Il titolo di questo libro richiede qualche spiegazione. Con l’espressione “economia carolingia” intendiamo qui riferirci all’“economia dell’impero carolingio”, e non all’“economia dell’età carolingia”, che sarebbe un àmbito troppo vasto, travalicante quei confini dell’impero esistenti sotto Carlo Magno da noi assunti come campo d’indagine. Prenderemo in considerazione paesi e regioni esterne all’impero quali l’Inghilterra, la Scandinavia, l’impero islamico (compresa la maggior parte della Spagna), l’impero bizantino e l’Europa orientale solo per quanto attiene ai loro rapporti commerciali con l’impero carolingio. I termini cronologici, dalla metà dell’VIII secolo alla fine del IX, sono necessariamente politici, benché coincidano, casualmente, anche con l’inizio e la fine di un periodo economico, come si dimostrerà nella parte IV, cap. III. Per “economia carolingia” si può anche intendere un’economia diretta dai governanti carolingi, un’interpretazione che non respingo del tutto, ma di cui chiarirò i termini nella parte IV, cap. II, dedicato a Economia e stato. Uso il termine “economia” al singolare, anche se dal punto di vista economico l’impero carolingio non costituí un’area omogenea; si potrebbero individuare parecchie “economie” regionali, ciascuna con proprie caratteristiche per popolazione, uso del denaro, presenza di città, intensità del commercio, ecc. I territori tra la Loira e il Reno, tra il Reno e la frontiera dell’impero sul fiume Elba e l’Italia settentrionale ne sono gli esempi piú cospicui. Ciò nonostante ha senso ed è possibile indagare la specificità dell’economia carolingia nel suo insieme, confrontandola con quella delle regioni esterne all’impero o con le precedenti o successive situazioni economiche. Si trattò, per citare Chris Wickham,1 di «una rete di scambi basata sulla sussistenza», la cui produzione era regolata dal consumo, o di un’economia che produceva eccedenze da portare al mercato?
È un dilemma che si avvicina a quello di Pirenne, per il quale l’economia carolingia fu un’economia chiusa a base agricola, priva di città, mercanti o commercio. Le sue opinioni, espresse con straordinario vigore nel suo libro Mahomet et Charlemagne (completato dopo la sua morte nel 1935 e pubblicato, con l’aggiunta di prove documentarie, dal suo allievo Fernand Vercauteren nel 1937),2 furono essenzialmente una risposta alle idee espresse da Alfons Dopsch nella seconda edizione (1921-’22) del suo libro in due volumi, scritto tra il 1911 e il 1913, sull’evoluzione economica del periodo carolingio (Die Wirtschaftsentwicklung der Karolingerzeit).3 In tale opera Dopsch aveva contestato le posizioni di quella che egli chiama la vecchia scuola del XIX secolo di von Inama-Sternegg e Karl Lamprecht, che avevano proclamato la supremazia del “maniero”4 (Grundherrschaft) nella vita economica carolingia. Opponendosi alla loro concezione di un’economia a base agricola, Dopsch evidenziò il ruolo delle città, del denaro e del commercio. Era un punto di vista che ci si sarebbe potuti aspettare da Pirenne, il quale, invece, paradossalmente, si schierò con la vecchia scuola in cui Lamprecht, precedentemente alla Prima guerra mondiale, era stato suo modello e strettissimo amico. Non è tuttavia questo il luogo migliore per approfondire la genesi di Mahomet et Charlemagne di Pirenne,5 quanto piuttosto quello in cui riconsiderare la storiografia sull’evoluzione economica sotto i carolingi a partire da Pirenne.
La prima fase di tale storiografia, dai tardi anni 1930 fino a tutti gli anni 1950, fu contrassegnata da un attacco all’opera di Pirenne e in particolare alla sua posizione sul ruolo degli arabi. Padroni assoluti del Mediterraneo occidentale a partire dal 711, essi avevano costretto il mondo cristiano occidentale, secondo Pirenne, a ritirarsi a nord di quello che fino ad allora era rimasto il centro del mondo civilizzato, imprimendo un carattere continentale all’impero carolingio. Fu cosí che cessò la circolazione di beni quali il papiro, le spezie, i vini orientali e l’olio d’oliva, attivata soprattutto dai mercanti siriani dalle sponde del Mediterraneo verso il nord. Diversi studi riconsiderarono i riferimenti a tali prodotti nei testi merovingi e carolingi, concludendo che la loro scomparsa dai testi carolingi non era mai stata completa e rapida come aveva creduto Pirenne, o che aveva avuto altre cause.6
Piú fondamentale delle discussioni sulle prove documentarie della presenza di questi beni fu la disputa sulle cause dell’adozione del soldo d’argento da parte dei carolingi e del loro abbandono delle monete d’oro, iniziative che Pirenne aveva attribuito anch’esse alla conquista araba del Mediterraneo occidentale e al regresso economico che, a suo dire, ne era derivato per conseguenza all’Occidente.
Nei tardi anni 1940 e nei primi 1950 Maurice Lombard elaborò un’ipotesi circa le vaste quantità d’oro che gli arabi si erano procacciati nel corso delle loro conquiste in Persia e in Africa e che furono quindi messe in circolazione. Con quest’oro, secondo Lombard, essi comprarono schiavi, legno, pellicce e altri articoli nell’Europa occidentale, vivificandone l’economia.7 Sture Bolin appoggiò queste opinioni inortodosse, ma da un’angolazione differente, individuando collegamenti commerciali tra le terre arabe e la Scandinavia capaci di spiegare i cumuli di monete d’argento arabe trovati in Scandinavia e che alla fine raggiunsero l’Europa occidentale.8 Queste teorie non rimasero salde: Grierson dimostrò che nell’Europa occidentale non circolò alcuna moneta d’oro araba in quantitativi significativi.9 Gran parte delle monete arabe trovate a Birka (vicino Stoccolma, Svezia), inoltre, datano alla fine del sec. IX e all’inizio del X,10 benché a Ralswiek, nell’isola di Rügen, al largo della costa baltica della Germania settentrionale, giacesse un ammasso di parecchie migliaia di monete d’argento arabe, le piú recenti risalenti alla metà del IX secolo.11 Questo non significa che tra il mondo arabo e l’Europa occidentale non ci fosse commercio diretto in età carolingia, come sostenne Pirenne, non senza ammettere qualche eccezione, in particolare riguardo al commercio degli schiavi. Ma il loro impatto economico non va esagerato, anche se lo stesso Grierson e altri numismatici ipotizzano un legame tra la riforma monetaria carolingia della metà dell’VIII secolo e una precedente riforma araba della fine del sec. VII.12 Secondo K.F. Morrison le prove numismatiche, che anche in questo caso sono esigue, di fatto non dicono nulla di certo intorno alle rotte commerciali o al volume del commercio.13 Sulla base delle prove documentarie, tuttavia, F.-L. Ganshof, anch’egli discepolo di Pirenne, l’anno dopo l’apparizione di Mahomet et Charlemagne dimostrò che nell’VIII secolo le relazioni tra Oriente e Occidente continuarono attraverso i porti della Provenza, in particolare Marsiglia, foss’anche a livello minimo.14 H.L. Adelson ha imputato questo stato di cose a Bisanzio.15 Anche altri autori hanno cercato di dimostrare che i rapporti tra l’Occidente da un lato e Bisanzio e l’Oriente dall’altro, essenzialmente attraverso alcuni porti italiani in teoria sottoposti all’autorità bizantina come Venezia e come quelli situati sulle coste tirreniche dell’Italia meridionale, in particolare Amalfi, dipendevano in primo luogo dai rapporti militari tra Bisanzio e gli arabi nel Mediterraneo orientale.
Poiché la parte piú importante della tesi di Pirenne, il ruolo negativo degli arabi e la conseguente assenza di mercanti, di città e di commercio nell’Europa occidentale e il predominio di un’economia agricola fondata sull’autosufficienza della grande tenuta, è stata respinta in blocco o almeno in parte da quasi tutti i suoi critici, solo il secondo elemento è stato fatto oggetto di nuovi studi, in una successiva fase della storiografia dei critici di Pirenne. Il fatto che l’attenzione si sia spostata dal commercio all’agricoltura può essere spiegato dalla saturazione provocata dai numerosi critici durante la prima fase storiografica, tutta incentrata sul commercio, e dalla paradossalità del fatto che nel suo Mahomet et Charlemagne lo stesso Pirenne era stato assai sommario sul ruolo del maniero, benché l’avesse posto alla base dell’economia carolingia. Il preludio alla seconda fase storiografica degli anni 1950 e dei primi anni 1960, accanto alle lezioni ciclostilate ma importanti di Charles-Edmond Perrin alla Sorbona, furono i numerosi e fondamentali studi di due tedeschi, K. Verhein e W. Metz, condotti sulle fonti per l’analisi delle proprietà reali carolinge, piú in particolare su un capitolare di Carlo Magno noto sotto il nome di Capitulare de Villis e sugli inventari chiamati Brevium exempla.16 A questa fase appartenne la “Settimana” di Spoleto del 1965, dedicata all’agricoltura degli inizi del Medioevo, dove io presentai una nuova tesi sull’origine della tenuta bipartita di tipo classico, cosí tipica del periodo carolingio. Il suo sviluppo dal sec. VIII al IX seguí il modello delle tenute reali tra la Senna e il Reno.17
Benché le mie opinioni venissero ampiamente accettate, il vero inizio degli studi sul maniero focalizzati sul periodo carolingio furono tre seminari internazionali tenutisi rispettivamente a Xanten (1980), Gand (1983) e Gottinga (1987).18 A Xanten contai 109 studi pubblicati tra il 1965 e il 1980 su tale specifico argomento, mentre Yoshiki Morimoto nel 1988 enumerò un centinaio di nuovi titoli apparsi tra il 1980 e il 1986.19 Frattanto, all’accademia di Gottinga, per iniziativa dell’archeologo Herbert Jankuhn, nel 1977 iniziò una serie di seminari sugli aspetti materiali e archeologici dell’agricoltura preistorica e protomedievale.20 Negli anni 1980 un profluvio di edizioni critiche mise a disposizione degli specialisti i testi annotati di quasi tutti i polittici e inventari carolingi superstiti: quelli delle abbazie di Prüm, Wissembourg (Weissenburg), Montiérender, St. Maur-des-Fossés e, ultima ma non meno importante, St. Germaindes-Prés, principalmente per iniziativa di Dieter Hägermann dell’università di Brema, e comunque tutti opera di studiosi tedeschi.21 In precedenza alcuni studiosi belgi avevano pubblicato altri famosi polittici e inventari carolingi: F.-L. Ganshof quello di St. Bertin, J.-P. Devroey quelli di Reims e Lobbes e io stesso un frammento di un inventario carolingio di St. Bavo a Gand.22
Dopo questa fioritura di studi sull’organizzazione signorile carolingia, che investí persino l’Italia,23 si sentí il bisogno di valutare e compendiare, soprattutto dopo che Robert Fossier, in un opuscolo che fece scalpore alla “Settimana” di Spoleto del 1979, ebbe espresso un giudizio assai negativo sull’economia carolingia.24 Quasi dieci anni dopo, nel 1988, all’abbazia di Flaran venne organizzato un confronto con Fossier sotto la presidenza di Georges Duby, che aveva a sua volta espresso un giudizio analogo nel suo libro Warriors and Peasants del 1973, ma che a Flaran non si compromise. Il maggior contributo al convegno di Flaran, che di fatto ebbe come tema centrale lo sviluppo agricolo nell’alto Medioevo, fu quello di Pierre Toubert sul ruolo del grande maniero per il “decollo” dell’economia occidentale durante i secc. VIII, IX e X. Esso resta tuttora la migliore analisi delle vedute “minimaliste” in fatto di economia carolingia e nello stesso tempo una recisa confutazione delle stesse, basata sulle acquisizioni degli studi recenti e anche su fonti importanti.25
Agli occhi dei minimalisti la bassissima rendita fondiaria della grande tenuta fu una delle caratteristiche essenziali del sistema di produzione signorile. Tale posizione era suffragata in primo luogo dalle ipotesi demografiche sulla bassa densità di popolazione della maggior parte delle regioni, eccetto dove non si possa sfuggire alla prova documentaria del contrario, come nel bacino di Parigi. La loro interpretazione dell’ampia estensione media del mansus fu usata anche come argomentazione demografica, di nuovo facendo eccezione per Parigi. Le basse rese e l’impiego di una larga parte dei raccolti per le semine dell’anno successivo, per l’esercito e per l’approvvigionamento della corte del re o del signore, non lasciavano grandi disavanzi di cereali per il mercato. L’“autoconsumo” era la regola e non c’era incentivazione al reinvestimento. Le tecniche di coltivazione erano primitive e gli strumenti agricoli scarsi e fatti di legno. Affronteremo nella parte II, cap. I, la confutazione di questo tipo di concezione, quasi mai sostenuta da prove testuali o di altro genere, a partire dal magistrale contributo di Toubert al dibattito di Flaran.
A questa lunga seconda fase di interesse per l’agricoltura carolingia e per l’organizzazione signorile, un argomento alquanto negletto da Pirenne, ne succedette una terza in cui gli studiosi post-pirenniani degli anni 1980 si volsero, dopo un intervallo di vent’anni, all’argomento prediletto da Pirenne: quello del commercio e delle città, benché adesso indagato da un punto di vista totalmente nuovo e scarsamente noto finché Pirenne rimase in vita e comunque da lui perlopiú ignorato: l’archeologia. A partire dalla Seconda guerra mondiale l’archeologia medievale si era emancipata da quella classica. I nuovi archeologi erano a un tempo anche storici o quantomeno ne avevano l’ambizione.26 Fra di essi Richard Hodges è il piú interessato alla storia economica e sociale dell’età carolingia e in particolare ai problemi impostati da Pirenne. Come Toubert e gran parte degli attuali specialisti in materia, Hodges considera l’età di Carlo Magno un periodo di espansione economica, intorno a cui ha scritto parecchi e controversi libri.27 Un importante specifico aspetto di questa controversia è la sua forte convinzione dell’origine carolingia delle città, piú in particolare di quelle che intorno alla metà del sec. IX succedettero come portus ai cosiddetti emporia. Entrambi i tipi di città, a suo avviso, contengono in nuce lo sviluppo urbano dei secc. XI e XII. Questa affermazione è piú discutibile per gli emporia che per i nuovi portus del sec. IX. Contrariamente ai primi, gran parte dei portus sopravvissero alle invasioni vichinghe senza alcuna significativa interruzione e dettero luogo, a partire dal sec. X in poi, a importanti città che nel sec. XI si trovarono impegnate nel commercio a lunga distanza. Gli emporia dell’impero carolingio, Dorestad, Quentovic e altri centri minori (Medemblik, Witla), a differenza di altri luoghi esterni ai confini come Londra, Hamwic (Southampton) o Ribe, non evolvettero in città di piú cospicua importanza successiva. Questo è il nostro solo punto di discussione rispetto alle recenti opinioni di Richard Hodges cosí come appaiono esposte nel suo libro Towns and Trade in the Age of Charlemagne.28 Il nuovo recente interesse per le città, specialmente da parte di archeologi come Hodges, Hill, Van Es e altri, riaprirà sicuramente il dibattito intorno a Mahomet et Charlemagne, che non si è ancora concluso e probabilmente mai si chiuderà. Per parte mia, spero che alcune delle idee esposte in questo libro possano apportarvi un apprezzabile contributo.
1. C. WICKHAM, Land and Power. Studies in Italian and European Social History, 400-1200, London 1994, p. 197.
2. H. PIRENNE, Mohammed and Charlemagne, trad. ingl., London 1939 (ed. econ. New York 1955).
3. A. DOPSCH, Die Wirtschaftsentwicklung der Karolingerzeit vornehmlich in Deutschland, Weimer 1921-1922 (2a ed. rivista), 2 voll.
4. Useremo il termine maniero, di qui in avanti, nel suo senso, in parte etimologico, in parte calcato sull’inglese, di ‘tenuta agricola con residenza padronale’ o ‘signoria fondiaria’ [N.d.T.].
5. P. DELOGU, Reading Pirenne Again, in The Sixth Century. Production, Distribution and Demand, a cura di R. HODGES e W. BOWDEN, Leiden 1998, pp. 15-40.
6. B.D. LYON, The Origins of the Middle Ages. Pirenne’s Challenge to Gibbon, New York 1972, pp. 70-76.
7. M. LOMBARD, Les bases monétaires d’une suprématie économique. L’or musulman du VIIe au XIe siècle, in «Annales. Economies-Sociétés-Civilisations», 2 1947, pp. 143-60; ID., Mahomet et Charlemagne. Le problème économique, in «Annales. Economies-Sociétés-Civilisations», 3 1948, pp. 188-99.
8. S. BOLIN, Mohammad, Charlemagne and Ruric, in «The Scandinavian Economic History Review», I 1953, pp. 5-39.
9. P. GRIERSON, Carolingian Europe and the Arabs. The Myth of the Mancus, in «Revue Belge de Philologie et d’Histoire», 32 1954, pp. 1059-74.
10. B. AMBROSIANI, Excavations in the Black Earth Harbour, 1969-’71, in Early Investigations and Future Plans, a cura di B. AMBROSIANI e H. CLARKE, Stockolm 1992, p. 79.
11. H. CLARKE-B. AMBROSIANI, Towns in the Viking Age, London 1995 (2a ed. rivista), p. 109.
12. P. GRIERSON, The Monetary Reforms of Abd-Al-Malik, in «Journal of Economic and Social History of the Orient», 3 1960, pp. 241-64.
13. K.F. MORRISON, Numismatics and Carolingian Trade. A Critique of the Evidence, in «Speculum», 38 1963, p. 432.
14. F.-L. GANSHOF, Note sur les ports de Provence du VIIIe au Xe siècle, in «Revue Historique», 184 1938, pp. 28-37.
15. H.L. ADELSON, Early Medieval Trade Routes, in «American Historical Review », 65 1960, pp. 271-87.
16. K. VERHEIN, Studien zu den Quellen zum Reichsgut der Karolingerzeit, in «Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters », 10 1954, pp. 313-94, e 11 1955, pp. 333-92; W. METZ, Das Karolingische Reichsgut, Berlin 1960.
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23. P. TOUBERT, L’Italie rurale aux VIIIe-IXe siècles. Essai de typologie domaniale, in I problemi dell’Occidente nel secolo VIII. XX Settimana di studio del CISAM, Spoleto, 6-12 aprile 1972, Spoleto 1973, pp. 95-132; B. ANDREOLLI-M. MONTANARI, L’azienda curtense in Italia, Bologna 1985.
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25. P. TOUBERT, La part du grand domaine dans le décollage économique de l’Occident (VIIIe-Xe siècles), in La croissance agricole du Haut Moyen Âge. Xe Journées internationales d’histoire, Abbaye de Flaran, 9-11 septembre 1988, Auch 1990, pp. 53-86.
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