19
Lo stesso giorno in cui i poveri regi graziati attendevano la minestra regia a Þingvellir sull’Öxará, accadde che la signora di Bræðratunga si levò dal letto e chiamò i famigli ordinando loro di preparare i cavalli perché intendeva mettersi in viaggio. Quelli risposero che il padrone era partito e che dei cavalli rimasti non ce n’era neanche uno cavalcabile.
Lei disse: «Ricordate il cavallo legato alla pietra qui fuori, la primavera scorsa, che vi avevo ordinato di abbattere?»
Loro si guardarono sogghignando.
«Andate a Hjálmholt, cercatelo nei pascoli del prefetto e portatemelo», disse lei.
Ritornarono con il cavallo verso mezzanotte, trovando la signora ad attenderli già pronta alla partenza. Ordinò loro di portare fuori la sua sella e fissarla, poi si avvolse in un gran mantello di panno di lana con il cappuccio, dato che continuava a piovere, e scelse un famiglio che l’accompagnasse, ma solo fino all’altra sponda del fiume. Da lì in poi voleva proseguire da sola nella notte. Non c’era vento e non faceva freddo con quell’acquerugiola.
Non appena l’accompagnatore ebbe riattraversato il Brúará, ecco che la cavalcatura della signora si fece riottosa. Dopo diversi colpi di frustino ripartì di scatto al galoppo, e poco ci mancò che non la sbalzasse via. Procedette a gran velocità per un tratto, e lei ebbe un bel daffare a tenersi in sella, aggrappandosi convulsamente all’arcione, ma poi l’animale le strappò di mano le redini, corse in mezzo alla landa desolata e si piantò lì. Lei menò di frustino per un po’, ma lui sbuffò agitando la coda, scocciato di essere percosso, e addirittura accennò un’impennata. Poi scattò allo stesso modo di prima, facendo le bizze e provandole tutte per disarcionarla. Lei smontò di sella e lo accarezzò, ma lui non ascoltava le sue dolci parole. Eppure riuscì a farlo ripartire. Il cavallo non faceva che galoppare a rotta di collo, bloccandosi di colpo tra una corsa e l’altra. Forse era lei a non saper cavalcare? Alla fine entrò in una conca dove scorreva un ruscello, scartò di lato, lei fu proiettata in avanti e in un istante si ritrovò a terra. Si rialzò e dovette scuotersi di dosso il fango secco e quello umido, ma non si era fatta male. Un chiurlo lanciava il suo cinguettio energico e penetrante nella nebbia. Il cavallo si mise a brucare in riva al ruscello. Lei montò di nuovo in sella, benché senza troppa convinzione, diede di tallone alle reni, tirò le redini e gridò: «Op!» Ma fu tutto inutile. Forse era lei a non saper spronare i cavalli. Sta di fatto che quello rimase piantato lì. Proseguire per quella strada andava contro ogni suo principio. Recalcitrava e s’impennava. La signora smontò, si arrampicò sul ciglio della conca e si sedette su un rialzo erboso sotto la pioggia a guardare il suo destriero.
«Era scontato che un cavallo donato da un furfante come risarcimento per un torto non potesse essere migliore di te, fannullone», disse rivolta all’animale.
Per fortuna nessuno era testimone di quel suo viaggio: erano circa le tre del mattino e le campagne dormivano, anche se la nebbia si stava schiarendo e dunque doveva essere sorto il sole.
Sollevò le gonne e s’incamminò. C’era foschia sulle colline, l’erica era bianca d’acqua, reticoli di rugiada brillavano sulle zolle di terra nuda. La betulla era mezza in fiore e in quella tiepida umidità senza vento aveva un profumo così forte da dare quasi la nausea. Lei era mal equipaggiata per la marcia, ben presto i suoi stivali s’infradiciarono e la gonna si appesantì d’acqua perché gli arbusti di betulla grondanti le frustavano le gambe, senza contare che si era appena rimessa dalla malattia e non aveva ancora recuperato del tutto le forze. Eppure ogni volta che cadeva si rialzava e riprendeva il cammino, e all’altezza dei Bláskógar era ormai zuppa.
Quando scese all’Öxará era talmente tardi che gli ubriachi stavano ormai dormendo. In quella mattina nebbiosa perfino il corso del gelido fiume sembrava fermo, e appariva distante anche a chi stava sulla riva. Alcuni cavalli chinavano il capo addormentati nel pascolo dov’erano stati legati.
Intorno al tribunale c’era una manciata di tende, e quando lei riconobbe l’alloggio del magistrato si avvicinò. Le pareti erano appena state rifatte, la facciata aveva un elegante ingresso con un uscio massiccio, tre gradini in pietra e un doppio tendaggio, esterno e interno. Bussò. Un servitore del padre venne fuori, assonnato, e lei lo pregò di svegliare il magistrato. Sentì l’anziano rigirarsi nel giaciglio e chiedere con voce roca chi fosse arrivato.
«Io, padre mio», mormorò lei, in tono cupo, appoggiandosi al montante della porta.
Il tendaggio interno era asciutto, nonostante la pioggia, e il pavimento era costituito da un piancito mobile. Suo padre era steso dentro un sacco di pelle posato su un materasso che profumava di fieno, un aroma da gran signori in una stagione come la primavera, quando il fieno non ce l’ha nessuno. Si levò a sedere, portava una pesante camicia da notte in panno di lana e una sciarpa al collo, livido in faccia, calvo, con un naso troppo grosso, sopracciglia spaventosamente folte, scarnito dall’età, guance cascanti e una falda di pelle dove una volta c’era stato un doppio mento. Le rivolse uno sguardo inespressivo. «Cosa vuoi, bambina?»
«Vorrei parlarti in privato, padre mio», disse lei, con lo stesso tono grave, senza guardarlo e continuando ad appoggiarsi stancamente al montante della porta.
Lui ordinò al giovane di andare per un po’ nella tenda della servitù, poi la pregò di restare sulla soglia ad attendere che lui si vestisse. Quando finalmente le permise di entrare, era in piedi, in stivali alti, mantello pesante e parrucca, con un massiccio anello d’oro all’anulare destro. Prese un pizzico di tabacco da fiuto da una scatoletta d’argento. Lei andò dritta verso di lui per salutarlo.
«Ebbene?» chiese il magistrato, dopo che la figlia gli ebbe dato un bacio.
«Sono venuta da te, padre mio, tutto qui», rispose lei.
«Da me?»
«Sì, bisognerà pure poter contare su qualcuno, altrimenti si muore.»
«Sei sempre stata una bambina ingovernabile.»
«Padre mio, mi permetteresti di stare a testa alta al tuo fianco?» domandò lei.
«Bambina cara», rispose il padre, «non sei più una bambina.»
«Ero sfinita, padre mio.»
«Ho saputo che sei stata malata, ma vedo che adesso stai già meglio.»
«Padre mio. Un giorno, questa primavera, non ho visto altro che buio. Si è riversato su di me, e io ho perso le forze e mi sono abbandonata alla sua mercé. A lungo sono rimasta prostrata nel buio. Eppure non sono morta. Com’è possibile che non sia morta, padre mio?»
«Molti si buscano un’infreddatura in primavera, ma non ne muoiono, bambina cara.»
«Ieri una vocina mi ha sussurrato che dovevo venire da te. Qualcuno ha detto che oggi si pronunceranno le sentenze. Tutt’a un tratto ho recuperato la salute. Mi sono alzata. Padre mio, malgrado questa spaventosa povertà, la nostra stirpe vale pur qualcosa, no?»
«Sì», rispose lui. «Io sono di buona famiglia. Tua madre è di famiglia ancora migliore. Per fortuna.»
«Non sono ancora riusciti a piegarci», disse lei. «Niente affatto. Stiamo ancora a testa alta. Siamo o non siamo esseri umani, padre mio? Io so per certo che, se ho qualche dovere, è verso di te.»
«Hai messo a dura prova la pazienza di tua madre.»
«Adesso tornerò a casa da lei insieme a te, come mi ha chiesto.»
Lui guardò altrove.
«Padre mio», continuò lei. «Spero che le sentenze non siano ancora state pronunciate.»
Lui disse che non capiva bene cosa intendesse per «sentenze», visto che ormai la giustizia, in quella misera terra, nessuno sapeva più dove stesse. Nemmeno lui aveva idea di che nome dare alla pagliacciata che si stava tenendo laggiù. Poi le chiese come le fosse saltato in mente di intestare Bræðratunga a Magnús Sigurðsson, proprio ora che stava per fare una brutta fine per averla accusata falsamente, e perché non avesse invece pensato a divorziare ufficialmente da lui. «Eppure sapevi che qui perdono l’onore e il patrimonio persone ben più prudenti in parole e opere di Magnús Sigurðsson e che di certo hanno meno conti in sospeso con le nuove autorità d’Islanda.» Disse che il caso era stato affidato a un vicemagistrato e a due prefetti, in quanto Arnæus aveva annunciato che non avrebbe ripreso l’esercizio delle sue funzioni prima che la sua onta fosse stata lavata non solo da un tribunale distrettuale ma anche dalla sentenza di un magistrato. Tale verdetto sarebbe stato pronunciato quel giorno stesso, dopodiché Arnæus avrebbe potuto rimettersi all’opera.
«Padre mio», disse lei. «Quale sarebbe la pena, se le accuse di Magnús si rivelassero fondate?»
Lui rispose: «Se un uomo sposato prende una donna sposata, perde l’onore e la reputazione, e deve pagare una grossa ammenda al re, che in mancanza di moneta sonante è convertibile in una fustigazione.»
«Padre mio», chiese lei, «mi permetti di comparire in tribunale e dire qualche parola?»
«Qui le parole non valgono», rispose lui. «Cosa vorresti dire?»
«Metterò scompiglio nel processo, in modo che la corte venga sciolta e il giudice sospeso, così i bravi signori avranno tutto l’agio di mandare i loro portavoce a chiedere udienza al re. Può darsi che, una volta tolto di mezzo quest’uomo, ci penseranno due volte prima di nominare un sostituto che la prossima estate venga a condurre un processo per privarti del tuo buon nome.»
«Tu vivi nel mondo dei sogni, bambina.»
«Chiederò la parola», insisté lei, «ed esigerò di deporre nel processo contro Magnús Sigurðsson. Spiegherò alla corte che Magnús era nel giusto quando ha scritto la lettera che ha fatto leggere all’ingresso del coro della cattedrale di Skálholt.»
«Cosa mi tocca sentire!» disse il magistrato Eydalín. «Tua sorella e il vescovo suo marito hanno scritto a tua madre che questa accusa è una sordida menzogna, come chiunque è in grado di vedere da sé. Oltretutto, chi confermerebbe una deposizione del genere?»
«Presterei giuramento.»
«Non guadagnerei di certo in reputazione se meditassi di salvare Magnús dalle grinfie dei ladri d’onore mettendo a repentaglio la vita e la reputazione di mia figlia in queste dispute giuridiche», disse il magistrato, «soprattutto considerando che il giuramento che presteresti in præiudicio Arnæi in questo processo sarebbe uno spergiuro.»
«Qui non c’entri tu», disse lei, «ma la nostra patria. Se tu e i pochi altri che continuano a tenere la testa alta in questi brutti tempi doveste sedere al banco degli imputati insieme ai proscritti, se la nostra stirpe venisse calpestata e finisse nel fango, e se non ci fossero più esseri umani in Islanda, a cosa servirebbe tutto questo?»
«Se tu credi, bambina cara, che sia mia praxis accettare spergiuri nei miei processi, ti sbagli di grosso su tuo padre. Inorridisco a vedermi offrire dalla mia bambina un appoggio del genere, che perfino il peggior mascalzone, a vederselo offerto da un bandito, rifiuterebbe. Quel che può saltare in mente a una donna disgraziata rimane incomprensibile a un uomo che abbia un po’ di sale in zucca. Ammetto pure di aver commesso, per senilità, qualche errorino, ma sono pur sempre un cristiano. Un cristiano mette al primo posto la salute dell’anima. Se qualcuno commette spergiuro con l’avallo di un altro e a vantaggio di quest’ultimo, entrambi perdono la salute dell’anima per l’eternità.»
«Anche se con il loro crimine possono salvare l’onore di un’intera nazione?» chiese lei.
«Sì», rispose lui, «nonostante questo, benché possa sembrare il contrario.»
«Questi sono i sofismi che m’insegnavi a chiamare ars casuistica , padre mio», disse lei. «Un’arte vergognosa.»
Lui ribatté roco e gelido: «Considero queste tue parole come fantasie di una donna frastornata che, artefice del suo stesso inferno, ha smarrito le proprie fortune, ha perso la capacità di distinguere la vergogna dall’onore, e ora si esprime in desperatione vitæ . Non parliamone più, bambina cara. Ma già che sei qui, sa il Signore perché, ora chiamo un servitore perché accenda il fuoco e ti prepari un infuso, visto che ormai è mattina.»
«Padre mio», lo fermò lei. «Non chiamare nessuno. Aspetta. Non ti ho detto tutto. Non il vero. Ma ora lo farò. Non mi trovo a dover giurare il falso: per tutto l’inverno io e Árni abbiamo intrattenuto una relazione clandestina a Skálholt. Andavo a trovarlo di notte.» Parlava a voce bassa e cupa, rivolta al proprio grembo, rannicchiata accanto alla porta.
Lui si schiarì la gola e con voce ancora più roca brontolò: «Una deposizione del genere non avrebbe forza, in tribunale, e perderesti il diritto di prestare giuramento. Ci sono fin troppi esempi di persone sposate che inventano storie come questa per ottenere il divorzio. Qui ci vogliono testimoni.»
Lei disse: «Questa primavera è venuto a trovarmi un uomo, di concerto con mia sorella e suo marito, per parlarmi di questa faccenda. È una delle alte sfere di Skálholt, ed è colui che ha letto all’ingresso del coro il documento che mi accusa, e non mi sorprenderei se avesse anche contribuito a redigerlo, con la complicità di mia sorella Jórunn. Quel che è certo è che il prevosto, reverendo Sigurður Sveinsson, è troppo intelligente per avere agito d’impulso nel leggere un testo del genere in un luogo consacrato, anzi, sapeva bene quel che faceva, visto che una notte mi aveva praticamente colta sul fatto. Oltretutto, già lo scorso inverno avevo capito, dai suoi discorsi e da quelli di mia sorella, che avevano inviato una o più serve del vescovado a spiare me e Árni. Sarà facile convincerle a testimoniare.»
Il magistrato rimase a lungo in silenzio prima di rispondere.
«Sono vecchio», disse infine. «E sono tuo padre. Nella nostra stirpe non ci sono mai stati casi del genere. In quella di tua madre, per contro, ci sono stati diversi pazzi, e se continui a fare questi discorsi dovrò dedurne che rientri in quel gruppo.»
«Árni non mi sconfesserà mai», disse lei. «Si dimetterà del tutto dalla carica.»
«Quand’anche Arnas Arnæus avesse un bel bambino da te, e quand’anche, oltre al prevosto e alle serve, pure il vescovo e sua moglie l’avessero colto sul fatto, quell’uomo non avrebbe pace finché non si fosse procurato attestati di principi, imperatori e papi con scritto che tu hai avuto il bambino da qualche vagabondo. So ben io da che gente discende.»
«Padre mio», disse lei, guardandolo negli occhi, «vuoi dunque che io non dica una parola? Non t’importa del tuo onore? Non valgono nulla per te i tuoi sessanta poderi?»
«Ritengo meno disonorevole affrontare a testa alta un damerino a un’assemblea diurna, che non avere una figlia che è caduta ai piedi di un damerino in un abboccamento notturno, fosse anche solo una storia da lei inventata. E tu sai, bambina mia, che quando sei scappata per sposare il più grande fallito del Suðurland dopo che il reverendo Sigurður Sveinsson, uno dei più ricchi ecclesiastici d’Islanda ed eruditissimo letterato, aveva chiesto la tua mano, io ho taciuto su questa vergogna; e quando tuo marito ha scialacquato il suo patrimonio riducendoti nell’indigenza, io ho ricomprato le terre senza dir nulla. Allo stesso modo, quando tua madre è venuta a sapere che eri stata venduta a un danese in cambio d’acquavite per poi essere minacciata con un’accetta, io ho evitato di commentare questa follia. Perfino quando sei tornata da lui, trasferendo al tuo aguzzino le proprietà che io avevo intestato a te, non ho aperto bocca, e men che meno il cuore, con nessuno. Oggi come ieri dovrò sopportare di essere infangato da mascalzoni nello stesso luogo in cui ricopro la mia alta carica, qui a Þingvellir sull’Öxará, ma pazienza, col tempo la gente smetterà di ridere. Fra tutti gli scandali che hai attirato su me e tua madre, però, di quest’ultimo è davvero preferibile tacere, se non vuoi che la tua famiglia diventi lo zimbello di questa misera nazione nei secoli a venire.»
Da seduto sembrava ancora un uomo vigoroso. Ma quando si alzò e prese il bastone per uscire a chiamare i servitori alle loro faccende mattutine, rivelò tutta la sua decrepitezza. Avanzava a passi brevi, malcerti e zoppicanti, talmente curvo che il lembo anteriore del mantello toccava il piancito, facendo smorfie nel reprimere i gemiti dei dolori reumatici, dopo un sonno inquieto in quel capanno freddo e umido all’inizio dell’estate.