7
Era un mattino grigio quando Jón Hreggviðsson e lo stregone vennero ripescati dalla segreta di Bessastaðir, messi a cavallo e trasferiti all’assemblea sull’Öxará. Poi cominciò a piovere. Arrivarono verso sera, bagnati. Per Jón Hreggviðsson, che aveva ucciso il boia reale, c’erano ordini speciali. Considerato più infido degli altri delinquenti, venne messo sotto sorveglianza individuale e isolato in una tenda dietro l’alloggio del governatore generale. Appena arrivato fu messo ai ceppi. Davanti all’ingresso della tenda, seduto su una roccia, c’era un colosso con una pipa d’argilla in bocca, accanto a un braciere in cui ardevano alcuni rametti che lui badava bene a tenere accesi. Con la coda dell’occhio controllava il prigioniero, in silenzio, e fumava.
«Dammi da fumare», gli disse Jón
Hreggviðsson
.
«A me nessuno dà da fumare; io il mio tabacco me lo pago», rispose il guardiano.
«Allora vendimelo.»
«Dove sono i soldi?»
«Ti darò un agnello dopo la demonticazione.»
«Non se ne parla. Sarebbe già tanto se ti ficcassi la pipa in bocca per uno scellino sonante», disse il guardiano. «Ma mai e poi mai farò credito a un decapitato, com’è vero che mi chiamo Jón Jónsson.»
Jón Hreggviðsson lo scrutò per qualche istante, poi scoppiò a ridere con un luccichio negli occhi, un baluginio dei denti bianchi e uno sferragliare di catene, e cominciò a declamare versi.
L’indomani il magistrato, la sua corte e gli emissari del re si sedettero a un tavolo traballante nell’edificio marcio, infiltrato d’acqua e gelido del tribunale, che l’anno prima era stato spogliato della sua campana. Di questi notabili solo due indossavano un buon mantello: il magistrato Eydalín e il governatore generale di Bessastaðir, che oltretutto era l’unico con la gorgiera. Gli altri portavano quasi tutti una sciarpa, un soprabito di misero taglio o un farsetto da viaggio liso; uno o due prefetti avevano mani morbide e pelle candida, ma i più erano illividiti dal tempo inclemente, ossuti, con mani callose e incrostate, brutte facce – benché ciascuna a proprio modo – e arti nodosi. Alcuni erano alti e altri bassi, alcuni avevano un viso largo e altri affusolato, alcuni erano biondi e altri mori, ma pur formando una farragine dei più disparati tipi umani, tutti mostravano il comune tratto caratteristico del loro popolo: pessime scarpe. Perfino il magistrato Eydalín, con il suo nuovo mantello straniero, aveva stivali vecchi, crepati, deformi e incartapecoriti dall’incuria, mal suolati e lerci di annosa lordura. Solo il governatore generale, che era danese, portava stivali alti e lucidi, di pelle morbida e appena ingrassata, con risvolti alle ginocchia e speroni d’argento ben lustrati. In piedi davanti a questi grandi uomini d’Islanda c’era uno straccione in una veste lacera stretta in vita da una corda di crine, scalzo e con i piedi neri, polsi gonfi e ulcerati, mani piccole, capelli e barba del colore del carbone, volto cinereo, occhi bruni, espressione decisa e rude.
Furono presentati alla corte i documenti sul suo caso che erano stati redatti a Kjalardalur l’autunno prima. Nella sentenza pronunciata dal prefetto all’assemblea del Þverá, contro la quale Jón Hreggviðsson intendeva ricorrere in appello di fronte alla magistratura dell’Alþingi, l’imputato era stato condannato a morte, e il verdetto si basava sulle deposizioni di sei uomini, fedeli prelevati dalla chiesa di Saurbær che avevano ispezionato il cadavere di Sigurður Snorrason in quella prima domenica d’inverno. I suddetti uomini avevano testimoniato sotto giuramento che il corpo del boia era già stecchito quando l’avevano visto nel ruscello che corre a est delle campagne di Miðfell, nel mandamento di Strönd, sotto la giurisdizione del Þverá, e che gli occhi, il naso e la bocca erano chiusi, ma la testa era ben eretta e stranamente rigida. Si era inoltre attestato che il giorno precedente, a Kjalardalur, appena prima che il defunto fustigasse Jón Hreggviðsson, quest’ultimo aveva rivolto al suo boia provocazioni e minacce, pur senza scendere nello specifico, maledicendolo in nome del diavolo e dicendo che avrebbe ricevuto degna ricompensa prima di avere il tempo di fare il nodo per la sua ultima sgualdrina, la più grassa. In più venne letta la testimonianza giurata con la quale il gran signore Sivert Magnussen dichiarava che la sera del delitto, quando erano ripartiti da Galtarholt, Jón Hreggviðsson e Sigurður Snorrason avevano fatto prendere ai loro cavalli una strada diversa da quella dei compagni di viaggio e si erano allontanati nel buio. Da ultimo si assodò che Jón Hreggviðsson aveva svegliato la gente di Galtarholt appena prima dell’alba in groppa alla cavalcatura di Sigurður Snorrason e con il suo cappuccio in testa. Dodici uomini erano stati convocati all’assemblea di Kjalardalur per votare sotto giuramento in favore della colpevolezza o innocenza di Jón Hreggviðsson riguardo alla morte di Sigurður Snorrason, e il loro voto giurato sanciva la convinzione che gli orifizi facciali di Sigurður Snorrason fossero stati chiusi da opera umana, attribuibile a Jón Hreggviðsson più che a chiunque altro.
Il magistrato se ne stava lì assiso con cappello e parrucca, occhi arrossati e un po’ di sonno arretrato, a giudicare dallo sbadiglio che represse nel chiedere all’imputato se avesse qualcosa da aggiungere alla dichiarazione rilasciata precedentemente a Kjalardalur. Jón Hreggviðsson ripeté che non aveva alcuna memoria di quanto gli era stato ascritto sotto giuramento, né di aver rivolto provocazioni o minacce a Sigurður Snorrason prima della flagellazione, né di essersi allontanato dagli altri uomini insieme a lui nel buio. Ricordava una sola cosa di quella cavalcata notturna, e cioè che nelle tenebre i compagni di viaggio erano incappati in un esteso acquitrino, e che lui aveva dato un consistente contributo al ripescaggio del gran signore Sivert Magnussen dalla torbiera in cui quella onorabilissima colonna del distretto era precipitata, in mezzo ai cani putrefatti – operazione che l’imputato dichiarava essere andata comprovatamente a buon fine. Dopo aver finito di soccorrere quella preziosissima vita umana, Jón Hreggviðsson si era accinto a risalire in groppa alla sua rognosa ronzina, e l’ultima cosa che ricordava era che la giumenta si era imbizzarrita, oltre a essere inspiegabilmente cresciuta di dimensioni nella quiete della notte, diventando perciò impossibile a scalarsi, tanto che non gli sovveniva, in effetti, di essere riuscito a rimettersi in arcione. Quanto ai compagni di viaggio, non aveva più avuto loro notizie, perché a quel punto si erano dileguati tutti quanti. La cosa più verosimile, a suo avviso, era che fosse stramazzato a terra e si fosse addormentato. Quando aveva riaperto gli occhi, in cielo c’era il primo lucore dell’alba. Si era alzato, aveva scorto uno straccetto nell’erba e l’aveva raccolto; era il cappuccio di Sigurður Snorrason e se l’era messo in testa perché aveva perso il suo. A breve distanza aveva visto apparire un quadrupede e si era incamminato in quella direzione, ed era il cavallo del boia con cui aveva raggiunto Galtarholt. Jón Hreggviðsson dichiarò infine che questo era tutto quanto aveva da riferire sugli avvenimenti di quella notte, e che qualunque altra cosa fosse accaduta trascendeva la sua cognizione. «Chiamo a testimone», disse, «quel Signore che ha creato il mio spirito e il mio corpo e li ha premuti insieme formando un solo…»
«No, no, no, Jón Hreggviðsson», lo interruppe il magistrato Eydalín. «Non sta a te invocare il Signore, qui.»
Quindi ordinò di condurre fuori il prigioniero.
Dopo aver rimesso ai ceppi Jón Hreggviðsson, il guardiano si sedette sulla roccia dinanzi all’ingresso della tenda, riattizzò le braci e si mise a fumare.
«Ficcami in bocca quella pipa, una buona volta, maledetto, e avrai una pecora», disse Jón Hreggviðsson.
«Dove sta questa pecora?» disse l’uomo.
«In montagna», rispose Jón Hreggviðsson. «Ti firmo una cambiale.»
«Dove sta lo scrivano?»
«Portami un foglio e te lo scribacchio io.»
«E poi mi tocca inseguire la bestia su per le montagne reggendo la cambiale?»
«Cos’altro vuoi?» chiese Jón Hreggviðsson.
«Io accetto solo moneta sonante», rispose il guardiano. «Ancor più dai morti. Com’è vero che mi chiamo Jón Jónsson. Adesso taci.»
«Dovremmo riparlarne.»
«Io non ho altro da dire.»
«Dovresti chiamarti Cane Figlioduncane», disse Jón Hreggviðsson.
Questo accadeva l’ultimo giorno dell’Alþingi.
A sera vennero pronunciate le sentenze e verso mezzanotte Jón Hreggviðsson fu trascinato di nuovo in tribunale per ascoltare la sua.
«Compiuti minuziosi accertamenti e viste le prove», recitava il verdetto, «ascoltati testimoni attendibili sulle svariate malefatte di Jón Hreggviðsson, il magistrato e la corte stabiliscono all’unanimità, invocando la grazia dello Spirito Santo, che Jón Hreggviðsson è il comprovato colpevole e assassino del defunto Sigurður Snorrason.» Il tribunale confermò in ogni punto il verdetto del prefetto, con delibera di esecuzione immediata.
Data l’ora tarda e la necessità di riposo dopo tanto lavoro, il magistrato chiese però di rimandare l’esecuzione al mattino, suggerendo al boia e ai suoi aiutanti di sfruttare la nottata per portare i loro ferri del mestiere a uno stato di manutenzione ottimale. Così Jón Hreggviðsson venne ricondotto alla sua tenda dietro l’alloggio del governatore generale e rimesso ai ceppi per quell’ultima notte. Il guardiano Jón Jónsson si sedette sull’ingresso, con il generoso deretano all’interno della tenda, e si rimise a fumare.
Jón Hreggviðsson aveva il bianco degli occhi insolitamente rosso e imprecava a mezza bocca, ma il guardiano non gli prestò attenzione.
Alla fine il bifolco non riuscì più a frenare la lingua e disse in tono astioso: «Belle maniere, prepararsi a decapitare un uomo e non offrirgli nemmeno un po’ di tabacco.»
«Comincia a recitare le tue preghiere e coricati», gli rispose il guardiano. «Il prete arriva all’alba.»
Il morto non replicò e ci fu un lungo silenzio, a parte i colpi ritmici di una scure che si abbatteva su un ceppo, producendo un’eco metallica contro la parete della scarpata nella quiete della notte.
«Cosa sono questi colpi?» chiese Jón
Hreggviðsson
.
«Domattina c’è da mettere al rogo uno stregone dell’ovest», disse il guardiano. «Stanno spaccando la legna.»
Poi tornò il silenzio per un po’.
«Ti do la mia giovenca, in cambio del tabacco», disse Jón Hreggviðsson.
«Che scemenze sono queste?» disse Jón Jónsson. «Cosa te ne fai del tabacco se praticamente sei già morto?»
«Ti do tutto ciò che possiedo, buon uomo. Va’ a prendere un pezzo di carta e ti scribacchio un testamento.»
«Dicono tutti che sei un poco di buono. E che di te non c’è da fidarsi.»
«Ho una figlia», disse Jón Hreggviðsson. «Una figlia giovane.»
«Sarai anche furbo come dicono, ma non mi gabbi, me.»
«Ha gli occhi come due stelle», continuò Jón Hreggviðsson. «Belli grandi. E il petto alto. Jón Hreggviðsson di Rein chiama padron Cristo a testimone del suo ultimo desiderio: darla in moglie a te, Jón Jónsson.»
«Che tipo di tabacco è quello che vorresti?» domandò allora il guardiano con una certa esitazione, girandosi a sbirciare con un occhio solo dentro la tenda. «Eh?»
«Ovviamente l’unico tabacco che può desiderare un condannato a morte», rispose Jón Hreggviðsson. «Quello che tu solo puoi vendermi, vista la situazione.»
«Allora sarei io a finire decapitato», disse il guardiano. «E se anche la scampassi, chi convincerebbe la ragazza a dirmi di sì?»
«Se vede una mia lettera, dice sì a qualunque cosa ci sia scritta», rispose Jón Hreggviðsson. «Ama e rispetta suo padre sopra ogni altra cosa.»
«Non ne ho già abbastanza di quella vecchia ciabatta di moglie che ho nel Kjós?» disse il guardiano.
«Di quella mi occuperò io, questa notte stessa. Non dovrai più preoccuparti di lei.»
«Stai minacciando di uccidere mia moglie, brutto delinquente? E di mandarci me, sul patibolo? Le tue proposte sono solo miraggi, come tutto ciò che viene dal diavolo. È una benedizione del cielo che un mascalzone della tua specie non abbia la possibilità di diventare vecchio.»