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È festa a Jægersborg.
La regina dà un banchetto per suo marito il re, per sua madre la principessa tedesca e per suo fratello il duca di Hannover. Al ricevimento sono stati invitati i più altolocati della nazione e gli stranieri più illustri.
La regina ha fatto fabbricare ad Amburgo più di cinquanta elegantissimi archi e quattro elegantissime frecce per ciascuno, perché oggi il re condurrà una caccia al cervo.
Nel tardo pomeriggio i nobili si raccolsero nella radura di una faggeta, con tende montate in ogni dove. Non appena ebbero preso posto, nel loro campo visivo si manifestò Sua Graziosissima e Augustissima Maestà in completo rosso da caccia, con un pennacchio lungo un cubito che sventolava sul copricapo in velluto nero; lo seguiva la regina accompagnata dal nobilissimo fratello, anch’essi vestiti da caccia; da ultime, a passetti leggeri, venivano le dame di corte e altre onorabili signore del reame in abiti da cacciatrici.
Sul lato destro del campo era stato montato un bancone lungo un centinaio di piedi, su cui erano disposti in bella fila tutti i trofei d’argento da contendersi nella battuta di caccia. A un capo di questo bancone, fra due montanti in legno, era stato teso un telo, davanti al quale c’erano i seggi dei grandi con relative mogli e dame di compagnia. I cavalieri, invece, dovevano stare in piedi, così come una certa delegazione di uomini con alti copricapi, lunghe spade e barba nera, chiamati tartari.
A uno squillo di trombe ecco che la tenda verde viene sollevata e appare un cervo di bosco, che si mette a saltare da un albero all’altro. I tartari poterono tirare per primi, ma le loro frecce andarono a vuoto, dopodiché toccò alle agghindate dame, di cui tutti lodarono la leggiadra tecnica, e poi ai cavalieri, alcuni dei quali colpirono punti piuttosto vicini al bersaglio, ma non troppo, tra l’ilarità generale. Infine fu la volta del re e della regina. Per farla breve, il re centrò il cervo al primo colpo, aggiudicandosi il titolo di più abile tiratore di tutti i settentrioni. Gli altri trofei vennero distribuiti ai cavalieri e alle dame, mentre la regina non ne prese, per amor di cortesia.
A lato di questo campo da gioco era stata magistralmente eretta una collina. Vi saliva un sentiero sormontato da arcate le cui colonne erano costituite da limoni e aranci, con gli emblemi dei reali incisi sui tronchi e impressi sul telo azzurro cielo teso a volta sopra il cammino. Sul cocuzzolo della collina c’era un bello stagno di pesci in cui nuotavano tantissime paperelle addomesticate, insieme ad altri uccelli. In mezzo allo stagno spuntava uno scoglio artificiale dal quale schizzavano all’altezza di mezzo tiro di lancia quattro getti d’acqua che ricadevano ad arco. Tutt’intorno al laghetto si allungava una panca in blocchi di torba ricoperta d’erba che era stata elegantemente apparecchiata e imbandita come una tavola da banchetto. Le sedute vennero disposte in modo che le loro maestà stessero sotto il cielo di tela, mentre gli ambasciatori, i notabili e i cortigiani si distribuirono l’uno di fronte all’altro lungo la tavola circolare. I funzionari e i dignitari della borghesia con le mogli e gli altri invitati, compresi i mercanti, pasteggiarono insieme ai tartari sul rialzo erboso ai piedi della collina. Il banchetto del re contava circa duecento portate, quasi altrettanti tipi di confettura e ciotole d’oro piene di frutta; delizie che si estendevano a perdita d’occhio in ambo le direzioni, uno spettacolo magnifico.
«
Ein Land, vom lieben Gott gesegnet
.»
Il notabile tedesco, che si reggeva la gran pancia e che aveva salutato l’
assessor consistorii et professor antiquitatum danicarum
Arnas Arnæus durante la caccia al cervo presentandosi come
Kommerzienrat
Uffelen di Amburgo, si era appena seduto a tavola al suo fianco e gli parlava in tono cordiale.
«La nostra augusta regina, vostra compatriota, è assai munifica», disse Arnas Arnæus. «Nel suo palazzo privato, che lei definisce “ritiro estivo”, spesso Sua Grazia e le sue damigelle si travestono da driadi e donne elfiche. E di sera si balla alla maniera delle campagne, con violini e flauti, o pive e ciaramelle. Si va in barca al chiaro di luna su quel piccolo e capriccioso Furesø. E la serata si conclude con fuochi d’artificio.»
Il tedesco rispose: «Vedo che messere è in quelle grazie che difficilmente un borghese tedesco può ottenere da una compatriota. Eppure io ho avuto la buona ventura di essere accolto nel palazzo delle due figlie del re ad Amager, poiché in un gesto di
galanterie
avevo portato due colibrì per le loro
volières
. Sfortunatamente ho scoperto che non è più l’epoca in cui le giovani principesse amano gli uccellini. Le Loro piccole Grazie si sono dichiarate scontente di ricevere quei piccoli pennuti anziché l’animale che da tempo sognavano: un coccodrillo.»
«
Ach ja mein Herr, das Leben ist schwer
», disse Arnas Arnæus.
«Parimenti, io e il mio seguito abbiamo avuto l’onore di essere invitati da Sua Altezza a una colazione di caccia nel suo palazzo estivo,
Hirschholm
», disse il tedesco. «Là abbiamo banchettato sotto un bel padiglione di cinquanta piedi per cinquanta, retto da venti colonne e arredato con ori, velluti e sete, e con una cupola da cui pendevano ottocento limoni e arance artificiali; bisogna andare fino in Francia per trovare uno stile paragonabile.»
«La mia regina vostra compatriota ha appena ricevuto in dono una particolarissima scimmia, comprata a duecento talleri», disse Arnas Arnæus, «per non parlare di quegli splendidi pappagalli. Se messere, anziché regalare quei due uccellini alle principesse, avesse portato alla sua compatriota una seconda coppia di cavalli spagnoli, della stessa eccellenza di quelli acquistati per lei con i duemila talleri ricavati da Eyrarbakki, la maggior stazione commerciale del regno danese, avrebbe placato il disappunto della sovrana di non possedere una quadriglia. E avrebbe fatto esperienza di una gran serata con le ninfe nel “ritiro” sul Furesø; con tanto di commiato a fuochi artificiali.»
«Mi fa piacere che la mia compatriota abbia finalmente trovato un ammiratore in Islanda per il quale nessuna creatura terrena è troppo splendida se può darle una gioia sincera», disse il tedesco.
«Certo, noi islandesi le doneremmo una quadriglia di balenottere, se non ci fosse un’altra regina, che stimiamo ancora di più.»
L’amburghese rivolse un’occhiata perplessa al
professor antiquitatum danicarum
. «Quella di cui parlate non può avere il regno su questa terra, se avete l’ardire di porre la mia compatriota su un gradino più basso, e alla sua tavola», disse.
«Dite bene», rispose Arnæus sorridendo, «poiché è la regina d’Islanda.»
Il tedesco continuò a guardare in tralice il commensale, con la gelida sapienza dei suoi occhi infossati tra le pieghe di grasso, mentre mangiava senza posa e senza lasciarsi sfuggire nessuna di quelle delizie, di certo pensando a tutt’altro che all’argomento della conversazione, finché non strappò una zampa a un granchio con queste parole: «Non sarebbe ora che colei di cui parlate abbandonasse le eteree sale dell’immaginazione e scendesse sulla terra?»
«Sono tempi difficili», rispose l’islandese. «La regina che ho appena nominato sta meglio lassù che non quaggiù.»
«Mi si dice che lassù in Islanda il vaiolo ha imperversato con violenza», disse il tedesco.
«La nazione era mal preparata ad affrontare le epidemie», disse Arnas Arnæus. «Il vaiolo ha navigato sulla scia della carestia.»
«Mi si dice che sono periti il vescovo di Schalholt e sua moglie», continuò il tedesco.
Arnas Arnæus guardò con stupore quello sconosciuto. «Precisamente», disse, «i miei amici, nonché anfitrioni e illustri compatrioti, il vescovo di Skálholt e sua moglie, sono stati reclamati dal vaiolo lo scorso inverno, insieme ad altre venticinque persone del vescovado.»
«Porgo le mie condoglianze a messere», disse l’amburghese. «La sua nazione merita di meglio.»
«Lieto di sentirvelo dire», rispose Arnæus. «Gli islandesi sono riconoscenti quando incontrano uno straniero che ha sentito parlare della loro terra. E lo sono ancora di più quando sentono augurarle qualcosa di buono. Ma voglia messere notare che seduto di fronte a noi, un po’ più in là, proprio davanti al maiale arrostito che se ne sta acquattato su quel vassoio d’argento, c’è il borgomastro di Copenaghen, che in gioventù è stato mozzo su una nave per l’Islanda ed è ora la più alta autorità della Compagnia, la lega mercantile islandese, e non è il caso di punzecchiarlo in questa felice occasione parlando ad alta voce dell’Islanda. Si dà il caso che abbia dovuto versare diverse migliaia di talleri in risarcimenti per aver venduto agli islandesi farina verminosa, e per giunta pesandola su bilance truccate.»
«Spero di non apparire troppo sfrontato», disse il tedesco, «se rinnovello i tempi andati, in cui i miei concittadini e precursori dell’Hansa navigavano verso quell’isola, ed era un’altra epoca. Magari troveremo un angolino appartato, quando ci si alzerà da tavola, in cui un vecchio amburghese potrà condividere i bei ricordi con l’islandese che i mercanti danesi d’Islanda chiamano Satana incarnato, preferibilmente fuori dalla portata d’udito di questi nostri amici.»
«Più d’uno, in Islanda, darebbe qualunque cosa perché i sentimenti dei mercanti d’Islanda verso di me non fossero del tutto privi di sostanza», disse Arnas. «Ma purtroppo per i miei compatrioti sono stato sconfitto. Io sono il drago che questi mercanti schiacciano con il calcagno. Certo, hanno dovuto pagare risarcimenti per la farina avariata, e il re invierà pure un po’ di grano di sussidio, finché dura la carestia. Ma ciò che desideravo per la mia gente non era un risarcimento, né un sussidio, bensì migliori commerci.»
La regina aveva disposto che sui tavoli della sua festa non ci fossero bevande forti, ma solo leggeri vini francesi, serviti con moderazione, perché il lieto evento avesse il meno possibile di quella rozzezza che a suo avviso caratterizzava i Paesi del Nord, e che non mancava mai di manifestarsi quando quei popoli bevevano.
Verso il tramonto ci si alzò da tavola. A quel punto, per lo svago dei presenti, nello stagno in cima alla collina vennero gettati tanti cagnetti, affinché si cimentassero a inseguire e uccidere a morsi le paperelle addomesticate e gli altri uccelli dalle ali tarpate che vi nuotavano, dando vita a uno spettacolo da cui le Altezze Reali e i loro nobilissimi ospiti trassero grande spasso.
Quindi si sfilò con grande pompa verso il palazzo di Jægersborg, dove di lì a poco avrebbero avuto inizio le danze. Trattandosi di un ballo di famiglia, si concesse una deroga all’usanza di corte di portare maschere o abbigliamenti particolari, tranne per la regina e le sue dame che indossarono abiti neri.
Ora che la cena era conclusa cominciarono le conversazioni fra gli invitati che si conoscevano tra loro, ma Arnas Arnæus, che per via della sua erudizione era sempre stato ospite graditissimo presso qualunque ritrovo d’alta società, ebbe l’impressione che vari nobili e dotti di sua conoscenza dimenticassero di salutarlo o si dileguassero subito dopo averlo fatto. Naturalmente si rendeva conto che certi galantuomini del governo cittadino, azionisti della Compagnia come il borgomastro, potevano essere scusati se non si sentivano d’intavolare discorsi con chi li aveva appena fatti condannare per frode. Ma trasecolò quando due nobili giudici della Corte Suprema di Sua Maestà, nell’impossibilità di evitare un suo saluto, si affrettarono ad abbassare lo sguardo e cambiare strada. E ancor meno capì perché due suoi colleghi del concistoro si comportarono con imbarazzo nel vederlo; e il suo collaboratore e vecchio amico, il regio maestro e bibliotecario Worm, gli parlò distrattamente, irrequieto e ansioso di allontanarsi. Né gli sfuggì il fatto che alcuni cavalieri si assiepassero a parlottare di lui, come si era sempre usato fare nei Paesi nordici nei confronti degli islandesi, trattamento che ad Arnas Arnæus nessuno riservava da tempo, almeno in sua presenza.
Entrò a palazzo lasciandosi trascinare dalla folla. E una volta nell’atrio insieme agli altri, mentre i musici danno fiato alle pive, ecco passargli accanto il seguito reale diretto alla sala da ballo. L’occhio di Sua Graziosissima Maestà si posa sull’islandese, e il nobilissimo volto col naso aquilino e lo sguardo da vecchio lussurioso e impotente è attraversato da un lampo di vitalità quando lo apostrofa nella lingua imparata dalle balie basso-tedesche: «
Na, de grote Islänner, de grote Schöttenjäger
», vale a dire: Ah, il grande islandese, il grande cacciatore di gonnelle.
Qualcuno esplose in una risata.
Gli invitati s’inchinarono a Sua Maestà mentre il nobile seguito veleggiava verso la sala. L’islandese rimase lì solo. Quando si guardò intorno, nessuno sembrava essersi accorto di quanto era appena accaduto, e lui continuò a non capire chi fosse e che posizione avesse agli occhi di quella compagnia, finché non spuntò al suo fianco il grasso amburghese dalla voce melliflua.
«Chiedo venia, ma messere non ha declinato l’offerta di discutere una questioncella con me, in un angolo appartato. Se messere gradisse…»
Anziché proseguire verso le sale interne del palazzo, dall’atrio uscirono nel frutteto. Arnas Arnæus tacque e l’amburghese parlò. Parlò del grano e del bestiame di Danimarca, dell’invidiabile posizione geografica di Copenaghen e dell’ottimo alabastro importato lì dall’Asia; passò quindi ai molti sontuosi palazzi del re, dicendo che in tutta la cristianità non c’era un
galanthomme
pari a Sua Maestà, e che per trovarne uno paragonabile lo si sarebbe dovuto cercare presso i seguaci di Maometto, e portò un esempio che aveva destato ammirazione fra tutti i popoli, ossia la grande festa data a Venezia in suo onore, durante la quale Sua Grazia aveva danzato per sedici ore filate, mentre cavalieri e diplomatici di tre imperi e quattro regni, senza contare i rappresentanti delle città-stato e dei principati, erano impalliditi dalla stanchezza o avevano perso la favella; all’alba si era dovuto mandare alcuni uomini in città a svegliare certi donnoni che solevano vendere cavoli e trasportare barili di pesce reggendoli sulla testa, e metterle in ghingheri con sete e ori e penne di pavone affinché danzassero con quel sovrano venuto dalla terra degli orsi bianchi – come viene definita la Danimarca – dato che le nobildonne della città-stato erano tutte esauste se non perfino stramazzate a terra.
«Ma come dicevo», continuò il tedesco, «i divertimenti si pagano, anche se si è re. So che messere è più edotto di me riguardo alle finanze di questo regno; non occorre che io vi ragguagli sulle crescenti difficoltà che incontra la regia amministrazione nel far approvare gli stanziamenti necessari a finanziare il profluvio di balli in maschera, che non solo si fanno sempre più frequenti, ma anche più sfarzosi di anno in anno. Ad Amburgo sappiamo da fonte certa che negli ultimi anni le rendite del commercio islandese sono andate a coprire le spese delle feste di corte, ma ora la vacca è stata munta a sangue; la fame cresce, nessuno lo sa meglio di messere, perciò da qualche anno si fa molta fatica a spremere dalla Compagnia e dall’amministratore provinciale le rendite che il re deve trarre dall’isola. E ora, dopo i risarcimenti per la farina avariata, i mercanti esitano a partire, come per aggiungere un piccolo flagello supplementare al vostro popolo. Ma poco conta: i balli devono continuare, bisogna costruire nuovi palazzi, alla regina occorre un’altra coppia di cavalli spagnoli, alle graziose principesse serve un coccodrillo. E soprattutto bisogna finanziare la guerra. I buoni consigli qui costano cari.»
Arnas Arnæus disse: «Temo di non capire bene dove voglia andare a parare messer
Kommerzienrat
, a meno che non sia stato incaricato dal re o dalla tesoreria danese di procacciare fondi.»
«Mi è stata offerta in vendita l’Islanda», rispose l’amburghese.
«Da chi, se posso permettermi?»
«Dal re di Danimarca.»
«È dilettevole sentire di una nazione messa in vendita da chi non può essere accusato di alto tradimento», disse Arnæus con un sorriso, assumendo d’un tratto un tono più salottiero. «Per caso quest’offerta è stata messa nero su bianco?»
Il tedesco estrasse dal mantello un documento, con il nome e l’emblema di Sua Altezza, in cui veniva offerto ad alcuni mercanti di Amburgo l’acquisto della nazione insulare tra la Norvegia e la Groenlandia comunemente nota come
Islandia
, con tutto il profitto che procurava, in piena proprietà e potestà, con completa e perpetua rinuncia da parte del re di Danimarca e dei suoi discendenti a ogni diritto sulla summenzionata nazione, al prezzo di cinque barili d’oro rasi, da pagarsi alla Regia Tesoreria alla firma del contratto.
Arnas Arnæus scorse il documento alla luce di una lanterna del frutteto, poi lo restituì a Uffelen ringraziandolo.
«Non occorrerà precisare», disse il tedesco, «che mostrandovi questo ho voluto soltanto attestare la mia particolare fiducia in voi, l’islandese dal nome più insigne di tutto l’impero danese.»
«Di questi tempi», disse Arnas Arnæus, «nell’impero danese, il mio nome ha così poco valore che sono l’ultimo ad avere notizie riguardo alle questioni islandesi. Mi è capitata la grande disgrazia di desiderare il bene della mia patria, diventando così un nemico del regno danese: questo è il destino che è toccato alle due nazioni. Sarà pur vero che non si è mai considerato cortese, in Danimarca, nominare l’Islanda quando si è in nobile compagnia; ma da quando mi ha preso il desiderio di allietare la vita degli islandesi, anziché accontentarmi degli antichi libri della mia terra, gli amici mi hanno tolto il saluto. E il sovrano, Sua Grazia, mi dileggia in pubblico.»
«Posso dunque sperare che quest’eventuale acquisto non vi rincresca, considerando il proponimento che vi siete prefissato?»
«Temo che non abbia alcuna importanza ciò che io mi prefiggo, in faccende come questa.»
«Eppure spetta a voi decidere se quest’acquisto andrà in porto o no.»
«Come può essere, messere, se non ho la minima parte nell’affare?»
«L’Islanda non verrà acquistata senza il vostro consenso.»
«Vi sono riconoscente per la fiducia che mi avete dimostrato mettendomi a parte di un segreto. Ma mi manca l’influenza necessaria a intervenire in una questione del genere, con le parole e con le azioni.»
«Voi volete il bene dell’Islanda», disse il mercante tedesco.
«Senz’altro», disse Arnas Arnæus.
«Nessuno meglio di voi sa che quegli isolani non possono avere destino peggiore che continuare a essere la gallina dalle uova d’oro del re di Danimarca e degli approfittatori a cui vende l’Islanda di volta in volta, l’amministratore provinciale o i monopolisti.»
«Io non ho mai detto questo.»
«Ben sapete che le ricchezze accumulate qui a Copenaghen sono state messe insieme nel corso di generazioni grazie al commercio islandese. La strada del più alto prestigio nella capitale danese è sempre passata attraverso il commercio islandese. Non c’è famiglia in questa città che non abbia almeno un membro che porta a casa la pagnotta grazie alla Compagnia. E nessuno al di fuori della più alta nobiltà, se non della Corona stessa, potrebbe mai ambire a vedersi riconoscere l’Islanda come feudo personale. L’Islanda è una buona terra. Non c’è nazione che abbia fatto la ricchezza di così tanti signori.»
«È raro sentire tali parole di comprensione dalla bocca di uno straniero», disse Arnas Arnæus.
«E so anche altre cose», disse il tedesco. «So che gli islandesi hanno sempre avuto simpatia per gli amburghesi. E non è poi tanto strano se si pensa che nello stesso anno in cui il re di Danimarca ha cacciato l’Hansa dall’isola sancendo per sé e i suoi uomini il monopolio commerciale, le tasse d’esportazione, stando a quanto attestano i vecchi registri, si sono ridotte del sessanta per cento, mentre quelle d’importazione sono aumentate del quattrocento per cento circa.» E dopo una breve pausa: «Non avrei avuto l’ardire di sollevare la questione con vossignoria senza prima accertarmi, sulla mia coscienza di cristiano, che noi amburghesi potessimo offrire ai vostri compatrioti condizioni migliori di quelle di Sua Graziosissima Maestà, nostro anfitrione.»
Passeggiarono in silenzio nel frutteto. Arnæus si fece nuovamente pensieroso. Dopo un po’ si riscosse dalle sue meditazioni e chiese: «Messere ha mai fatto rotta per l’Islanda?»
L’amburghese rispose di no. «Come mai questa domanda?»
«Messere non ha visto l’Islanda sorgere dal mare dopo una lunga e difficile navigazione», rispose Arnas Arnæus.
Il mercante non capì del tutto.
«Vette battute dalle intemperie e ghiacciai ammantati di nubi temporalesche sorgono dai flutti agitati», disse il
professor antiquitatum danicarum
.
«Ah, certo», disse il tedesco.
«Stavo su una cocca, al riparo dal vento, sulla scia di quei pirati norvegesi dal viso cotto dal sole che per lungo tempo si sono aggirati per i mari; finché all’improvviso non è emersa quest’immagine.»
«Naturalmente», disse il tedesco.
«Non c’è spettacolo più formidabile dell’Islanda che sorge dal mare», disse Arnas Arnæus.
«Non saprei», disse il tedesco, un po’ perplesso.
«Solo davanti a quella vista si viene a capo del mistero di come sia possibile che i libri più insigni di tutta la cristianità siano stati scritti lassù.»
«Ordunque?»
«Ora capirete di sicuro», disse Arnas Arnæus, «che l’Islanda non si può comprare.»
L’amburghese rifletté, poi parlò. «Pur essendo solo un mercante, credo di afferrare almeno in parte il vostro ragionamento. Vi chiedo perdono se non sono del tutto d’accordo. Certo, la grandiosità delle vette non si può comprare né vendere; e nemmeno i capolavori dei geni di quella nazione; né i poemi cantati da chi la abita; sono cose per le quali nessun mercante farebbe un’offerta d’acquisto. A noi mercanti interessa solo il profitto. Ma per quanto riguarda il popolo d’Islanda: benché in quella terra si trovino grandi vette e il monte Hekla che sputa veleni e fa tremare il mondo intero, e benché gli islandesi abbiano anticamente composto magnifici testi eddici e altre storie, sta di fatto che devono pur mangiare e bere e mettersi addosso qualche straccetto. L’unica cosa che resta da capire è se agli islandesi convenga che la loro isola d’
Islandia
rimanga un quartiere schiavile danese oppure diventi un ducato indipendente…»
«… sotto il giogo dell’imperatore», completò Arnas Arnæus.
«Un’idea che ai signori islandesi di un tempo sembrava tutt’altro che assurda», disse Uffelen. «Ad Amburgo sono conservate splendide fonti documentarie dell’antichità islandese. Senza dubbio l’imperatore si dimostrerebbe clemente verso il suo ducato d’Islanda; e così anche il re inglese. Il governo islandese, dal canto suo, concederebbe stazioni di pesca e di commercio alla compagnia amburghese.»
«E il duca?»
«Il duca Arnas Arnæus terrebbe corte lassù, sull’isola, come più gli aggrada.»
«Messere è un mercante spassoso.»
«Mi piacerebbe che vossignoria non considerasse questi miei discorsi come vaniloqui, tanto più che non ho alcun motivo di rivolgere
moqueries
a messere.»
«Credo che non vi sia carica, in Islanda, che il re danese non mi abbia offerto. Per due anni ho assolto la funzione più alta mai affidata a un uomo lassù: ho avuto autorità sulla divisione islandese della Regia Cancelleria, sulla Compagnia, sui giudici, sui delegati dell’amministratore provinciale; in certa misura perfino sull’amministratore provinciale stesso. In più ero mosso dal più fervido desiderio di favorire la mia patria. E qual è stato l’esito dei miei sforzi? Carestia, messere. Altra carestia. L’Islanda è una terra sconfitta. Chi ne diventasse duca, sarebbe lo zimbello del mondo, anche se fosse al servizio di quei bravi amburghesi.»
Uffelen rispose: «Avrete pur avuto regia autorizzazione a fare molto, in Islanda, messere, ma vi mancava la cosa di cui voi stesso mi avete appena parlato; non avevate l’autorità, né il potere, di realizzare ciò che importava di più: l’espulsione dei monopolisti con regia concessione e l’introduzione di un commercio equo.»
Arnas Arnæus disse: «Più e più volte Sua Graziosissima Maestà ha mandato messi a pregare con le lacrime i prìncipi stranieri di acquistare da lui l’Islanda, o di concedergli un prestito prendendola come garanzia. Ogni volta che la Compagnia subodorava risoluzioni del genere, offriva alla Corona rendite maggiori sul commercio islandese.»
«È mio desiderio», disse Uffelen, «che questo affare si concluda al più presto, in modo che non giunga alle orecchie dei mercanti d’Islanda prima che la notizia sia di pubblico dominio. Tutto dipende dalla vostra disponibilità a farci da portavoce presso il volgo islandese. Se io avessi la vostra parola già oggi, l’acquisto si farebbe domani stesso.»
«Prima bisognerebbe appurare», disse Arnæus, «se questa offerta sia qualcosa di diverso da un trucchetto del re, di quelli che servono a strappare ai mercanti d’Islanda un canone superiore, in un momento in cui nulla è lasciato intentato pur di trovare fondi per far fronte alla necessità che verrà dopo il ballo: la guerra. Quand’anche temporeggiassi nel darvi una risposta, un ritardo di un giorno non sarà certo di alcun danno.»