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La meta dell’anziana donna, Skálholt, sede del vescovo e della sua dotta scuola, con la sua dovizia di edifici in torba, accoglieva freddamente gli sconosciuti. La primavera era talmente inoltrata che la fanghiglia era già secca. Gli abitanti non badavano ai forestieri né ricambiavano il saluto degli ospiti di poco conto, passavano oltre come ombre o figure di sogno prive di favella, senza domandare quali notizie portassero. Tuttavia era rinfrancante respirare l’effluvio che promanava da quei luoghi, un misto di vapori di cucina, lezzo di pesce, puzzo di letame e fetore di rifiuti. Le casupole in torba ammontavano senza dubbio a centinaia, alcune sbilenche, con il tetto riarso e la struttura sconnessa, altre massicce, con il comignolo fumante e una folta copertura d’erba, seminuove. Su quelle terre marce svettava la cattedrale, con il suo legno incatramato, la torre campanaria e le lunghe finestre a ogiva.
La donna chiese indicazioni per il vescovado. Era una grande casa mansardata, anch’essa in torba, ma la facciata rivolta alla chiesa era rivestita di legno imbiancato a calce, con una fila di finestre a quattro riquadri posizionate a mezza altezza dal bel lastricato. Da lì si poteva guardare all’interno. Era tutto un luccichio di brocche e vasi d’argento, stagno e rame, scrigni finemente dipinti e mirabili opere di falegnameria, ma non si vedeva anima viva. La porta principale era doppia, con i battenti aperti su una seconda porta, fatta di legno pregiato e intagliato a draghi, un anello di rame sulla serratura. Alzando un braccio si arrivava all’altezza delle finestre superiori, quelle della mansarda, a due soli riquadri e con tendaggi chiari che in alto si congiungevano e in basso si separavano aprendosi.
Ora che la viandante era finalmente arrivata a destinazione, davanti alla porta del vescovado di Skálholt, e non le restava che bussare, fu come se fosse presa da un’esitazione; si sedette per terra sotto le finestre del vescovo, con le gambe nodose stese oltre il limite del lastricato e la testa che ciondolava sul petto. Era stanca. Dopo un po’ che stava lì, una donna si avvicinò chiedendole cosa volesse. L’anziana alzò lentamente lo sguardo e tese una mano per salutare.
«Questo non è luogo per vagabondi», disse l’altra.
Con uno sforzo l’anziana si alzò e chiese della moglie del vescovo.
«I questuanti devono rivolgersi all’arcidiacono», rispose la donna, un’energica giovane vedova che aveva tutta l’aria di rivestire funzioni importanti e godere di ottima salute.
«La moglie del vescovo mi conosce», insisté l’anziana.
«Come potrebbe mai conoscerti?» disse l’altra. «La moglie del vescovo non frequenta accattoni.»
«Dio è con me», rispose l’anziana donna. «E perciò posso parlare con la moglie del vescovo di Skálholt.»
«Lo dicono tutti i mendicanti», ribatté la donna di lì. «Ma io so per certo che Dio sta con i ricchi, non con i poveri. E la moglie del vescovo sa che se parlasse con i disgraziati non avrebbe tempo per null’altro, e Skálholt andrebbe in malora.»
«Eppure è venuta nella mia stamberga, l’anno passato, a parlare con me», disse l’anziana. «E se voi, mia buona madama, chiunque siate e comunque vi chiamiate, mi prendete per povera, vi mostrerò una cosuccia.»
S’infilò una mano in seno e tirò fuori il suo tallero, avvolto a più giri in un fazzoletto, e lo esibì.
«La moglie del vescovo non è in casa», disse allora l’altra donna. «È partita a cavallo insieme al vescovo, per andare all’ovest, da sua madre, a rimettersi in forze dopo questa tremenda primavera. Ci è capitato di trovare cadaveri qui sul lastricato, al mattino, quando ci svegliavamo. Tornerà solo in piena estate, quando il vescovo avrà finito il suo giro di visite pastorali all’ovest.»
La mano che reggeva il tallero si riabbassò piano e la donna venuta da fuori guardò la donna del luogo, con un tremolio alla testa, dopo tutta quella strada, e con la lingua secca a forza di recitare i salmi penitenziali del reverendo Halldór di Presthólar.
«Che abbiano ormai finito con le decapitazioni all’Alþingi?» disse infine.
«Decapitazioni? Di chi?» chiese la donna del posto.
«Di poveri diavoli», rispose la forestiera.
«Che ne so io di quando si decapitano i mascalzoni all’Alþingi?» disse la donna del posto. «Chi sei tu? Cosa vuoi qui? Dove hai preso quel tallero?»
«Dove sarà adesso quel nobiluomo di Copenaghen, quello che è venuto ad Akranes insieme al vescovo l’anno passato?»
«Non starai cercando Arnas Arnæus, brava donna? Ma sarà a casa sua con i suoi libri, a Copenaghen. Dove altro vuoi che sia? O sei forse una di quelle che aspettano che sbarchi un consolatore dalla nave che fa la spola da Eyrarbakki? Eh eh!»
«E dov’è la fanciulla snella che ha condotto nella nostra stamberga a Rein?»
La donna del luogo indicò le finestre della mansarda e abbassò la voce, ma quell’argomento bastò a scioglierle la lingua: «Se la fanciulla che stai cercando è Snæfríður, la figlia del magistrato, brava donna, è qui a Skálholt, e c’è chi dice che sia prossima alle nozze; gira perfino voce che stia imparando ad ambientarsi fra le contesse. Una cosa è certa: qui le è stato permesso di studiare latino, storia, astronomia e altre materie ben al di sopra della portata di ogni altra donna d’Islanda. Lei stessa si è lasciata sfuggire, questa primavera, che attendeva una certa cosuccia dalla nave di Eyrarbakki e perciò non le era possibile accompagnare la sorella all’ovest, per quanto desiderasse farlo. Eppure la nave di Eyrarbakki è arrivata da ormai una settimana e nessuno ha avuto notizie. In compenso quelli che quest’inverno si aggiravano qui intorno timorosi a sera tarda scorrazzano ora davanti alle nostre porte alla luce del giorno. E l’istitutore viene convocato sempre più di rado. Più è alta l’arrampicata, più è rovinosa la caduta. Così va il mondo, brava donna. A me è stato insegnato che la virtù sta nella moderazione.»
Fu così che l’anziana donna venne condotta alla camera di Snæfríður, la figlia del magistrato, al piano superiore del vescovado, dove la trovò seduta in poltrona, vestita di seta a fiori, intenta a ricamare una cintura a riquadri. Era incredibilmente magra, con un petto quasi inesistente; il colorito dorato dell’autunno prima aveva lasciato il posto a un delicato pallore, e anche l’azzurro degli occhi si era schiarito. L’espressione era priva di gioia, lo sguardo assente, le labbra chiuse, senza più traccia del sorriso che era loro connaturale, anzi, il volto era teso come in uno sforzo artificioso. Da una distanza incommensurabile la donna guardò la figura incartapecorita che stava sulla sua porta con una sacca vuota e i piedi sanguinanti.
«Cosa vuole questa vecchia?» chiese infine.
«Madamigella non riconosce questa vecchia?» chiese l’ospite.
«Chi mai in Islanda distingue una vecchia dall’altra? Chi sei?»
«Madamigella non ricorda una casupola ai piedi di un monte in riva al mare?»
«Ne ricordo cento», rispose la giovane. «Mille. Chi sa distinguerle?»
«Una fanciulla di nobil schiatta si ritrova un giorno d’autunno in un’umile casupola e reggendosi all’uomo più illustre d’Islanda, nonché migliore amico del re, dice: “Amico mio, perché mi trascini in questa casa spaventevole?” Era la casa di mio figlio Jón Hreggviðsson.»
La damigella posò il ricamo e si abbandonò contro lo schienale della poltrona per riposarsi, le sue lunghe dita quasi trasparenti pendevano dai braccioli intagliati, indifferenti alla vita della nazione. Portava un grosso anello. L’aria della camera era greve di muschio e nardo. «Cosa vuoi da me, donna?» chiese mollemente dopo un lungo silenzio.
«È raro che una del sud arrivi così tanto a est», disse la vecchia. «Ho fatto tutta questa strada per pregare madamigella di salvare mio figlio.»
«Io? Tuo figlio? Da cosa?»
«Dalla scure», rispose la donna.
«Quale scure?» chiese la damigella.
«So che madamigella non schernirà una vecchia, per quanto sciocca.»
«Non capisco di cosa stai parlando, brava donna.»
«Vostro padre intende far decapitare mio figlio a Þingvellir sull’Öxará.»
«La cosa non mi riguarda. Ne fa decapitare tanti…»
«Madamigella è forse destinata ad avere il figlio più bello fra tutti gli islandesi», disse la vecchia.
«Sei venuta qui a portare malaugurio?»
«Dio mi scampi dal portare malaugurio a madamigella. Non immaginavo neppure di vedervi. Ho fatto tutta questa strada per incontrare la moglie del vescovo, perché nessuna donna è così potente da non capirne un’altra. Speravo che lei, in quanto figlia del magistrato e moglie del vescovo, ricordasse di essere entrata in casa mia e di avermi guardata con compassione, ora che mio figlio sta per essere decapitato. Ma visto che è partita non resta più nessuno che possa aiutarmi, se non madamigella.»
«Da dove ti viene mai quest’idea che io o mia sorella, due femmine insignificanti, possiamo influire sulle leggi e sulla giustizia?» disse la giovane. «Se tuo figlio viene decapitato, non sarà certo senza ragione. Neppure a un figlio mio verrebbe condonato un reato, quand’anche fosse il più bello fra tutti gli islandesi. E nemmeno a me. Non fu forse decapitata la regina di Scozia?»
«Madamigella può influenzare le leggi nazionali, può influenzare le decisioni del tribunale», disse l’anziana. «Gli amici del re sono amici di madamigella.»
«La scena diurna non è luogo per me, lì regnano gli uomini potenti, chi con le armi, chi con i libri», ribatté la giovane. «A me dicono: “Tu sei la bionda donzella.” Dicono: “Il tuo regno è la notte.”»
«La notte, a quanto si sente in giro, regna sul giorno», replicò la vecchia. «È al mattino che si loda una fanciulla.»
«Io sono una donna che verrà lodata quando sarà arsa», disse la giovane. «Vattene, madre benedetta, torna da dove sei venuta.»
In quella si sentì arrivare qualcuno a cavallo nel cortile e sbraitare ordini a uno stalliere. La damigella sussultò, strinse una mano a pugno e se la portò alla guancia. «Dunque è arrivato», mormorò. «E sono sola.»
In men che non si dica i passi degli stivali si avvicinarono su per la scala, misti a uno sferragliare di speroni, e la porta si spalancò prima che la giovane avesse il tempo di lisciarsi la veste, accomodarsi i capelli o ridare il giusto contegno al viso.
Era alto di statura, con spalle larghe e corporatura robusta, ma lievemente ingobbito, come se avesse reputato eccessivo sussiego tenere una postura eretta, lo sguardo obliquo e torvo non dissimile da quello di un toro, e l’andatura sgraziata.
«Ciao», disse con una vocetta arcigna, distogliendo lo sguardo con una smorfia schizzinosa, alla maniera di quei vanesi per i quali nulla è alla loro altezza, neppure la più distinta fanciulla d’Islanda. Esalava un vago odore d’acquavite. Portava stivaloni a suola doppia, una lercia gorgiera, un mantello azzurro dalle maniche a sbuffo e una parrucca lunga e voluminosa, secondo la moda dei danesi più leziosi, così alta da costringerlo a reggere con una mano il cappello piumato. Anziché fare alla damigella l’inchino e il baciamano, indicò l’estranea e nello stesso tono con cui aveva salutato chiese: «Chi è questa vecchia?»
La damigella aveva lo sguardo perso nel vuoto con un’espressione gelida che mai avrebbe rivelato alla luce del giorno ciò che custodiva nel cuore, perciò il cavaliere andò dritto dalla cenciosa poveretta, le puntò al petto il manico del frustino mentre lei, tutta curva, si sorreggeva al bastone, e le domandò: «Vecchia, chi sei?»
«Non fatele del male», disse la figlia del magistrato. «Sta parlando con me. Sto parlando con lei. Come ti stavo dicendo, vecchia, perfino la regina di Scozia è stata decapitata. Potenti monarchi sono stati decapitati, e così pure i loro migliori amici. Nessuno può salvare gli altri dalla scure. Ciascuno deve salvare se stesso, o essere decapitato. Magnús di Bræðratunga, date a questa donna un quarto di tallero e accompagnatela alla porta.»
Senza dire una parola il cavaliere prese una moneta dalla borsa e la consegnò alla donna, poi la fece uscire e richiuse la porta.