Capitolo 14

Capitolo Quattordici

Cleavis uscì dalla casa di cova e vide Esme distesa pigramente accanto a uno degli stagni.

“Scansafatiche!” esclamò dirigendosi verso di lei.

Esme rotolò sulla schiena e piegò un braccio sulla fronte per proteggersi dal bagliore accecante del sole. “Mi sto solo riposando, signor Rhy,” rispose lei, con una vena maliziosa nella voce. “Per il cielo, sono sposata solo da tre giorni, e vi giuro, mio marito non mi lascia dormire nemmeno un attimo!”

Con un sorriso più ampio, Cleav si lasciò cadere sull’erba accanto a lei. “Vi state vantando o lamentando, signora?”

“Sto solo enunciando i fatti, signore,” ribatté lei in tono di sfida.

Cleav si allungò per tirare giocosamente una ciocca di capelli vicino al suo orecchio.

“Alcuni dei fatti, signora, ma non tutti,” rispose divertito. “Avete dimenticato di riportare che vi svegliate due o tre volte ogni notte per strusciarvi contro quel pover’uomo sfruttato.”

Il sorriso di Esme si illuminò. “Noi gente di montagna siamo abituati a dormire in nove in un letto, raggomitolarci l’uno contro l’altro ci viene naturale,” dichiarò.

Cleav si chinò in avanti e le posò un bacio sulla punta del naso.

“Verrà parecchio naturale anche a me.”

Avendo già deciso che la gente chiamava a ragione il primo mese di matrimonio ‘luna di miele’, Cleav si sentiva felice. Ogni esitazione che aveva avuto sullo sposare Esme era evaporata come neve al sole. Lei era affettuosa, amorevole, divertente e bramosa del suo tocco, e Cleav si sorprendeva nel trovarsi più a suo agio assieme a lei che con chiunque altro.

Con Esme era libero di esprimere e fare quello che voleva, e lei né conosceva né aveva interesse per ‘il comportarsi bene’; ascoltava le sue opinioni ma aveva decisamente le proprie. Ma era altro, in lei, a colpirlo più del suo buonumore e dei suoi modi spicci: Cleav le piaceva sinceramente per ciò che era, e non esitava mai a dirlo. Quella era una novità inebriante.

“Che cosa ci fai qua fuori?” le domandò. “A parte lamentarti del tuo nuovo marito.”

Il sorrisetto di Esme era decisamente malizioso. “Stavo solo sognando un po’ a occhi aperti. Mi chiedevo quanto resterebbe scandalizzata la brava gente di Vader a sorprendere una coppia di sposini che si rotola nell’erba in pieno pomeriggio.”

Cleav sollevò un sopracciglio. “Be’, signora Rhy, non lo sapremo mai,” affermò con allegra decisione. "Non che tu non sia un’assoluta tentazione,” ammise, “ma quei pesci hanno molta fame.”

“Allora diamogli da mangiare!” esclamò Esme, rialzandosi velocemente in piedi e tendendo una mano per aiutare lui a fare lo stesso.

Cleav la accettò e la tenne tra le sue quando si fu alzato, e si avvicinarono al casottino della carne tenendosi per mano.

“Ho osservato bene tutti i pesci,” gli disse Esme, “cercando di conoscerli meglio.”

Cleav sorrise.

“Penso ancora che dovrebbero avere dei nomi,” proseguì, poi si strinse nelle spalle. “Ma qui ci sono più pesci di quanti nomi ci siano nella Bibbia.”

“Oh, non lo so. Tutti i ‘generato da’ potrebbero anche bastare,” disse. “Ma non ho intenzione di chiamare Giosafatte una delle mie belle trote.”

Esme ridacchiò.

Raccolsero insieme un secchio di carne macinata e portarono la mistura puzzolente sull’orlo dell’acqua.

“Queste sono le mie preferite,” gli disse Esme indicando i grossi pesci che nuotavano lentamente nell’acqua. “Sono così carine!”

“Le trote arcobaleno,” spiegò Cleav, annuendo. “Sono pesci molto belli, e bravi combattenti, ma sulla mia tavola preferisco le trote marroni. Non sono un granché a vedersi, ma sono molto buone.”

“Non riesco a immaginare che un giorno potrei mangiarle!” esclamò Esme rattristata.

“È per questo che le allevo.”

“Lo so. Non ha senso affezionarsi al cibo, ma sono proprio carine.”

Cleav sparse il cibo negli altri stagni e lasciò che Esme nutrisse quelle trote a mano, visto che a lei piaceva tanto farlo, e a lui piaceva guardarla.

Da parte sua, Esme pensava che badare ai suoi pesci fosse un po’ come badare a Cleav stesso.

“Cosa sono quelli grigi là?” gli domandò “Quelli che nuotano sempre con le arcobaleno.”

Cleav seguì la direzione del suo dito. “Quella è una testa d’acciaio,” rispose lui. “È lo stesso pesce di quelle arcobaleno.”

Esme lo guardò confusa. “Che vuol dire che è lo stesso pesce? Sono completamente diversi.”

Cleav annuì, accovacciandosi accanto a lei.

“Le teste d’acciaio e le arcobaleno sono esattamente lo stesso tipo di pesce,” spiegò mentre osservava una grossa testa d’acciaio dai riflessi argentei prendere un boccone di carne dalla mano di Esme. “Solo che crescendo diventano diverse.”

“Perché?”

“Be’, sai che tutte le trote migrano.”

“Migrano?”

“Nuotano in altri posti più a valle,” le disse. “A meno che tu non le chiuda in stagni come questi.”

“Perché lo fanno?”

Cleav si strinse nelle spalle. “Forse sono curiose,” ipotizzò, “o cercano solo il giusto compagno. Nessuno sa perché, lo fanno e basta,” concluse, “ma ritornano sempre alle acque in cui le loro uova si sono schiuse, il luogo in cui sono nate.”

Esme annuì.

“Quindi, tutte le trote viaggiano,” proseguì Cleav. “Ma le teste d’acciaio vanno più lontane di tutte. In un certo punto della sua vita, questo grosso pesce grigio nuotava nell’oceano.”

“Nell’oceano?”

“Sì,” rispose Cleav. “È l’acqua salata che trasforma in grigio i bei colori delle arcobaleno.”

“E quei colori non tornano più?”

Cleav scosse la testa. “No, una volta che arriva al mare cambia per sempre. La testa d’acciaio può ritornare a casa, restarci per il resto dei suoi giorni e vivere in mezzo alle altre trote arcobaleno, ma lui sarà sempre diverso per via di dove è stato.”

La testa d’acciaio venne a prendere un altro boccone, ed Esme la guardò con una strana tristezza negli occhi.

“È come te, Cleavis.”

“Cosa?”

“È come te. Non sarà mai un pesce d’acqua salata, ma ha visto l’oceano ed è rimasto segnato da esso.” Si voltò a guardarlo. “Tu sei stato in città, e quella ti ha cambiato.” Si guardò attorno, indicando l’ambiente che li circondava. “Tu vivrai sempre qui a Vader, ma la città ti ha lasciato addosso un segno, e non sarai mai come tutti noi.”

Cleav rimase a fissarla in silenzio, un silenzio che si estese per qualche attimo.

Esme abbassò lo sguardo sulla testa d’acciaio che nuotava nello stagno. “Voglio dare un nome a questo pesce.”

Gli occhi di Cleav si spostarono sulla pennellata d’argento che si agitava sotto l’acqua.

“Va bene,” le rispose. “Che nome gli darai?”

Un sorriso ampio e dolceamaro illuminò il viso di Esme.

“Lo chiamerò il Gentiluomo.”

Finirono insieme di dare da mangiare ai pesci. Esme canticchiava piano tra sé e sé, ma Cleav era silenzioso, quasi preoccupato. Era arrivato a volere molto bene a Esme, ma lo sconvolgeva che lei riuscisse a leggerlo con tanta facilità, lo metteva a disagio. Non avrebbe mai dovuto raccontarle del periodo trascorso in città, dei ricordi che non aveva condiviso con anima viva, ma in quel momento gli era sembrata la cosa più giusta da fare… e l’essere compreso da lei gli aveva donato una sensazione meravigliosa. Troppo meravigliosa.

Avrebbe voluto stare sempre con lei, raccontarle tutto ciò che gli era successo, ogni parola strana che era stata pronunciata, ogni sciocco pensiero o sogno che aveva fatto. Non era naturale per un uomo sentirsi così, ne era certo.

O forse invece lo era. Guardò Esme che, dall’altra parte della casa di cova, esaminava gli oggetti lì disposti, e si chiese cosa si provasse a essere innamorati.

Esme Crabb non era affatto il tipo di donna di cui pensava di potersi innamorare, il tipo di donna che avrebbe voluto come moglie, ma poteva sbagliarsi, e non sarebbe stata la prima volta. Era così che andava la scienza: gli scienziati avevano impressioni che cercavano di dimostrare, ma la metà delle volte dimostravano di essere in errore.

Aveva dimostrato di essersi sbagliato? Poteva amare Esme Crabb? Forse sì.

“Che cos’è questa cosa?” domandò Esme, osservando un grosso marchingegno rettangolare di legno con una manovella di metallo.

“È una scatola a rullo per la deposizione delle uova,” rispose lui, attraversando la stanza per mostrarglielo.

“Una scatola per la deposizione delle uova?”

“Con questa raccolgo le uova fertilizzate delle trote,” disse. “È un’idea nuova, ma a me piace moltissimo. Sembra più naturale per i pesci.”

Girò la manovella per mostrarle come funzionava.

“Il pesce depone le uova qui in cima. Quando sono fertilizzate, il rullo le porta in questo scompartimento in fondo alla scatola, da cui si possono togliere e portare alla casa di cova senza disturbare il pesce.”

Esme esaminò la scatola più da vicino e vide che in realtà erano tre scatole una dentro l’altra: lo strato più in alto era uno schermo di rete nascosto da ghiaia, sotto cui si trovava una tela metallica che passava sopra i rulli in fondo alla scatola, azionati dalla manovella. Esme rimase colpita dall’ingegnosità di quell’arnese anche se non ne comprendeva lo scopo.

“Non si possono semplicemente lasciare le uova nei laghetti?” domandò.

Cleav scosse la testa. “Ci sono troppi predatori. Per uccelli, rane e lucertole le uova di pesce sono una delizia. Detesto ammetterlo, ma molti dei miei pesci sono così stupidi che non distinguono il cibo dalla famiglia.”

Gli occhi di Esme si dilatarono. “Vuoi dire che mangiano i loro stessi figli?”

“Può succedere. Per questo tengo i piccoli separati dai più grandi fino a quando non sono abbastanza grossi da potersi difendere.”

“È un po’ triste,” disse Esme.

“Anche per me,” ammise Cleav. “La natura non è sempre bella e dolce come vorremmo che fosse. Io studio l’ordine naturale delle cose e ne ho una grande ammirazione, ma ritengo che debba esserci un equilibrio.”

“Che genere di equilibrio?”

“È difficile da spiegare,” iniziò a dire Cleav, aggrottando la fronte mentre cercava le parole adatte. “Alcune persone credono che solo le necessità degli umani siano importanti, che gli alberi debbano essere tagliati per lasciare spazio alla terra coltivabile e che gli animali pericolosi debbano essere regolarmente abbattuti.” Cleav sospirò e scosse la testa. “In contrasto con questa visione ci sono molti naturalisti che non vorrebbero cambiare niente e che credono che l’uomo non dovrebbe usare la propria intelligenza superiore per competere con gli animali e le piante.”

“Ma tu non sei d’accordo con nessuno di loro,” concluse Esme.

“No,” rispose Cleav ridacchiando, “sono d’accordo con entrambi.” Spostò lo sguardo oltre la porta, verso i laghetti fuori dalla costruzione.

“È come un uomo con una casa piena di bambini,” riprese a dire. “Credo che sia suo dovere assicurarsi che i suoi figli abbiano ogni giorno il pane sulla tavola.” Tornò a guardare Esme. “Ma questo non vuol dire che può ignorare i bambini del vicino, che potrebbero avere fame.” Prese la mano di Esme. “Capisci cosa voglio dire?”

Esme gli sorrise. “Sei un uomo meraviglioso, Cleavis Rhy,” rispose lei.

“Sono solo un uomo,” si schermì lui, “che cerca di fare ciò che ritiene giusto. Per questo preferisco tenere i pesci più vicini possibile alla loro natura selvaggia, e questa scatola mi aiuta a farlo. È più naturale.”

“Più naturale?” domandò Esme. “Più naturale di cosa? Cosa fanno le altre persone?”

“Be’, la maggior parte degli allevatori di trote aspetta semplicemente che i pesci siano fertili e poi li cattura con delle reti,” le spiegò. “Prendono un pesce in mano e premono sulla sua pancia: se è una femmina ed è matura, le uova escono direttamente fuori da lei e finiscono in una bacinella, in cui vengono fertilizzate e poi portate subito nella casa di cova. I pesci non devono fare molto.”

“Ma con la tua scatola invece sì?” chiese Esme.

Cleav annuì. “Quei canali che ho costruito all’estremità dei laghetti si chiamano piste. Quando per la femmina arriva il momento di deporre le uova, risale la corrente più che può per trovare un bel posticino in cui lasciarle. Io metto questa scatola proprio in fondo alla pista, ci metto un bel po’ di bella ghiaia con cui lei può fare il nido e poi la lascio lì.”

Gli occhi di Cleav brillavano di eccitazione e del piacere del ricordo.

“La femmina raggiunge la cima della pista, trova il punto in cui fare il nido e vi depone le uova. Il suo compagno la osserva per tutto il tempo, e quando se ne va si avvicina alle uova e le ricopre di sperma.”

“Sperma?”

Cleav esitò. “Lo sperma è… be’, è il contributo del maschio per fertilizzare l’uovo.”

“Anche quello è come un uovo?”

“No, è più simile a un fluido che la trota riversa sulle uova.”

La fronte di Esme si aggrottò curiosa. “Come con le persone?” domandò in un cauto sussurro.

“Con le persone?”

“Sì, insomma…” rispose lei arrossendo.

Cleav aprì la bocca dalla sorpresa. Le signore non parlavano mai di certe cose. Quando lo sconvolgimento scomparve, si mise a ridere.

“Sì, Esme,” le disse, “è come con le persone.”

La attirò tra le braccia e la avvolse in un caldo, affettuoso abbraccio. “Adoro essere sposato con te,” le disse. Era il massimo che riusciva a dire per esprimere i suoi nuovi sentimenti.

“Anche io,” disse Esme. “E sono così felice che siamo persone invece che trote!”

“Perché? Non sai nuotare?”

“Io nuoto benissimo, signor Rhy,” rispose lei. “Ma non era a quello che stavo pensando.”

“E a che cosa pensavi?” le domandò. “Mi incuriosisce sempre molto vedere come ragiona la tua mente.”

Esme ridacchiò. “Pensavo che non vorrei che fossimo trote, perché allora non avresti braccia per stringermi.”

Cleav la lasciò all’istante e si diresse verso l’altra estremità della stanza.

“È vero, Esme,” acconsentì, “ma non sarebbe poi così male. A volte uno sguardo è più che abbastanza.”

Per dimostrare che aveva ragione, Cleav fece scivolare lentamente il proprio sguardo lungo il corpo di Esme, le pupille dilatate per il piacere di ciò che vedeva.

“Forse potremmo creare un esperimento scientifico,” proseguì, “per determinare se il senso del tatto è assolutamente necessario per creare intimità tra marito e moglie?”

Senza aspettare il suo consenso, lo sguardo di Cleav divenne un’ardente, delicata carezza sulla sua pelle. Le labbra di lui si dischiusero mentre esaminava la curva della sua mascella e la lunghezza del collo; con lentezza spostò gli occhi sulla prominenza del suo seno, la flessuosità della sua vita, la curva del fianco, e permise al suo cuore di ricordare le gambe lunghe e snelle nascoste sotto le sue gonne.

Esme si sentì fremere sotto il suo sguardo. Costringendosi a tenere il mento alto, raddrizzò le spalle e lo guardò a sua volta. Era così affascinante, così forte, così caldo e meraviglioso, il suo cuore era così pieno e parlava con grandissima sincerità e preoccupazione per ogni cosa. Non fu facile per lei impedirsi di correre tra le sue braccia, ma la sfida negli occhi di Cleav la trattenne.

I capezzoli premevano ansiosamente contro il tessuto che la copriva, ma non era l’unica a subire l’effetto di quegli sguardi.

Esme concesse ai propri occhi di vagare liberamente, e vide Cleav che deglutiva nervosamente. Il suo sguardo scese dal suo volto alle forti spalle ampie che portavano tanti problemi, alle lunghe braccia muscolose che la stringevano con tanta forza, fino alle grosse mani dalle lunghe dita che lui teneva tanto pulite e che la toccavano con tenerezza. Si sentì riempire da un gioioso calore, pensando che era suo, mentre i suoi occhi percorrevano la lunghezza del suo torso virile e si posavano sulla patta dei suoi pantaloni: Cleav era già parzialmente eccitato, ed Esme si concesse un sorrisetto.

“Ho un’obiezione da fare a questo esperimento,” interloquì lei. “Quando i pesci si guardano, non hanno vestiti addosso.”

Un lento sorriso si aprì sul volto di Cleavis, che sollevò le mani per slacciarsi i bottoni della camicia.


L’alba della domenica brillava di primavera mentre i Rhy, i due coniugi ed Eula, la madre di Cleav, si preparavano a partecipare alla messa.

Esme canticchiava felice mentre indossava l’abito che si era confezionata da sola: il tenue colore rosa del tessuto era perfetto per lei ed esaltava il rossore delle sue guance.

Erano sposati da una settimana, ed era meraviglioso. Ripensando alle preoccupazioni e alle angosce che l’avevano tormentata appena la domenica precedente, Esme rise piano. Cleav non l’amava, quello era vero, ma era un uomo tanto giusto e onorevole, tenero e attento, che il matrimonio con lui era senz’altro abbastanza.

Sfiorò con la punta delle dita la splendida stoffa del suo nuovo abito, quasi con timore reverenziale, e sospirò estatica. Era così buono con lei!

“Immagina come tratterebbe una donna se la amasse davvero,” sussurrò a se stessa, e poi guardò con disgusto il proprio riflesso nello specchio.

Rifiutava di desiderare ciò che non sarebbe mai accaduto, ma, come le avevano insegnato anni di privazioni, voleva solo apprezzare ciò che aveva.

“Sei bellissima,” le disse Cleav dalla soglia.

“Ti piace?” domandò lei. “Spero che non ti dispiaccia se ho usato quella stoffa, ma sapevo che non avresti mai potuto venderla, e sai quanto io detesti gli sprechi.”

Cleav si avvicinò per stringere dolcemente il tessuto tra le dita.

“La crêpe de chine rosa,” sussurrò, avvicinandosi di più a lei per chiederle: “Come hai fatto a mandare via la macchia?”

“Non ci sono riuscita del tutto,” ammise Esme con un leggero imbarazzo. “Quindi ho usato quella parte per rivestire lo sprone del vestito.”

Si posò dolcemente una mano all’altezza del cuore, e gli disse: “È qui.”

Cleav rimase immobile per un momento, sconvolto dai sentimenti che si affollavano dentro di lui, poi posò piano il capo lì dove era stata la mano di lei.

“Oh, Esme, io…” Esitò, temendo improvvisamente le proprie parole. “Io non ti merito.”

Le posò un bacio sul petto, e poi un altro, e un altro ancora. Se Eula Rhy non li avesse richiamati dal piano di sotto diversi momenti più tardi, i Rhy si sarebbero completamente dimenticati della messa domenicale.

Cleav passeggiava verso la chiesa in mezzo alle due donne, lottando ancora con le proprie emozioni, quando finalmente la loro leggera conversazione catturò la sua attenzione.

“È un abito molto grazioso, Esme,” disse educatamente la signora Rhy.

“Grazie,” rispose lei. “Non sono una sarta brava come le mie sorelle, ma ho cercato di rendere giustizia alla stoffa.”

“Ed è una stoffa bellissima,” concordò la signora Rhy. “Stavo iniziando a chiedermi se Cleav volesse lasciarvi indossare quella triste serge grigia per sempre.”

La bocca di Esme si spalancò dalla sorpresa, ma lei non disse niente.

“Ben detto, madre,” commentò frettolosamente Cleav. “Sono stato negligente nel provvedere a un guardaroba adatto a mia moglie.” Si voltò a rivolgere un sorriso gentile a Esme. “Perché oggi pomeriggio non andiamo all’emporio e guardiamo le stoffe che abbiamo a disposizione? Sono certo che troveremo diverse cose che potrebbero piacerti.”

“Ma io…” Esme esitò. “Volevo dire… non devi regalarmi dei vestiti nuovi.”

Il suo imbarazzo era palese, ma Cleav rifiutò di lasciar cadere l’argomento. “Sciocchezze, non ti sto regalando i vestiti. Sei mia moglie, e tutto ciò che è mio è tuo. Questa è la legge di Dio e degli uomini.”

Sentendo di aver già avuto tanto, Esme non concepiva l’idea di dover pesare maggiormente sul marito.

“Non ho bisogno di niente, davvero,” insistette lei. “Sono abituata a mettermi vestiti vecchi, non mi dà fastidio.”

“Ma dà fastidio a me!” esclamò sgarbatamente Eula Rhy.

Cleav scoccò a sua madre un’occhiata velenosa. “Devi avere degli abiti nuovi,” disse dolcemente a Esme. “Vuoi che la gente di Vader pensi che non posso provvedere a te?”

“Certo che no,” rispose Esme, “ma tutti sanno…”

“Tutti sanno che sei mia moglie e che la moglie di un gentiluomo indossa gli abiti migliori che lui si possa permettere.”

Era così risoluto che Esme non ebbe altra scelta che accettare, ma le sue parole continuarono a tormentarla, incupendo il buonumore che l’aveva rallegrata per tutta la mattina. La moglie di un gentiluomo. Sua madre aveva detto bene, la notte del loro matrimonio: come avrebbe potuto la povera, semplice Esme Crabb essere all’altezza di una cosa del genere?

Raggiunsero la chiesa in poco tempo. Cleav scortò cavallerescamente entrambe le donne attraverso la folla, fermandosi di tanto in tanto per scambiare due parole con questa o quella persona. Era orgoglioso della bellissima donna vestita di crêpe de chine rosa che aveva accanto; percepiva una forza, un’appartenenza, una completezza che non aveva più provato dall’infanzia.

Nonostante i suoi difetti e le sue manie, quasi grazie a loro, anzi, a Esme importava di Cleavis Rhy, il montanaro piscicoltore e proprietario di un emporio in una cittadina piccola come Vader. Lei non aveva bisogno che lui fosse qualcos’altro.

In quel dolce, prezioso momento di una domenica mattina di primavera, Cleavis Rhy era completamente felice.

Esme, che si sedeva per la prima volta accanto al marito nella panca a sinistra della chiesa, era meno gioiosa. Gli occhi di tutti erano puntati su di loro.

A cose normali Esme si sarebbe resa conto che era normale che una coppia appena sposata nella sua prima uscita pubblica attirasse l’attenzione, ma essendo già preoccupata di dover essere la moglie di ‘un gentiluomo’, Esme lo vide come un giudizio critico.

Sophrona Tewksbury raggiunse a passo studiatamente tranquillo le prime file, e con un sorriso ben fermo in volto si fermò accanto alla panca di Cleav ed Esme. “Buongiorno,” disse, offrendo dolcemente una mano a Cleav, che la prese e si alzò in piedi.

“Buongiorno a voi, miss Sophrona,” rispose. “Siete deliziosa come sempre.”

Esme non sapeva se avrebbe dovuto alzarsi o meno, ma temendo di fare una gaffe di fronte alla congregazione esitò un momento e poi si alzò al fianco di Cleav.

“Siete meravigliosa!” esclamò Sophrona in tono sincero. “Sapevo che quel rosa era perfetto per voi.”

“G-grazie,” balbettò Esme.

Sophrona si sporse in avanti e abbracciò Esme, posandole un bacio fraterno sulla guancia arrossata.

“So che siete occupata a sistemarvi nella vostra nuova casa,” le disse in tono allegro. “Ma quando avete tempo, venite un pomeriggio a prendere una limonata con me.”

“Certo,” rispose Esme a voce un po’ troppo alta.

Con un caldo sorriso Sophrona si diresse al pianoforte, sedendosi aggraziatamente sul seggiolino e iniziando subito a suonare.

“È così gentile,” sussurrò Esme tra sé e sé.

“È una signora,” mormorò Eula Rhy, che le stava accanto. “Faresti bene a imparare da lei.”

Esme sentì un nodo di paura soffocarle la gola. Non avrebbe mai potuto essere come Sophrona Tewksbury, nemmeno in una dozzina di vite.

Spostò lo sguardo su Cleavis, desiderando che potesse stringerla, baciarla, dirle che era bella, ma il matrimonio, ricordò a se stessa, non si fa solo in camera da letto. Doveva imparare a essere sua moglie in ogni modo.

Non sentì nemmeno le parole del predicatore, offuscate com’erano dai suoi pensieri per tutto il tempo della messa. Si voltò solo una volta per guardare suo padre e le sue sorelle entrare in chiesa in ritardo come al solito, ma per il resto del tempo cercò di assumere un’aria attenta. Sedere sulla prima panca in chiesa non permetteva a una persona di distrarsi come faceva invece chi stava seduto nelle ultime.

Finalmente la messa si concluse, ed Esme sperò di potersela svignare in fretta.

“Brilli proprio come una monetina nuova,” esclamò Pearly Beachum abbracciando Esme come una figlia smarrita.

“Grazie,” gracchiò Esme. L’abbraccio da orso dell’anziana donna le aveva quasi mozzato il fiato.

“Vieni a vedere questo vestito, Wilma,” disse la signora Beachum, richiamando un’altra donna.

Mentre le due si prodigavano in ‘oooh’ e ‘aaah’ sul tessuto, Pearly si sporse in avanti per sussurrarle all’orecchio: “Scommetto che quelle sciocchine delle tue sorelle sono verdi d’invidia.”

Esme rimase dapprima stupita, poi si arrabbiò. Quelle vecchie linguacciute pensavano forse che adesso che era sposata con Cleavis Rhy non faceva più parte della famiglia Crabb?

“Scusatemi,” disse con tutta l’altezzosità di cui era capace. “Devo parlare con la mia famiglia. Non li vedo da una settimana.” In fretta, quasi con disperazione, Esme si fece strada tra la gente per raggiungere suo padre.

“’Giorno, Pa’,” disse, posando un bacio sulla guancia non rasata di Yo.

“Guarda un po’ se non è la mia bambina appena sposata,” disse suo padre ridacchiando. “Sei proprio carina stamattina, Esme cara. Immagino che quel vecchio Rhy non abbia ancora iniziato a picchiarti.”

“Non mi picchierebbe mai,” proclamò lei fingendosi offesa. “È un uomo molto gentile e buono.” Arrossì e abbassò nervosamente lo sguardo verso le proprie mani prima di aggiungere: “Sono molto felice, Pa’.”

L’uomo annuì contento. “È bello sentirtelo dire, davvero,” le disse. “Nessuna donna si è mai meritata un ‘e vissero per sempre felici e contenti’ quanto te.”

“Oh, Esme!” Le gemelle la salutarono con stridule risate e mille domande.

“Il tuo vestito è meraviglioso,” dichiarò Adelaide.

“Ne hai degli altri? Quando possiamo venire a vederli?” domandò Agrippina.

Esme si difese come meglio poteva dal loro interrogatorio e si congedò, promettendo presto una lunga visita.

Cleav la stava aspettando.

“Potevi fare con calma,” le disse quando Esme prese il braccio che le stava porgendo. “Mia madre pranza con i Tewksbury, ma ho detto loro che preferiamo stare da soli.”

Il suo sorriso era caldo e accattivante, ma Esme era troppo immersa nelle proprie preoccupazioni per accorgersene.

Camminarono in silenzio per qualche minuto, mentre Esme cercava di fare ordine nel caos nella sua testa.

“Quand’è che la mia famiglia può venire a vivere con noi?” sputò all’improvviso.

“Cosa?”

“Quando si può trasferire la mia famiglia? Siamo sposati già da una settimana, non pensi che abbiamo avuto abbastanza tempo per stare da soli?”

La fronte di Cleav si aggrottò pensierosa. Quando aveva sposato Esme non aveva pensato molto alla sua famiglia. Ci si aspettava davvero che li prendesse a vivere con sé?

“Non so con certezza se la tua famiglia dovrebbe trasferirsi da noi,” iniziò a dire in tono cauto.

Esme si voltò a guardarlo con occhi sgranati. “E perché mai no?” gli domandò.

Cleav tentennò, incerto su cosa risponderle. “Non è consuetudine che la famiglia della sposa vada a vivere con gli sposi.”

“Non mi interessano le consuetudini,” ribatté Esme. “Io penso alla mia famiglia.”

“Non vuoi stare da sola con me? Avevo l’impressione che la nostra intimità ti stesse a cuore.”

“Mi sta a cuore,” insistette lei. “Ma la mia famiglia non renderà le nostre vite più o meno private. Tua madre vive già con noi.”

“Vorresti che gettassi mia madre in mezzo alla strada?”

“Certo che no!” Esme era arrabbiata quanto irremovibile. “Non vorrei che tu gettassi tua madre in mezzo alla strada, e tu non dovresti volere che la mia famiglia vivesse in una caverna!”

Cleav non sapeva come ribattere a quell’obiezione. In tutta la sua vita non aveva mai visto una casa che fosse meno abitabile della caverna di Yohan Crabb.

“Certamente voglio aiutare la tua famiglia,” iniziò a dire Cleav in tono esitante. “Credo però di non averci mai pensato.”

“Non ci avevi pensato?” Esme era irritatissima. “Devi credermi proprio egoista.”

“Egoista?”

“Pensavi che ti volessi sposare e vivere nella tua grande casa solo per me stessa?”

Una gelida lama di paura trafisse Cleavis.

“Sedevo lassù in quella caverna,” proseguì Esme senza notare che l’espressione del marito si stava incupendo sempre di più. “Ho visto quella grande casa con solo te e tua madre, e ho capito che ci sarebbe stato un sacco di posto per tutta la mia famiglia.”

“Ma certo,” rispose Cleav in un sussurro.