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L’avventura tra i tedeschi
Era inverno inoltrato quando Jón Hreggviðsson si ritrovò in mezzo ai tedeschi. In Olanda, per sostentarsi, aveva saltuariamente preso impiego come bestia da soma, ma senza ricavarne granché, dato che gli olandesi, per agiati che possano essere, sono anche spilorci, com’è usanza dei facoltosi proprietari terrieri, e dunque riluttanti a pagare il salario ai lavoranti. Per contro, chi ha fortuna può mettere le mani su qualcosa di buono senza troppo sforzo, perché in Olanda, per via di questa stessa prosperità, c’è meno motivo di temere i furti rispetto all’Islanda. Così Jón Hreggviðsson aveva avuto modo di rubare un bel paio di stivali a un duca che aveva il controllo di tre distretti di campagna. Nei possedimenti di quest’uomo, che era invisibile come tutti i grand’uomini d’Olanda, si era fatto assumere come garzone, ma era poi fuggito per la fame, appurando che tanto in Olanda quanto in Islanda i ricchi lesinano sul cibo. Aveva trovato gli stivali in mezzo a un mucchio di ciarpame e li aveva nascosti in un roveto per due settimane, finché non se l’era filata. Non si era arrischiato a calzarli prima di aver messo tra sé e il duca almeno due giorni di cammino, tenendoli in una sacca che portava sulla schiena. Ma quando il tempo era peggiorato e la marcia si era fatta più difficile, gli stivali si erano dimostrati assai utili in una terra che, pur essendo più docile dell’Islanda, ha fanghi gelidi, soprattutto con l’avanzare dell’autunno.
C’era una fine acquerugiola e il giorno volgeva al termine. Il viandante era già zuppo, gli stivali del duca fradici e appesantiti dal fango. Davanti a lui, nella nebbia fredda e nel buio, l’attendevano le Germanie, dove vivono gli uomini più bellicosi al mondo. E Jón Hreggviðsson non aveva in mano neppure un bastone. Aveva una gran fame. La cittadina di frontiera era costituita da appena una strada, una chiesa e una locanda per viaggiatori. Grosse carrozze chiuse stavano ripartendo dopo una sosta senza pernottamento, dirette verso l’impero, trainate da doppie quadriglie sbuffanti, trasportando uomini opulenti e ben abbigliati, con mogli eleganti ed enormi forzieri. Le signore si accomodavano fra cuscini e trapunte, mentre i signori si toglievano la cintura, la spada e il cappello piumato, appendendo il tutto ai ganci fissati sopra i sedili, da buoni nobiluomini, dopodiché si partiva. Jón Hreggviðsson meditò di ordinare una di quelle grandiose bevande asiatiche chiamate «tè», visto che aveva in saccoccia qualche monetina, ma non lo lasciarono entrare.
Si fermò davanti alla chiesa a imprecare, quando all’improvviso gli giunse alle narici un profumo di pane caldo. Si guardò intorno e lasciandosi guidare dal naso trovò una panetteria dove un uomo e una donna stavano sfornando filoni. Ne comprò uno, poi si presentò alla porta di un’abitazione povera, scroccò un po’ di birra calda per accompagnare il pasto, e mangiò e bevve sulla soglia, perché la gente di casa aveva visto che era un ladro e un assassino e non voleva lasciarlo entrare. Il cane di famiglia, dalla cucina, continuò ad abbaiargli contro e svegliò tutto il pollaio, e il gallo – il marito delle galline – cantò.
Jón Hreggviðsson s’infilò in saccoccia l’avanzo del pane, diede la buonanotte e rifocillato tornò sotto la pioggia, accodandosi alle carrozze postali. Queste imboccarono un cancello sulla strada, dove due soldati olandesi con moschetti dall’otturatore a miccia lasciavano passare chiunque. Dall’altra parte del cancello, dietro un boschetto, c’era una radura brulla su cui sorgeva un castello circondato da un fossato. Un ponte di accesso permetteva alla strada di arrivare fino al cuore del castello. Nelle nere lanterne coniche fissate sul grande portale di pietra ardevano fiammelle che, viste attraverso l’acquerugiola, apparivano come bioccoli di lana dorata screziati d’azzurro. La strada che passava dal portale era lastricata, perciò i cerchioni in ferro delle carrozze che vi transitavano facevano un gran rumore e sprigionavano scintille. Il castello aveva un tetto piatto, bordeggiato da un parapetto con aperture per catapulte e cannoni. Quelli erano i cancelli di Germania.
Al portale c’erano uomini armati di tutto punto, alle cui spalle stavano altri con vesti sgargianti, registri protocollari, rotoli e penne d’oca per annotare i nomi. Le carrozze postali erano già passate. I soldati tedeschi erano colossi con enormi elmi sormontati da una punta simile a quella di una lancia, e lunghi baffi arricciati che assomigliavano a corna di montone. Jón Hreggviðsson si fermò davanti a loro e guardò al di là del portale, poi fece per riprendere il cammino, ma quegli uomini gli puntarono simultaneamente le lance al petto e lo apostrofarono nella lingua dei tedeschi. Lui non seppe come replicare. Gli misero le mani addosso e lo perquisirono, ma senza trovare altro che pochi spiccioli olandesi, che si spartirono. Poi diedero fiato alle trombe. A quel punto si aggiunse a loro un omaccione dal volto violaceo. Volevano consegnargli Jón Hreggviðsson, ma lui rispose sgarbatamente, dando inizio a un battibecco in cui il bifolco colse soltanto la parola hängen , che significa «impiccare». Finì che l’ultimo arrivato fu costretto a prendere in custodia Jón Hreggviðsson e così, premendogli sulla schiena la punta della spada, lo spinse avanti a sé, all’interno del castello, su per un’ampia scalinata fiocamente illuminata, lungo una serie di gallerie, corridoi e ballatoi verso un’ala remota della fortificazione, fino a uno stanzone con una fila di feritoie che lasciavano entrare il vento e la pioggia; spintonò Jón Hreggviðsson oltre la soglia. Era buio, a parte il chiarore della lanterna dell’omaccione. Ma quando fece per chiuderlo dentro, Jón Hreggviðsson piantò un piede fra lo stipite e la porta, e in olandese pretese una spiegazione. Com’è costume tra frontalieri, l’uomo sapeva usare entrambe le lingue, se voleva, e gli rispose che non avrebbe varcato una seconda volta quella soglia. Spiegò che purtroppo chi si occupava delle impiccagioni era irreperibile; quel giorno lui e il suo apprendista avevano messo alla forca così tanta gente che erano esausti, se n’erano andati a casa a dormire. Detto ciò, la guardia taurina gli spinse la punta della spada contro il ventre per farlo indietreggiare dalla porta e gli augurò la buonanotte.
«Ehi!» gridò Jón Hreggviðsson, per prolungare la conversazione. «Dovresti prendere in mano la situazione, amico, e impiccarmi tu. Magari posso aiutarti.»
Ma quello era solo una sentinella, o meglio un Wachtmeister , per dirla in tedesco, e non aveva l’autorità di boia né le prerogative di quella carica, perciò disse che nessun potere umano né di nostro Signore Iddio poteva costringerlo ad assumersi una mansione affidata ad altri o a mancare ai doveri di Wachtmeister assegnatigli dall’imperatore. «Ma cos’hai lì, sulla pancia?»
«Giù le mani», rispose Jón Hreggviðsson. «È il mio pane.»
«E che diamine te ne fai, tu, del pane?» disse il Wachtmeister. «Tanto t’impiccano domattina. Te lo confisco io, questo pane, in nome dell’imperatore.» Gli puntò la spada al petto mentre gli infilava l’altra mano sotto la camicia per prendere l’avanzo di filone. Poi la rinfoderò e cominciò a divorare il maltolto. «Accidenti quant’è buono questo pane. Dove l’hai trovato, questo pane?»
«In Olanda», rispose Jón Hreggviðsson.
«Già, siete dei pantofolai, voi olandesi», disse il Wachtmeister. «Avete in mente solo il pane. Noi tedeschi manco ci pensiamo, al pane. Valgono di più i cannoni, del pane. Senti, non è che per caso sotto la camicia tieni anche un pezzo di formaggio?» Perquisì nuovamente il prigioniero, ma di formaggio non ne trovò. «Prima o poi», riprese, mentre masticava, «prima o poi verrà il giorno che noi tedeschi glielo faremo vedere, a tutti i mangiapane come voi olandesi, che fine si fa quando si ha in mente solo il pane. Vi schiacceremo. Vi raderemo al suolo. Vi annienteremo. Hai qualche soldo?»
Jón Hreggviðsson gli disse le cose come stavano, ovvero che gli uomini dai vestiti sgargianti l’avevano rapinato di quei pochi spiccioli.
«Sì, lo so», disse il Wachtmeister. «Quei miserabili doganieri, mi sa che non lasceranno niente ai bambini poveri.»
In quel momento si sentì qualcuno che gridava da fuori: «Fritz von Blitz? Continuiamo la partita?»
Il Wachtmeister gridò in risposta: «Arrivo!»
«Tu te ne stai qui buono buono, finché non torna il boia», disse a Jón Hreggviðsson. «E bada bene che se provi a saltare giù dalla finestra, ti ammazzi. Ora devo proprio andare. Il mio compagno di gioco comincia a perdere la pazienza.»
Detto questo, la guardia taurina indietreggiò e chiuse a chiave la pesante porta in rovere. Jón Hreggviðsson imprecò per un lungo momento, sia ad alta voce sia mentalmente. Poi cominciò a prendere familiarità con quell’alloggio ventoso e gelido. Andò più volte a sbattere contro oggetti massicci che penzolavano dal soffitto come quarti di montone in un affumicatoio, e oscillavano ogni volta che li urtava. Caso volle che proprio allora la luna occhieggiasse attraverso la nebbia piovigginosa, gettando un pallido chiarore sui volti di alcuni uomini legati lassù. Erano appesi alle travi, a testa inclinata e mandibola floscia, con le facce gonfie e gli occhi bianchi, le mani legate dietro la schiena e gli alluci puntati all’ingiù, in quella ridicola vulnerabilità che fa venire voglia di dar loro una spinta per vederli dondolare invece di recidere le corde e liberarli. Jón Hreggviðsson li passò in rassegna, tastando i loro piedi nell’eventualità che qualcuno avesse scarpe utilizzabili – più per un’inveterata abitudine da uomo delle campagne che per la convinzione di avere davvero bisogno di un paio di calzature – e comunque le scarpe di quegli uomini erano in condizioni tutt’altro che invidiabili.
Il bifolco non riusciva a farsi venire in mente neppure un modo per ingannare il tempo di quella nottata in un edificio tanto tetro; in un posto del genere perfino le Rímur di Pontus anteriori sarebbero parse grottesche. Tuttavia ricordava di aver sentito che può essere utile «sedere sotto un appeso», come si dice in Islanda, ossia piazzarsi ai piedi di una forca da cui pende un impiccato: era il metodo con cui il malvagio re Odino, e altri celebri anziani e maestri del tempo che fu, ottenevano rivelazioni di ogni genere. Ebbene, Jón Hreggviðsson decise di ricorrere a quello stesso espediente. Scelse il morto più lontano dalla porta, in modo da poter appoggiare la schiena al muro mentre attendeva le rivelazioni. Ma, esausto com’era, non appena si sedette sulle pietre del pavimento sentì piombargli addosso un torpore letargico. Si assopì sotto l’appeso, con il mento sul petto e le spalle contro il muro. La luna si era nuovamente coperta e nello stanzone c’era buio pesto. Dopo aver dormito per un po’, venne svegliato da uno scricchiolio alla trave sopra di lui, e in un batter d’occhio l’impiccato si slegò, balzò a terra e senza tergiversare andò dritto da Jón Hreggviðsson. Lo pestò con tutte le forze, ricorrendo al vigore che caratterizza i morti. Lo percosse con violenza sempre crescente mentre cantava la seguente strofa:
Spasso v’è all’appeso
nella sala degli spettri.
Mai vi fu un riappeso,
due volte seppellito.
Battiamo, benappesi,
del malappeso il cuore,
duro come ghianda
in petto al non appeso.
Battiam la dura ghianda
di Hreggviður della prole .
«Hai picchiato abbastanza», gridò Jón Hreggviðsson , che sotto quel pestaggio era sul punto di soffocare. Riuscì a svincolarsi e ad afferrare il morto per il petto, e si azzuffarono con tanta brutalità da sollevare le pietre del pavimento, mentre gli altri impiccati scendevano dalle loro corde e intrecciavano intorno a loro una danza scomposta, recitando orribili strofe con una versificazione rozza e contenuti discutibili. La scena si protrasse a lungo e Jón Hreggviðsson non ricordava di essersi mai trovato in mezzo a una ridda tanto furiosa, finché quel diavolaccio lo strattonò a tal punto che il bifolco credette di non poter resistere a un tale avversario. Del resto si trattava di dimostrare chi per sorte aveva già la vittoria in tasca e chi invece era destinato a soccombere, come l’appeso aveva già affermato nella sua strofa: chi è stato impiccato non finisce sottoterra una seconda volta, per quanto si tenti di rimandarcelo. L’unica speranza di Jón Hreggviðsson era quella di sottrarsi alla morsa del nemico e tentare la fuga. Dato che i morti sono assai meno scattanti di quanto non siano forti le loro prese nella lotta, il bifolco riuscì finalmente a liberarsi, corse alla finestra, s’issò nella strombatura, che era a portata di braccio, e si gettò fuori senza neppure preoccuparsi di cosa ci fosse di sotto. L’acqua del fossato schizzò sulle mura del castello e l’uomo affondò a lungo senza mai toccare il fondo, poi risalì rapidamente in superficie e cominciò a sguazzare. Era come trovarsi in una torbiera, con la differenza che lì i corpi putrefatti non erano di cani, ma di persone. Jón Hreggviðsson nuotò a cagnolino attraverso il fossato, si trascinò sulla riva e sputò. Gli battevano i denti. Non appena ebbe ritrovato l’orientamento decise di tornare verso l’Olanda, pur di non rischiare altre avventure fra i tedeschi.