al rifugio.

Penso, e ora scende, perché?

– È qui con la famiglia?

– Non credo, è sola. Aveva un bambino, me lo ricordo, ha passato dei giorni da noi la prima volta.

È sola, senza marito. Stai calmo, Manfred, non è venuta per te.

Christian mi fissa, strano ragazzo il primo figlio di Albert. Da bambino sta zitto, va dietro al padre, ora appena ha finito di lavorare sale al rifugio. Non ha una ragazza o almeno così pensa il padre, dice anche che mi assomiglia.

– Tuo fratello non è con te?

– Esce con gli amici, è sabato.

– E tu?

Lancia un’occhiata preoccupata al ragazzo della funivia, hanno la stessa età. Ma lui non ci ha sentito, guarda fuori. Il vento fischia forte. Gli chiedo.

– La fermate?

Annuisce.

Lei è giù, non può risalire. Io su, non posso scendere. Tutta a piedi, non ce la faccio con la gamba. Potrei chiedere ad Albert di riportarmi con il gatto. Perché è scesa? Dove va? Stai calmo, Manfred, rifletti.

– Ti scoccia non guidare più, zio?

– No, solo non poter camminare come prima.

– Perché non ti fai fare una macchina speciale?

I ragazzi sono muli.

– Odio le macchine.

Viene qui da sola, va su al rifugio, scende quando decido di salire. Forse pensa di ritornare, e non sa che la funivia si ferma. E ora cosa fa? Prende la corriera, va in paese e ci resta la notte. Ci siamo guardati, mi ha fatto un gesto con la mano. Ti ha salutato, cretino, cosa doveva fare? Mi ha chiamato, non potevo sentire la voce, ma l’ho visto. Devo scendere giù a cercarla, non resisto. Non andarle dietro, Manfred, ricordati di tuo padre. Gustav non l’ha fatto.

Notte, due giorni prima che muoia. Siamo soli, è il mio turno. Mi sono addormentato sulla sedia vicino al letto. Mi sveglio e lui mi guarda, la voce forte di mio padre è un soffio.

– Manfred, vai a dormire.

– Dormivo.

– Vai a letto.

– Sto qui, dormi tu.

Mi fissa senza parlare. Poi, dopo un silenzio.

– Con tua madre non è andata come pensi, Manfred.

Voglio alzarmi, ma lui mi fa segno di sedermi. Gli devo ubbidire come da bambino, sta morendo.

– Aveva quell’uomo in testa, me lo dice lei, piange, mi chiede di aiutarla, non vuole lasciarvi. Vattene, le dico, tanto se resti non mi vedi più comunque.

Si ferma, non riesce a parlare, respira a fatica.

– Dietro a una donna, mai.

Appena ha finito di parlare, penso: vigliacco, ti ha chiesto di aiutarla a restare e non l’hai fermata.

Poi mi vergogno e gli dico.

– Hai fatto bene.

Si riaddormenta, lo guardo, mio padre, l’uomo che mi ha tolto la madre.

Non devi scendere a cercarla. È sola e libera, ha lasciato il marito, il figlio ormai è grande, va in giro a far danni. Si è tagliata i capelli. Perché è venuta?

Stiamo arrivando, il ragazzo della funivia mi guarda.

– La chiudiamo e vado giù. Se vuoi ti do un passaggio con la jeep, Manfred, scendere a piedi con questo tempo…

Le ruote si infilano nel carrello. Dietro a una donna, mai.

– No, salgo al rifugio con Christian.

Camminare fino al bar è una fatica. Sei coperta di neve in pochi secondi, il viso congelato. Dentro, qualche sciatore a bere e a scaldarsi. Non c’è nessuno in giro oggi, solo i più temerari. Lui e io. Mi siedo. So perché è salito, penso agli occhi spaventati che mi vedono attraverso il vetro della funivia, parole mute.

Sei tu, sei venuta, quanto tempo, dove sei stata, aspettami.

Mi siedo a un tavolo. Guardatemi pure, sono sola, senza sci, sono venuta a cercare un uomo.

– Vuol bere qualcosa?

Ingenuo il viso della ragazza che me lo chiede. Ero come lei. Col vestito a fiorellini, il grembiule, Marco nel passeggino. Sola, reggevo i giorni, uno dietro l’altro, senza capire dove mi portavano.

Le chiedo un cappuccino, pulisce il tavolo.

– Tra quanto parte la corriera?

– Mezz’ora.

Quanto lo aspetto? E se non viene? Marco, Silvia, se mi vedessero.

– Non è nostra madre quella donna seduta in attesa di un uomo.

E Mario? Mai ha capito che potevo andarmene, che per me niente era naturale. Tutta la vita ti resta la voglia di ballare, di fuggire, di ferire. Non li tradisco, nessuno di loro mi ha mai chiesto una promessa, lui sì.

– Non lo lasciare, il bambino.

La ragazza mi mette il cappuccino davanti.

– Quanto ci vuole a venire giù?

– La funivia è ferma.

– E se qualcuno vuole scendere?

– Con il gatto o le jeep.

– Quanto ci mettono?

– Con questo tempo un’ora.

Lo aspetto fino all’ultima corriera.

I fari del gatto di Albert si avvicinano, scompaiono dietro le curve, riappaiono ingranditi. Lo aspettiamo al freddo, zio e nipote, all’angolo del muro crollato della casamatta. La voce di mio padre.

– Si è combattuto su questi monti.

Ci prende qui, al ritorno da scuola. Stefan si addormenta dentro il bunker, anche se è bucato e fa freddo come fuori, ma il vento morde meno. È sera, la funivia è ferma come ora. Immagino spari, combattimenti, morti. Mi piace pensarci in guerra, noi quattro, contro il paese, la scuola, il mondo delle città in cui è sparita la madre. Alle feritoie, con i fucili e le bombe a mano, respingiamo chi vuol salire, l’estraneo, il nemico. Stefan fa il morto, Albert e io le sentinelle. Il generale scende dalla montagna, viene a salvarci. Seppelliremo Stefan davanti al rifugio con tutti gli onori.

Caduto per salvare la patria dei Sane dall’invasore.

Sogno un nemico che non viene mai, l’americano e lei sono lontani.

Forse ha degli amici che l’aspettano, è scesa dal rifugio per loro, prende la corriera, va in paese a raggiungerli.

Christian si è rimesso il cappello, batte i guanti. Gli dico.

– Dopo la scuola il nonno veniva a prenderci qui.

Mi lancia uno sguardo.

– Me lo ha detto papà.

Ognuno a fare gli stessi racconti ai figli, a legarli a queste pietre. Clara va via, fa bene.

– Che vai a fare al rifugio di sabato?

Ho voglia di provocarlo. Alza le spalle, qui può rispondere, siamo soli.

– Mi riposo. Ogni giorno dieci bambini da portare a sciare, le madri, i padri, non ne posso più di sentirli.

– Non ce l’hai la ragazza?

Mi fissa, non se l’aspetta questa domanda da me. Sta in silenzio per un po’.

– Mi ha lasciato.

I padri non sanno niente.

– Una del paese?

Ci pensa, non sa se fa bene a parlarmene, ma ne ha troppa voglia.

– Una di fuori, portava il bambino a lezione.

– Era sposata?

Annuisce. Non trovo le parole, cosa gli devo dire?

– Quanti anni più di te aveva?

Scrolla le spalle.

– Non lo so.

Abbassa la testa, si appoggia al muro, chiude gli occhi.

– Dove vi vedevate?

Gli viene da piangere.

– Aspettavo al bar, mi chiamava quando il bambino si era addormentato.

L’ultimo sorso, pagava, correva all’appuntamento. Quanto gli manca la donna, quanto manca a me. Un dolore lontano, da non ricordarlo, dai tempi della guerra tra i Sane e il resto del mondo. E poi il bacio sul letto dell’ospedale, la saliva. Appoggiati al bunker delle nostre infanzie, ricoperti di neve come soldati, pensiamo al calore dei corpi che si stringono dopo l’attesa.

I fari del gatto avanzano, fendono la neve. Mi volto verso il piazzale della funivia, la jeep è ancora ferma.

I vetri del bar sono appannati, col guanto apro un oblò nel vapore. Le piste deserte, la montagna nella nebbia, la corriera con i fari accesi pronta a partire, va giù in paese e risale l’ultima volta. Due corse per aspettarlo, poi il bar chiude. Me lo ha detto la più giovane, quella col viso ingenuo. Ha preso la tazza, infilato le monete nella tasca del grembiule.

– Aspetta qualcuno?

– No.

Poi ci ho ripensato.

– Sì.

Arrossisco.

– Partono altre corriere dopo questa?

Mi lancia uno sguardo sbrigativo come la risposta.

– Un’altra, poi per scendere c’è solo la jeep della funivia che porta giù anche noi.

Guardo i tre uomini al bancone, bevono e ridono con l’altra donna. Segue il mio sguardo.

– Non se ne vanno finché non li sbattiamo fuori, tutti i sabati così.

L’ultima corsa, con tre ubriachi. Manfred non ci pensa a scendere. Perché dovrebbe? Sarà andato dal fratello.

Mi affaccio all’oblò, sciatori ricoperti di neve staccano gli sci, entrano nella corriera. Dovrei andare con loro, in mezz’ora sono in paese, dormo all’albergo del primo giorno. Domani mattina torno al rifugio a prendere la valigia. Così era anche l’altra volta, al contrario. Col bambino non abbiamo niente per cambiarci, la nostra roba è rimasta nella casa in paese.

Quei giorni penso a lui prima di addormentarmi, desiderio, paura di incontrarlo. Dalla finestra alza lo sguardo, mi vede con i capelli dentro l’asciugamano. In quindici anni dimentico i dettagli, ora tornano, uno richiama l’altro.

Dalla montagna vado giù nella jeep col bambino addormentato. Lui non è con noi. A casa la macchina non arriva. Mi affaccio alla finestra, percorro con la mente il suo cammino molte volte. Avanti e indietro, quanto ci mette, dov’è, perché non arriva, come ora. Alla fine chiamo la polizia, non riesco a dormire, non posso.

Siamo sulla stessa strada, Manfred, io da un lato, tu dall’altro.

Non c’è motivo che scenda, tranne uno: sa che sono qui, mi ha incrociato, mi ha visto.

La corriera mette in moto, passa accanto alla finestra, scompare subito nella nebbia. I tre ubriachi nel bar cantano. Preghierina della sera.

Manfred, vieni giù, non lasciarmi con questi tre, non lasciarmi sola come tutti questi anni.

Gli ho detto.

– Vado dalla mia donna, Christian, è sabato sera, voglio stare con lei, dillo a tuo padre.

Ha annuito.

– Salutami Simon.

Ha pensato che parlavo di Luna, meglio così. Vorrei dirgli qualcosa, ha ancora gli occhi umidi, ma non c’è tempo. Il gatto si avvicina, non posso incontrare Albert e il ragazzo della funivia è uscito dall’impianto, va verso la jeep col tecnico. Corro con la mia gamba zoppa, accanto a me corre il bambino Manfred, le scarpe grosse battono il ghiaccio, sempre un numero in più, il berretto lascia fuori le orecchie, la madre ci soffia su per scaldarle. Mi fermo davanti alla jeep, la mano sulla portiera. Chi sono, dove vanno, non mi interessa, voglio solo un posto nella jeep.

– Vengo con voi.

Mi guardano.

– Dobbiamo caricare gli altri, al bar.

– Tranquilli, al bar scendo e prendo la corriera.

Sul sedile di dietro ho le allucinazioni, come prima quando correvo. Mi stringo le mani, ho paura di impazzire. I due davanti chiedono, parlano. Chiudo gli occhi, così mi lasciano in pace. Sussurra il tecnico all’altro.

– Povero Manfred.

Non lo sanno, vado dalla mia donna, è strana, non come quelle di qui, balla, è piccola, bruna e non ha le tette, mente, si dà le arie, si è tagliata i capelli. La devo acchiappare, fermare, stringere fino a farle male. Così a scuola sta con me, nel banco e in giardino. Gli altri non l’avvicinano, proprietà privata, non si tocca, roba di Manfred. Se non la trovo, mi ammazzo. Dovevo già morire, sono vivo per lei, allora se è venuta e non mi vuole, la uccido e poi la faccio finita anch’io, tanto la vita è una noia lunghissima, come questi due che parlano di niente, di neve, di impianti, di soldi.

Aspettami Marina, non ti lascio andare, prima ti spoglio e ti vedo, nuda come sei, nel bagno delle bambine, prima che ti tiri su le mutande e le calze, e diventi rossa per la vergogna, ma non aspetti altro, da quando siamo entrati a scuola, il primo giorno, e mi hai fatto lo sgambetto per farmi cadere, hai riso con le amiche, e io ti ho messo i grilli nella cartella e sei scoppiata a piangere e questa volta io ridevo di te. Ti trovo anche se scappi.

Un colpo, la jeep sbatte contro qualcosa. Ricadiamo all’indietro, si spegne il motore.

– Cos’è?

Idue sono ammutoliti dallo spavento. Scendo, le gambe affondano nella neve fino al ginocchio. Mi vengono dietro. Un albero crollato al centro della strada. La gamba finta non mi segue, cado, mi rialzo, la tiro fuori con le mani, faccio il giro, misuro la strada libera. In pochi secondi siamo bianchi. Urlo per superare il vento.

– Lo spostiamo di due metri e ci passiamo. Dove sono le corde?

Iltecnico non fiata. Il ragazzo segue gli ordini. Gli grido dove far passare la corda, non sul tronco, ma sui rami.

– Lo trasciniamo dai capelli, dove fa più leva.

Tiriamo, urliamo, bestemmiamo in coro, bastano due metri, ma si sposta piano e i piedi scivolano sul ghiaccio, affondano nella neve fresca. Se avessi due gambe li avrei mollati qui.

Sarei sceso correndo nella nebbia, uomo di neve, ghiaccioli nelle ciglia, capelli bianchi da vecchio, arrivo e non mi riconosce. L’abbraccio, mi sciolgo, chiazze d’acqua per terra, sono io, Manfred, non lo vedi?

Invece sempre con le macchine combatto, la mia condanna. Ora tiro come fossi appeso nel vuoto, a duemila metri dalla morte, e basta un soffio e sei finito. La pietra blocca la corda, non si muove se non la strattoni con tutto il corpo, muscoli, nervi, tendini, pensieri. Una volta, in parete, nel massimo dello sforzo, ho avuto un’erezione, come volessi scoparmi la roccia. Tira e pensa a Marina, a quanto sai tutto di lei, ti basta uno sguardo, e invece non la conosci per niente. E il bello è questo, sai tutto e niente della donna da cui stai correndo.

Maledetta corriera, sta lì e mi aspetta. Gli ubriachi sono già saliti, li sento urlare e ridere. L’autista li zittisce e loro ricominciano subito, mi ha chiamato dal finestrino.

– Non sale?, è l’ultima.

– Lo so, ma c’è ancora qualche minuto.

Il bar ha chiuso. Le donne aspettano la jeep che tarda. Hanno chiamato, un albero blocca la strada.

– Potrei aspettarla con voi.

Mi squadrano.

– Non è arrivato suo marito?

Ho fatto segno di no.

– Vuole che avvertiamo?

– No, grazie, forse è andato al rifugio.

Si sono lanciate uno sguardo.

– Non possiamo portarla, ci sono i due della funivia e abbiamo il carico.

– Altre jeep non scendono?

– Con questo tempo.

Salgo i gradini della corriera, tanfo di vino. Il pavimento nero di neve sciolta, tracce di scarponi nella melma. I tre stanno zitti quando passo, poi fischiano dietro le spalle. Supero una coppia di sciatori infreddolita, si tengono stretti. Vado in fondo, nelle gite scolastiche lì non ti controllano. Mi volto, dal finestrino la strada vuota. Non viene, è chiaro. L’ultima corriera, l’ultima jeep. Mi lascio cadere sul sedile ghiacciato. Tolgo il cappello, neve cade sui guanti.

Le mie sorelle mi prendono in giro.

– Sogni, Marina, vai fuori di testa.

Schiaccio grumi di neve sulla lana, piccole macchie d’acqua. Anche lui è come tutti gli altri, cosa ti credevi. Solo tu sai vivere quindici anni, madre, moglie, hai anche imparato a cucinare, fai funzionare la casa, lavori senza perdere un attimo, e tieni quell’uomo dentro. Lo tiri fuori quando puoi, nella vasca da bagno, stesa al sole, tra le righe di un libro che hai smesso di leggere e immagini una fine che non c’è.

La corriera si mette in moto, parte. Dovrei chiamare casa.

– Tutto bene, e voi?

Andiamo via, qui non ci torno più. Scivolo in un angolo, appoggio la testa al finestrino, chiudo gli occhi. Non c’è luce che rischiara la vita, solo fantasie di ragazza.

Una gita, seduta in fondo. In prima fila c’è un ragazzo che ti piace, chiudi gli occhi, non lo vuoi veramente, meglio pensarlo vicino a te. Un bacio immaginario, qualcuno nel pullman mette una canzone d’amore, può essere lui o un altro, non voglio costruire nulla, fidanzati, case, famiglie, chi ci pensa, solo un salto per raggiungerti, al suono della canzone. Appoggio la bocca sul vetro appannato, tante volte, labbra impresse sulla nebbia dei fiati, copro tutto il finestrino: questa sono io.

Stringo la giacca, mi stendo nell’angolo. Non è cambiato nulla da allora, sola sempre con le tue fantasie.

Chi li sopporta questi? In cinque tra sacchi di plastica, ridono e raccontano di come siamo stati bravi a liberare la strada dall’albero.

La ragazza si volta verso di me, la coscia sfiora la mia, è giovane.

– Sei forte, Manfred.

– Perché non sai com’ero con due gambe.

Ride. Gli altri fanno battute. Le piaccio. Dovrei chiudere la giornata con lei, per non far andare tutto in merda. Sono nato per prenderne chili in faccia. Mai buona una. Penso tanto, i pro, i contro, le possibilità, e alla fine tutto sbagliato, non hai capito niente, le cose vanno come vogliono loro. Guarda con Luna, ha vinto lei, l’albergo, il marito zoppo, i figli. Dovevi capirlo dalla partenza il tuo destino, dalla puttana che va via con l’americano. Invece non ti rassegni, corri, ti rovini le mani con le corde, la gamba buona è un pezzo di ghiaccio, l’altra te la possono staccare, e questa è la tua giornata di riposo. Resta nella merda, Manfred, ci sei abituato, non puoi venirne fuori.

I discorsi nella jeep. La donna più vecchia descrive gli acciacchi del marito, a ognuno allora viene in mente un parente che si è ammalato della stessa cosa, cugino, padre, madre, zio, cognato, amico, amico di un amico, cugino di un cugino. Di colpo sembriamo un’ambulanza. Mi fanno domande sul mio incidente, non gli do corda. Quanto piace alla gente farsi compatire, che ne ricavano? Cosa mi frega se sanno come mi sento, non sto meglio per questo. Ero sicuro di trovarla. Abbiamo spostato l’albero, mi getto nella jeep, urlo per tutto il tragitto e gli altri non capiscono perché.

– Accelera, vai che la corriera parte e non la prendo più, vai più forte!

Credono di rassicurarmi.

– Se è partita, ti portiamo noi fino a giù, ci stringiamo, Manfred, non ti preoccupare.

Se mi ha aspettato, non mi vede, l’ultima corriera deve prenderla per forza. Urlo e bestemmio che non sanno guidare, se avessi la gamba glielo farei vedere. Arriviamo, il piazzale della funivia deserto, il bar chiuso, le due che ci aspettano con i sacchi.

– E la corriera?

– È andata.

Mi guardo intorno, come lei potesse venir fuori dalla nebbia, da dietro la funivia ferma.

Caricano i pacchi, raccontano dell’albero.

Uno sull’altro, i nostri fiati, la puzza di birra che esce dai sacchi, e la corriera è andata. Sapere almeno se lei c’era, ci penso, e poi mi dico, glielo chiedo e basta.

– C’era una donna che aspettava?

Annuisce. Bruciano le mani, le guance, qualcosa dentro salta in gola. Lei aggiunge.

– Aspettava il marito.

Non è lei. Montagne russe, voli e precipiti. Mi stringo alla ragazza nella jeep, tra poco sono a casa, mi faccio una doccia, scendo giù ad aiutare Luna, spargo brecciolino tra le macchine per il gelo di domani mattina. Nessuno regala niente. Hanno ragione i miei, ringrazia che sei vivo. Anche se vivo o morto, certe volte non vedi la differenza. Cullano i discorsi degli altri, accompagnano il silenzio. Le curve ci gettano una sull’altro, ridono. La giovane alla vecchia.

– Se veniva pure quella, eravamo al completo.

– Chi?

– Quella che aspettava il marito, non voleva andarsene. Ma perché non lo chiama al telefono? Per me era strano, forse avevano litigato.

La giovane ride.

– O forse se n’era andato con un’altra.

Mi raddrizzo, la guardo.

– Com’era la donna?

– Bruna, piccola.