Capitolo 3

Capitolo Tre

La porta di un piccolo fabbricato più distante dagli altri sul terreno che apparteneva a Cleavis Rhy si chiuse di botto. Carico come un mulo da soma, Cleav avanzava sul prato spoglio dell’inverno portando provviste dal “magazzino della carne”.

Era una splendida giornata, per essere marzo, e Cleav voleva trascorrere il primo pomeriggio a badare alla serie di laghetti e stagni scavati nel terreno tra il negozio e il fiume. Il sole brillava luminoso, scacciando il freddo invernale dall’aria, e la brezza che gli scompigliava dolcemente i capelli smuoveva senza disturbare le ultime vestigia della bellezza dell’inverno.

Cleav era ben felice di non essere sottovento, visto quello che portava con sé.

Il sacco di rete ricolmo di carne finemente macinata puzzava da morire. Quello era il compito che Cleav amava meno svolgere: la cura e l’allevamento delle trote era un impegno gratificante, ma a volte molto puzzolente.

Quando raggiunse gli stagni, Cleav iniziò a distribuire ai pesci il cibo in modo metodico. Fedele adepto del metodo scientifico, credeva che l’ordine fosse essenziale per uno studio appropriato e documentabile.

Si avvicinò allo stagno dei piccoli e staccò il cappio della corda che attraversava lo stagno di piolo in piolo. Con attenzione, reggendo la corda, vi attaccò il sacchetto di carne e vi diede qualche strattone fino a quando il sacco non fu scivolato fino al nodo che si trovava circa a metà; poi abbassò il capo della fune fino a fargli toccare terra e strinse il cappio attorno al piolo. Sentiva già i pesci che tiravano la corda, come facevano sempre quando era ora di mangiare.

Cleav era sempre stato affascinato dai pesci. Quando portava ancora i pantaloncini alle ginocchia, correva via da scuola tutti i giorni e si sbrigava a finire i propri compiti per poter andare a pescare.

In molti avrebbero potuto definire la sua infanzia come ideale: aveva cibo in abbondanza, vestiti caldi, un letto pulito e il più sfuggente di tutti gli agi umani, il tempo libero. Ma il giovane Cleavis Rhy riempiva il suo tempo libero non con sogni a occhi aperti di avventure in mare, o facendo violenti giochi di forza con i suoi compagni di scuola, ma osservando in silenzio i segreti della natura.

E adesso, ogni pomeriggio all’ora di pranzo, mentre sua madre badava all’emporio, Cleav continuava la sua pigra ricerca. Allungato sull’erba accanto allo stagno, con le gambe lunghe incrociate morbidamente alla caviglia, si puntellò su un gomito per godersi lo spettacolo che stava per cominciare. I pesciolini, non più lunghi di un dito, nuotavano eccitati attorno al sacco di rete: erano giovani trote, sole al mondo, affamate ma impaurite. Il mondo era un luogo pericoloso per i piccoli di trota, che si avvicinavano cautamente al loro cibo.

I pesciolini vi nuotavano attorno per diversi secondi, fino a che uno più coraggioso degli altri avrebbe trovato il cibo così irresistibile da azzardarsi ad assaggiarlo.

Con il premio saldamente stretto tra i suoi denti di pesciolino, si sarebbe allontanato, creando un momentaneo fremito di paura tra i suoi fratellini, che si sarebbero di nuovo stretti attorno all’amato ma temuto sacco di tela fino a quando la successiva trota ardita avrebbe avuto il coraggio di rischiare tutto per amore del cibo.

Cleav li osservò soddisfatto: stavano imparando, i suoi piccolini. Ogni giorno i pesciolini impiegavano meno tempo a vincere la paura. I pesci più grandi erano invece ormai impavidi, visto che sapevano che in quegli stagni non c’era alcun pericolo. Anche i pesciolini avrebbero imparato, ma per quando avessero smesso di avere paura si sarebbero già trovati nel laghetto per l’ingrasso. I pesciolini avrebbero sempre avuto paura di quel sacco, decise: era così che la natura proteggeva le piccolissime trote.

Sotto il suo sguardo attento, il banchetto si faceva sempre più frenetico, meravigliandolo con la fantastica danza di cento piccole trote. Quello spettacolo non cessava mai di stupirlo. Poteva stare seduto lì a pensare, immaginare, ipotizzare, e niente e nessuno avrebbe potuto disturbarlo. Almeno fino a quando non vide un riflesso di donna nell’acqua di fronte a lui.

Si girò con un sussulto. Esme Crabb era in piedi dietro di lui, vestita dello stesso abito pulito ma consunto del giorno prima.

“Che cosa ci fate qui?” le domandò, sorpreso. Nessuno prima di allora l’aveva mai disturbato, lì agli stagni.

Esme si sedette per terra accanto a lui, incrociando distrattamente le gambe come un’indiana, e fece spallucce come a fingere indifferenza. “Oh, vi stavo cercando.”

Cleav non sapeva come interpretare quelle parole. Dopo l’incidente del giorno prima in emporio, il pensiero e il ricordo di Esme Crabb l’avevano tormentato. Vederla sollevarsi l’abito per sistemarsi le calze l’aveva sconvolto, ma alla fine, con grandissima difficoltà, era giunto alla conclusione che la colpa era soltanto sua: aveva continuato a fissarle la gamba nuda, il polpaccio, il ginocchio, la coscia. Non riusciva a capire perché fosse stato tanto maleducato. Lei era una ragazza di campagna cresciuta senza madre, e un tale comportamento in lei era comprensibile, anche se non accettabile. Lui, invece, avrebbe dovuto avere la decenza di voltarsi dall’altra parte. Un vero gentiluomo l’avrebbe fatto, ne era sicuro.

Esme si guardò attorno, curiosa, e osservò i pesciolini che consumavano il loro pasto. “E voi? Che state facendo?” domandò a Cleav.

“Sto lavorando.”

L’espressione di Esme si accese di divertimento. “Lavorando?” ripeté, studiando la posa rilassata di Cleav e guardando poi l’ambiente bucolico e tranquillo attorno a loro. “Dovrò parlarne a mio padre, sembra proprio il lavoro dei suoi sogni!”

Cleav si alzò in piedi, la mascella rigida dalla rabbia. Sapeva che la gente non comprendeva il suo lavoro, e persino il reverendo Tewksbury e la cara miss Sophrona riuscivano a malapena a nascondere le loro espressioni annoiate quando lui ne parlava. Ma era un lavoro, un lavoro importante, e Cleav si stizzì nel sentirsi paragonare ingiustamente al pigro e inutile Yohan Crabb.

“Alcuni uomini faticano con le braccia e altri con la mente. È chiaro che voi siete abituata alla prima opzione.” Cleav si allontanò sgarbatamente dalla giovane donna che l’aveva interrotto quel pomeriggio. Aveva delle faccende da sbrigare, e non poteva permettere a una curiosa campagnola di distrarlo.

Il tono sdegnoso di Cleav irritò Esme, che però si morse il labbro e gli corse dietro. “È permaloso,” sussurrò tra sé e sé, come a prendere nota a futura memoria. Doveva farsi adorare e desiderare, non farlo arrabbiare!

Cleav raccolse un secchio che aveva lasciato vicino a uno stagno più grosso e più profondo verso valle. Esme corse per raggiungerlo e gli sorrise quando fu al suo fianco. Era proprio dell’altezza giusta, si disse: né troppo alto da essere goffo, ma alto abbastanza da poter sovrastare la folla. Le piacque anche la facilità con cui aveva raccolto il secchio pieno, dimostrazione che i suoi muscoli erano forti.

Quegli allegri pensieri la incantarono per un momento, fino a quando sentì un odore decisamente spiacevole. Si allungò a guardare nel recipiente.

“Bleah! Che roba è?” gli domandò, arricciando il naso disgustata.

“È cibo per le trote,” rispose lui.

“Che gli date da mangiare, merda di puzzola?”

Cleav rimase spiazzato dal suo linguaggio schietto, ma si riprese in fretta. “Carne,” ribatté in tono calmo.

“Carne?” Esme sollevò le sopracciglia. “Ho paura che sia proprio carne, e quant’è vero Dio quella bestia è morta da almeno un mese!”

“Le trote non sentono gli odori,” le spiegò lui, vagamente agitato. “I pesci, in circostanze normali, non consumano mai maiale.”

“Ed è così che Dio ha voluto che andassero le cose. Vi immaginate cosa succederebbe se ogni volta che un maiale si avvicina al fiume un pesce venisse su e iniziasse a sbranarsi il povero animale? Verrebbe maciullato per bene ancor prima di arrivare al mattatoio!”

Cleav non riuscì a nascondere il fantasma di un sorriso che gli tese le labbra al pensiero di un suino che strillava sotto l’attacco di un nugolo di trote carnivore. Aveva dello spirito, quella donna, ammise con riluttanza. Dal momento che lo spirito era un’alta manifestazione dell’intelletto, si chiese con curiosità quanto intelligente fosse la Crabb. La gente in paese diceva che era più sveglia delle sue sorelle, ma anche se lui conosceva a malapena le gemelle Crabb, non gli era difficile immaginare che persino le pietre erano più intelligenti di quelle due.

Con un po’ di pazienza, Cleav continuò a spiegare. “È molto difficile per me trovare abbastanza pesciolini e sanguinerole per nutrire così tante trote, quindi sto cercando di far durare più a lungo il cibo per pesci mescolandolo al maiale. Per il momento non sembrano in grado di notare la differenza, ma pare che il loro apparato digerente tolleri meglio il maiale se la carne è parzialmente decomposta.”

Esme aggrottò la fronte con aria seria mentre ascoltava la sua spiegazione. “Volete dire quando è marcia?” tradusse.

“Esatto,” confermò lui, rimangiandosi una risata. Cleav si fermò accanto al laghetto ed Esme, incredula, vide che l’ombra proiettata dal suo corpo sull’acqua era abbastanza da far uscire dai loro nascondigli un esercito di enormi trote.

“O mamma!” sussurrò Esme, meravigliata.

“Aspettano che io gli dia da mangiare,” rispose allegramente Cleav prima di accucciarsi e infilare la mano nel secchio pieno di carne putrida e rozzamente macinata. Ne estrasse un pugno e mise la mano appena sotto la superficie dell’acqua, ed Esme, stupitissima, vide che le orgogliose trote si avvicinavano in fretta per prendere un boccone.

“Vi mangiano proprio di mano!” Gli occhi di lei erano sgranati dalla sorpresa e si alzarono a guardare Cleav come se avesse appena compiuto uno straordinario miracolo.

Il suo esuberante entusiasmo verso i suoi pesci deliziava Cleav, ma l’onestà lo spinse a spiegarsi meglio. “Non è merito mio,” le disse. “Questi sono i miei pesci da riproduzione. Da due anni li nutro sempre alla stessa ora e nello stesso punto.”

“Quindi vi conoscono.” Gli occhi di Esme brillavano di approvazione.

“Sono solo pesci,” obiettò lui bonariamente. “Non sanno fare altro che mangiare e riprodursi.”

“Be’, del resto la vita è quello.” Esme sbirciò nell’acqua. “Ce li hanno dei nomi? Come la chiamate quella lì un po’ grigina con il neo sulla guancia?”

“Non la chiamo,” rispose lui.

“Potreste chiamarla Pearly, come la signora Beachum,” gli disse Esme. “La signora Beachum ha un grosso neo proprio come quello.”

Cleav ridacchiò. “Avete assolutamente ragione, assomiglia proprio alla signora Beachum.”

Esme sospirò. “Sono così orgogliosa di voi,” disse. “Non avevo mai conosciuto nessuno che sapesse richiamare a sé i pesci.”

Cleav raccolse un’altra manciata di quel cibo dall’odore terribile e lo diede ai pesci ancora affamati. “Quando vedono un’ombra sull’acqua sanno che c’è del cibo e che non c’è pericolo nel venire a mangiarlo.”

“Oh, ma è meraviglioso,” insistette Esme. “I pesci vi conoscono e si fidano di voi.”

“No, voi pensate che queste trote somiglino a dei cani da caccia, ma non è così.”

“Certo che no,” concordò lei scuotendo la testa. “Il padrone doma il cane e poi lo addestra. I pesci invece vengono da voi, e voi non li avete domati o addestrati. Sono sempre pesci. Parlate con le creature selvatiche, insomma.”

Cleav rise forte. Il suo sorriso ampio e candido fece stringere il petto di Esme. La dolce brezza del pomeriggio gli aveva scompigliato i ricci, e i capelli castani disordinati sottolineavano la profondità dei suoi occhi azzurro chiaro.

“Non parlo ai pesci, signorina,” dichiarò lui con una finta severità che avrebbe fatto ridacchiare Esme, se solo il suo cuore non avesse preso a battere come un tamburo. Come aveva fatto a non accorgersi prima del giorno precedente di quanto lui fosse bello? E intelligente? E tanto gentile da non spaventare nemmeno i pesci?

“Siete voi a dare loro da mangiare, nessun altro,” gli disse piano.

Un barlume di curiosità si accese fuggevolmente nello sguardo di Cleav, che la invitò ad avvicinarsi. “Venite qui e dategliene voi.”

“Io?”

“Certo. I pesci vedono solo l’ombra, non conoscono la mano che li nutre.”

Esme esitò. “Non ne sono sicura…”

Per qualche motivo Cleav desiderava ardentemente che lei lo facesse. D’istinto seppe che lei non avrebbe resistito a una sfida. Abbassando gli occhi sul secchio del cibo, disse: “Certo, dovreste essere disposta a infilare la mano in questo secchio di schifezze.” Nella sua voce c’era più di una semplice ombra di sfida.

Lei mise immediatamente da parte le sue obiezioni di prima sul putrido cibo per i pesci. “Un po’ di schifo non mi fa impressione,” si vantò. “Ho ripulito le latrine un sacco di volte, e quello è decisamente peggio.”

Cleav ebbe la buona creanza di ignorare il suo commento indelicato.

“Mi ci farei il bagno, in questa roba, se piace ai pesci,” gli disse.

Cleav sorrise. “Non credo che sarà necessario, miss Esme.”

Sentirlo pronunciare il suo nome di battesimo le piacque molto. Ora sì che voleva dar da mangiare a quei pesci! Voleva dimostrargli che lei poteva fare qualunque cosa le avrebbe chiesto.

“Venite a sedervi qui davanti a me,” disse. “Dobbiamo fare in modo che i pesci pensino che siete solo un’altra parte di me.”

Esme esitò appena un attimo, poi gli si fece più vicina. Ancora acquattato, Cleav aprì di più le gambe e le lasciò abbastanza spazio per sistemarsi tra di esse, vicino all’acqua.

“Restate nella mia ombra,” le disse. “Se l’ombra non cambia, il pesce non avrà paura.”

Sentì la mano di Cleav sulla spalla, che la sistemava dolcemente nella posizione giusta, proprio davanti a lui, chinata sull’erba. Si sentì avvolgere dal suo calore, seduta così vicina al suo corpo, tanto che il ginocchio di Cleav era vicino alla sua guancia tinta di rossore.

Sentendo quanto vicina era la sua schiena al petto di lui, abbassò gli occhi per guardare l’ombra sull’acqua. Era invisibile, la sua figura completamente assorbita dall’ombra di lui. Si sentì qualcosa che le sfarfallava nello stomaco a quel pensiero. Per come la vedevano le trote, Esme Crabb era adesso parte di Cleavis Rhy. Quell’idea le faceva girare la testa.

“Prendete un pugno di cibo,” la istruì. “Hanno mangiato abbastanza, ma oggi daremo loro un premio in più, in onore della vostra accettazione.”

Con il caldo sorriso di incoraggiamento di Cleavis, Esme fece appena una smorfia nell’infilare la mano nel secchio. Si sporse in avanti, sentendo lui che la seguiva.

“Mettete la mano appena un paio di centimetri sotto l’acqua,” le disse, “e apritela circa a metà.”

Esme seguì le sue istruzioni alla lettera. Rabbrividì leggermente quando la mano toccò la fredda acqua di montagna. Irrigidendosi per il freddo, cercò di reprimere un inspiegabile fremito di paura, ma non riuscì a impedirsi di sussultare quando la prima grossa trota prese un avido boccone.

“Tranquilla,” la rassicurò Cleav posandole le mani sulle spalle. “Non vi mangeranno le dita,” le sussurrò vicino al collo. “Dovete fidarvi di loro proprio come volete che loro si fidino di voi.”

Il calore delle sue mani la rassicurava, ed Esme iniziò a rilassarsi. I grossi pesci si spingevano via l’uno con l’altro e le solleticavano le dita con le pinne mentre lottavano per avere la loro parte.

“Forza, Pearly,” incitò il pesce col neo sulla testa. “La mia mano non è grande come quella di Cleav, ma il mangiare ha lo stesso sapore.”

La risata di Cleav le fece sollevare i corti capelli sulla nuca.

“Oh, è meraviglioso,” sussurrò Esme, col cuore che le batteva forte per qualcosa che andava oltre l’emozione di nutrire i pesci.

Cleav era d’accordo con lei, anche se né i suoi pensieri, né i suoi sensi erano concentrati sui pesci. Quando Esme aveva sussultato dalla sorpresa, gli era parso più che naturale posarle le mani sulle spalle per rassicurarla e confortarla. Adesso voleva solo accarezzarla.

Le sue spalle dritte e sode erano indubitabilmente femminili, sotto le sue dita. Fingendo noncuranza, Cleav spostò il pollice verso il suo collo, sentendosi attraversare da una calda fitta di desiderio.

Smettila! ordinò a se stesso con rabbia. Quella donna aveva chiesto di dare da mangiare ai pesci, non di essere palpeggiata dal loro padrone.

“Guardate questo quant’è grosso!” L’esclamazione soffocata di Esme ribolliva di entusiasmo.

Cleav si sporse in avanti per seguire il suo sguardo e il suo petto si posò contro la lana consunta del cappotto di lei. Il suo mento era vicinissimo al suo collo, tanto che avrebbe potuto contare i sottili riccioli ribelli che erano sfuggiti alla sua grossa treccia bionda. Si costrinse a fare un respiro profondo e venne assalito dal dolce odore di lei: semplice sapone e profumo di donna, una combinazione che Cleav non aveva mai completamente apprezzato prima di allora.

Con naturalezza le sue mani scivolarono attorno alla sua vita, solo per tenerla in equilibrio, giurò a se stesso. Non poteva mica permettere che la giovane cadesse nell’acqua! Che poi l’acqua fosse meno profonda di un metro e che lei fosse seduta saldamente sulla riva erano fatti che non si diede pena di considerare.

La sua vita non era sottile come moda dettava, né era stretta dai soliti corsetti che la celavano e la proteggevano dagli uomini. Cleavis sentì la dolce cedevolezza della vera carne che aveva sotto le mani, separata dal sottile strato del suo cappotto, vestito e camiciola. Le sue dita fremevano dalla voglia di sbarazzarsi di quei pochi indumenti. Sapeva che avrebbe dovuto allontanare le mani da lei, ma la sensazione era troppo bella.

Ora che aveva nutrito i pesci e il suo palmo era vuoto, Esme tolse la mano dall’acqua fredda. Il caldo, morbido tocco delle dita di Cleav attorno alla sua vita aveva così attratto la sua attenzione che, quando guardò da una parte, rimase sorpresa nel trovare il suo volto così vicino al proprio. Come potevano due occhi di un azzurro tanto chiaro sembrare così ardenti, così profondi?

Era desiderio. Desiderio, lo stesso che aveva visto in lui in quei pochi, incancellabili e fuggevoli attimi nel suo emporio.

Ma in quel momento era stata lei a controllare la situazione. Adesso, circondata da lui, con le sue mani che la toccavano saldamente ma dolcemente, con la sua bocca, le sue labbra tanto vicine, Esme era incantata, e non era lei a incantare. Raccolse il proprio coraggio e si costrinse a parlare: “Devo dargliene ancora?” gli domandò, la voce ridotta a un sussurro tremante.

“No.” La sua risposta era breve, ma il suono continuò ad aleggiare nel petto di lei.

I loro sguardi si incontrarono ma di tanto in tanto quello di Cleav scendeva sulle labbra di lei, che si scaldarono tanto velocemente sotto il suo scrutinio che, senza pensarci, Esme le umettò con la punta della lingua.

Gli occhi di Cleav si sgranarono palesemente, e la presa si rinserrò sulla vita di lei. “Esme…” Quella parola era solo un sussurro agonizzante.

Lei stava tremando. Averlo così vicino, il desiderio, la paura lottavano tutti assieme dentro di lei. L’avrebbe baciata? Quando l’avrebbe baciata? Che cosa avrebbe fatto se lui l’avesse baciata? Avrebbe dovuto gridare? Fuggire? Oh, quanto voleva che la baciasse!

Lui aveva leggermente inclinato la testa da una parte. Buon Dio, Cleavis Rhy stava per baciarla! Quelle lunghe braccia muscolose l’avrebbero stretta. Quella splendida bocca si sarebbe premuta contro la sua. Quelle dita affusolate l’avrebbero toccata, accarezzata. Stava per succedere. Lui si avvicinò appena appena. Sì, l’avrebbe baciata, Esme ne era sicura. Da un momento all’altro le sue labbra avrebbero sfiorato quelle di lei. Mancava poco. Pochissimo. Adesso! Adesso!

Esme non poté più aspettare.

Si gettò su Cleavis Rhy e, allacciandogli strettamente le braccia attorno al corpo, sbatté le sue labbra calde e umide contro le sue.

Al suo improvviso slancio Cleav perse l’equilibrio e cadde a terra, con Esme distesa su di lui, sempre più vicina. Le dita di lei gli afferrarono i capelli, le sue labbra appiccicate a quelle di lui, più forte di una zecca su un cane randagio.

Udì un’esclamazione soffocata uscirgli dalla gola e sentì quanto era forte mentre, gentilmente ma con fermezza, cercava di scrollarsela di dosso.

La sensazione del suo corpo grande e forte contro il proprio e il profumo speziato della sua pelle erano più inebrianti di quanto Esme avesse immaginato. Quel formicolio agitato che sentiva nel ventre si dissolse, scatenando un desiderio che privò la giovane donna delle ultime vestigia del suo buonsenso.

Istintivamente Esme avvolse le gambe forti e muscolose attorno a lui e le strinse con tutte le proprie forze. Quando lui cercò di farla rotolare a terra, lei lo fece rotolare su di sé.

Cleav smise di lottare per un secondo, troppo sconvolto nel sentirsi quelle curve di donna premute addosso così intimamente, ma poi con la propria forza di uomo la scacciò via. Si rimise in piedi in fretta, mettendosi in posizione di guardia come un pugile pronto al prossimo attacco.

Esme si sedette sull’erba, con in volto un’espressione di puro sconvolgimento. La gonna scura di serge si era praticamente sollevata fino alla vita e permetteva ben più di una rapida occhiata alle sue gambe lunghe e snelle. Una calza di lana nera penzolava mollemente attorno alla caviglia, sopra la scarpa, mentre l’altra era appesa in modo assai precario al suo ginocchio. Le gambe dei mutandoni di semplice cotone erano sottilissime e quasi trasparenti per il lungo uso e i molti lavaggi.

Scioccato, Cleav si girò dall’altra parte per amore della propria pudicizia e di quella di lei.

Era ancora sconvolto dalle azioni di lei e faceva fatica a recuperare il proprio autocontrollo. Un attimo prima stavano dando da mangiare ai pesci, e quello successivo… non c’era bisogno di spiegarlo ulteriormente.

Come aveva potuto… Era impossibile. Un gentiluomo non si rotolava sull’erba con una fanciulla. E le fanciulle non si gettavano tra le braccia di gentiluomini che conoscevano appena. Che cosa voleva quella donna?

Il ricordo gli tornò in mente come un lampo. Volete sposarmi? Per Dio, quella campagnola voleva sedurlo?

I battiti del suo cuore tornarono a un ritmo normale, il suo respiro si acquietò e così anche i suoi pensieri. La giovane donna era fin troppo innocente e poco raffinata per essere in grado di formulare un piano del genere. Cleav ricordò a se stesso che in situazioni indelicate, e quella era la situazione più indelicata che riuscisse a ricordare, era sempre il gentiluomo a trovarsi dalla parte del torto.

Con in testa quella risoluzione si voltò verso Esme, ma le scuse gli morirono sulle labbra.

Esme era in piedi davanti a lui, orgogliosa, controllata e neanche un po’ contrariata dalla sconvenienza che aveva appena sofferto. “Cleavis Rhy,” disse con voce forte. “Mi dispiace moltissimo. Vi dirò, in tutta onestà, che non avevo mai baciato nessuno prima d’ora.”

Un leggero rossore le tinse le guance, ma sembrò più dovuto alla paura di aver perso un po’ di orgoglio piuttosto che la propria virtù.

“Ma imparo alla svelta,” aggiunse. “Credo che se mi darete un’altra possibilità, be’, bacerò meglio di qualsiasi altra ragazza in un batter d’occhio.”

Lui rimase a fissarla in silenzio. Nessuna esperienza in fatto di donne in vita sua l’aveva preparato a Esmeralda Crabb. Come poteva reagire da gentiluomo se lei non sapeva niente di come si comportavano le signore?

Esme mosse un passo impaziente verso di lui. Un passo fu abbastanza.

Cleav sollevò una mano come per tenerla lontana da sé, come a dirle Sta’ lontana da me, Esme Crabb.

Ma naturalmente lei non aveva alcuna intenzione di stargli lontana.