I primi raggi di sole iniziavano a spuntare da dietro la cima della montagna. Cleav, impeccabilmente sistemato e pronto a iniziare la giornata lavorativa, fece una piccola deviazione lungo le sponde dei laghetti delle trote alla ricerca di eventuali danni causati dal temporale.
Il ricordo di quei selvaggi momenti di pioggia, vento e lampi era appena sotto la superficie dei suoi pensieri, sottolineato dal motivetto licenzioso che canticchiava tra sé e sé mentre ispezionava i laghetti.
Diversi schermi erano intasati da foglie e detriti, che Cleav rimosse rapidamente così da permettere il naturale scorrimento dell’acqua tra i diversi bacini.
Lo schermo in fondo allo stagno dei piccoli era bloccato da ben più di rami e vegetazione, e quando Cleav si chinò a ripulirlo recuperò un paio di mutandoni da signora di mussola bianca, zuppi di pioggia e portati lì dal vento.
Quella scoperta fece sollevare le labbra di Cleav in un caldo sorriso.
“Ecco dove erano finiti.”
Strizzò attentamente il tessuto, permettendosi di tornare con la mente alla notte precedente. Avevano fatto l’amore con tenerezza e passione come sempre, ma l’eccitazione della terribile tempesta e degli atti illeciti che avevano compiuto aveva reso la nottata ancora più memorabile.
La pioggia era cessata solo verso l’alba, e Cleav si era aggirato sulle sponde dei laghetti alla ricerca dei loro abiti zuppi; poi, ridacchiando come bambini disobbedienti, avevano cercato di coprirsi il più decentemente possibile con i vestiti gelidi e fradici e si erano intrufolati in casa come ladri.
Non si erano preoccupati di dormire, ma si erano scaldati a vicenda, godendosi il lusso delle lenzuola e delle coperte pulite e profumate.
La mancanza di sonno avrebbe dovuto lasciare Cleav esausto, ma la sua camminata vivace suggeriva altrimenti. Portò la scandalosa prova del loro comportamento indecente nella casa di cova, e fu tentato dall’idea di appendere quei mutandoni sul tetto di latta, come un conquistatore con la bandiera sottratta al nemico.
La decenza, però, aveva ancora la sua importanza, e Cleav stese con attenzione quell’innominabile indumento ad asciugare su una cisterna, decidendo in quel momento che non aveva la minima intenzione di restituirlo alla sua legittima sposa: una volta asciutto, l’avrebbe nascosto in uno dei cassetti dell’armadio e conservato come ricordo di quella emozionante notte trascorsa assieme.
Fischiettando, Cleav chiuse la porta della casa di cova e si diresse verso l’emporio. Era in ritardo. Tyree e Denny sarebbero già stati lì a chiedersi dove fosse finito, ma con una scrollata di spalle Cleav si rese conto che la puntualità non aveva più un posto così importante nel suo cuore. C’era troppo amore, adesso, che spingeva fuori tutto ciò che non era necessario.
“’Giorno, signori,” disse appena ebbe girato l’angolo dell’emporio ed ebbe notato i due anziani che aspettavano impazientemente l’apertura.
“Dove diancine vi eravate cacciato?” gli domandò Tyree, chiaramente seccato. “È quasi mezzogiorno, e non abbiamo neanche messo fuori la scacchiera.”
Cleav estrasse tranquillo l’orologio dal taschino e controllò l’ora. “Sono esattamente le sette e venticinque,” disse ai due in tono calmo. “Di sicuro ci sarà tempo per una partita o due prima di pranzo.”
Cinque minuti dopo, Cleav aveva già spazzato e aperto l’emporio, mentre i due anziani borbottoni, che avevano appena iniziato a giocare a dama, si chiedevano cosa potesse essere successo per far tardare il giovane di un’ora e mezzo, quel giorno.
Con assoluta noncuranza, Cleav continuò le proprie faccende con un sorriso in volto e con una melodia allegra sulle labbra.
“Direi che tutto quel predicare della notte scorsa vi ha fatto bene,” suggerì Tyree.
Cleav alzò gli occhi e il suo sorriso si fece più ampio. “Sì,” rispose, “si potrebbe dire che ho vissuto una comunione con il paradiso.”
A metà pomeriggio, Cleav aveva già avuto più clienti di quanto fosse tipico per un giorno lavorativo: con il revival in città, sempre più famiglie scendevano dalle colline per accamparsi nella valle, e la notte di sabato, il ‘ritorno a casa’, ogni anima del Tennessee dell’est che era stata ‘salvata’, si era sposata, battezzata o aveva dei parenti sepolti nella prima chiesa battista del libero arbitrio si sarebbe raccolta in città per partecipare alla funzione.
Cleav aveva fatto le solite offerte speciali per il revival, ma quell’anno non riusciva proprio a concentrarsi sugli affari, visto che nella sua mente esisteva solo la splendida donna che aveva sposato, e riusciva soltanto a pensare a quanto l’amava.
Quando la campanella sopra la porta tintinnò, probabilmente per la quindicesima volta nell’ultima ora, Cleav alzò gli occhi e vide Sophrona.
Stranamente, lei si guardò attorno con espressione colpevole prima di entrare, ma quella rapida occhiata rivolta ai presenti nella stanza parve rassicurarla. Raggiunse in fretta un angolo deserto dell’emporio, e Cleav la osservò esaminare con inusuale entusiasmo l’assortimento di tipi e dimensioni di assi per il bucato.
Confuso, Cleav finì di servire il cliente che aveva davanti e poi attraversò la stanza.
Non aveva quasi più scambiato parola con la sua ex innamorata dal giorno del suo matrimonio; non che sentisse di doverlo fare, visto che la sua rottura con Sophrona era stata netta e ben compresa da entrambe le parti. Sapeva che lei doveva essersi sentita imbarazzata per la sua apparente volubilità, ma chiaramente non si stava struggendo per lui. Cleav si chiedeva, anzi, se le fosse mai davvero importato di lui; avevano ben poco in comune, e ancora meno da dirsi l’un l’altra.
“Buon pomeriggio, miss Sophrona.”
“Oh!” La giovane donna sussultò quando lui la raggiunse, poi si voltò e, riconoscendolo, sospirò di sollievo. “Oh, siete voi, Cleav,” disse a bassa voce. Si ricompose in fretta e riformulò agilmente la frase. “Buongiorno, Mr. Rhy, è un gran piacere vedervi.”
Cleav le rivolse un inchino cortese. Se Sophrona preferiva che si comportassero come due semplici conoscenze, lui era di certo abbastanza cavaliere da permetterle di farlo. “È un bel pomeriggio,” commentò.
“Sì,” assentì Sophrona, citando piamente, “‘Questo è il giorno che ha fatto il Signore.’” Poi, poco convinta, aggiunse: “Insomma, se non piove.”
“Ma certo,” rispose educatamente Cleav, ricordando nel silenzio dei propri pensieri il nuovo apprezzamento che aveva sviluppato verso la pioggia.
Miss Sophrona sembrava a disagio, e Cleav se ne sentì addolorato. Molto probabilmente avrebbero entrambi vissuto a Vader ancora a lungo, e sarebbe stato meglio per tutti se fossero riusciti a dimenticare il loro corteggiamento, o almeno a vederlo col senno di poi come una utile follia.
“Cercavate qualcosa?” le domandò Cleav. Era quasi certo che la giovane avrebbe detto di no, ma in quel momento la campanella sulla porta tornò a suonare.
Sul volto di Sophrona comparve un’espressione ansiosa, quasi spaventata, poi lei si strofinò le mani nervosamente, spostando lo sguardo sul pavimento, sulle pareti, sul soffitto, su Cleav stesso, come se non sapesse chi o cosa guardare.
“Sì, voglio comprare questa!” dichiarò con più decisione del necessario.
In fretta, rivolse la propria attenzione sulla merce esposta sullo scaffale alle sue spalle, e Cleav seguì la direzione del suo sguardo per tornare poi a guardarla in viso, disorientato.
“Volete comprare un’asse da bucato?”
Le guance di Sophrona erano in fiamme, e Cleav notò che stava guardando qualcosa alle sue spalle. Si voltò, e vide soltanto Armon Hightower, assorto nella lettura del giornale vecchio di una settimana che si trovava sulla mensola dall’altra parte dell’emporio e completamente dimentico di loro.
“Sì, voglio un’asse da bucato,” disse Sophrona, richiamando l’attenzione di Cleav. “Quella che abbiamo a casa è quasi del tutto consumata.”
Con espressione ancora più confusa, Cleav rispose: “Non riesco a credere che si sia già consumata, la signora Tewksbury l’ha comprata appena il mese scorso. Le assi da bucato sono fatte per durare una vita intera.” Cleav annuì risoluto e aggiunse: “Dite a vostra madre di riportarla qui in negozio e ve la sostituirò con una nuova.”
Una risatina alle sue spalle fece avvampare ancora di più le guance di Sophrona. Cleav si voltò e guardò Hightower, che stava ancora leggendo ed evidentemente aveva trovato qualcosa di divertente sul giornale.
Quella settimana fu frenetica e impegnatissima, e l’emporio talmente affollato che Cleav dovette richiamare sia sua madre, sia Esme a dargli una mano.
La neuralgia di Eula era molto migliorata, ma anziché essere d’aiuto in negozio, la donna lo divenne sempre di meno: con grande stupore di suo figlio, aveva sviluppato un improvviso interesse verso i fiori, che piantava tutt’attorno alla casa. Cleav l’aveva scoperta lì un pomeriggio, con indosso un consunto abito di cotone sbiadito e un cappello di paglia che doveva essere vecchio quanto Cleav stesso.
“Ma madre,” le aveva detto, “non dovete passare le giornate a strisciare a quattro zampe nel terriccio.”
Lei gli aveva alzato in volto uno sguardo leggermente divertito. “Mi è sempre piaciuto occuparmi del giardino. So che non è una vocazione raffinata come il ricamo o il merletto, ma a dire la verità non sono mai stata brava in nessuna delle due cose.” Con un sospiro aveva aggiunto: “Ho sempre avuto il dono di far crescere le cose, ma se questo ti mette in imbarazzo smetterò di farlo.”
“Mi mette in imbarazzo?” Cleav era sbalordito.
“So che vuoi che io sia una signora e tutto quanto,” aveva ripreso lei. “E davvero, ci ho provato, ma tutte quelle benefiche conversazioni e comportamenti delicati sfiancano il corpo.” La signora Rhy si era asciugata il sudore dalla fronte con una manica. “Sono stata l’aiutante di cui tuo padre aveva bisogno,” gli aveva detto. “Dopo la sua morte, ho cercato di essere anche la compagna di cui avevi bisogno tu. Ho abbandonato il mio modo di vivere per seguire il tuo, perché sapevo che era ciò che ti serviva.” Eula Rhy aveva allungato una mano calzata in un guanto sporco di terra verso il figlio, che non aveva esitato a prenderla.
“Avevi bisogno di me, ma adesso non più. Hai una donna tutta tua al tuo fianco,” aveva ripreso a dire. “Quindi se per te va bene, preferirei riprendere in mano la mia vita da dove l’avevo lasciata.”
“Madre,” le aveva risposto Cleav, sinceramente sconvolto. “Sapete che non vi chiederei mai di abbandonare qualcosa. Voglio solo il meglio per voi, e questo caldo e l’umidità del terreno potrebbero nuocere alla vostra salute.”
Eula aveva scacciato quel commento con un gesto brusco. “Non sono mai stata meglio in vita mia. E poi,” aveva aggiunto, “fratello Yo dice che è un peccato andare contro la mia natura.”
Gli occhi di Cleav si erano sgranati dallo sconvolgimento. “Da quando Yohan Crabb è diventato il vostro consigliere spirituale?”
“La mia consigliera spirituale sono io, giovanotto,” aveva ribattuto sua madre. “Quindi, se vedermi con le mani infilate nella terra di Dio ti fa vergognare, dimmelo e basta.”
Sbalordito, Cleav le aveva risposto in tono contrito: “Ma certo che non mi vergogno, madre. Se vi piace dedicarvi al giardino, è giusto che lo facciate,” aveva concluso in tono sincero.
Dopo aver posato un bacio sulla guancia della madre, si era diretto di nuovo verso l’emporio, chiedendosi se sarebbe stato in grado di dire la stessa cosa appena qualche mese prima. In quelle ultime settimane i demoni che l’avevano tormentato fin dai tempi di Knoxville sembravano essersi smarriti, e per quanto si sforzasse non riusciva a evocare alcuna preoccupazione sulle opinioni di persone che lo conoscevano a malapena.
Con Eula così diversamente occupata, Esme veniva chiamata sempre di più ad aiutarlo nell’emporio. Non sembrava importarle, anzi, sembrava fiorire mentre parlava e scherzava con i clienti, smistava e riponeva la merce o si occupava di una vendita difficile.
Giovedì e venerdì aveva lavorato proprio accanto a Cleav dall’alba al tramonto, addirittura sostituendolo quando lui dovette andare a occuparsi dei pesci.
Cleav temeva che stesse lavorando troppo.
“Tuo padre potrebbe darci una mano, qui in emporio,” le suggerì in tono un po’ brusco.
Esme scosse la testa. “Pa’ è Pa’,” gli disse. “Non abbiamo alcun diritto di aspettarci che sia qualcosa di diverso.”
Cleav guardò sua moglie e ripensò a sua madre.
“La pensi davvero così, vero?”
Esme gli rivolse un’occhiata curiosa. “Non ci sono altri modi in cui pensarla,” gli rispose in tutta onestà. “Le persone sono solo chi sono. L’unica persona che possiamo cambiare siamo noi stessi, e ci vogliono un bel po’ di sudore e di fatica per riuscire a lasciare anche solo un segno.”
Cleav attirò la moglie tra le proprie braccia e abbassò le labbra per assaggiare la dolcezza delle sue.
“Ma guardate un po’!” gridò Denny a Tyree, che strinse gli occhi per vedere meglio la coppia abbracciata.
“Chi sono?” domandò l’altro.
“Gli sposini!” urlò Denny in risposta.
La serata finale del revival, quel sabato, sembrava in tutto e per tutto un vero raduno all’aperto. Mezz’ora prima che iniziassero i canti, ogni posto a sedere sotto la pergola era già stato riempito, e tutt’attorno a essa le famiglie sedevano su coperte distese per terra per ascoltare il sermone del reverendo Wilbur Boatwright.
Eula, che era arrivata in anticipo per salutare i presenti e scambiare qualche pettegolezzo, aveva riservato mezza panca per il resto della famiglia.
Esme e le gemelle si erano appena sedute quando la signora Tewksbury si avvicinò a loro. “Avete visto Sophrona oggi?” domandò.
Esme rimase sorpresa per un momento. “No,” rispose. “Be’, forse,” aggiunse pensosamente. “Potrebbe essere venuta in emporio questa mattina, ma non ne sono sicura. Perché?”
“Oh, nessun motivo in particolare,” disse la moglie del predicatore. “È uscita stamattina presto per fare visita a un’amica malata, ma mi aspettavo che rientrasse in tempo per la funzione.”
“Chi è malato?” domandò Agrippina senza giri di parole. “Non so di nessuno che si è ammalato, ora che il revival è in città.”
“Sono sicura che arriverà tra poco,” rispose la signora Tewksbury, glissando con attenzione sulla domanda mentre tornava al proprio posto.
La curiosità di Esme era stata stuzzicata, ma dopo aver scrutato diverse volte la folla, abbandonò la propria ricerca. Sophrona era probabilmente lì in mezzo, si disse, e aveva semplicemente avuto il buonsenso di visitare un po’ di persone prima che il sermone iniziasse.
Il sermone iniziò, perfettamente puntuale, e a Esme sembrò che durasse un’eternità. Era chiaro, però, fin dall’inizio, che l’evangelista non era al suo meglio.
Come accade a volte, il migliore, più chiaro, più importante sermone del mondo può essere esposto nel momento sbagliato e non avere il minimo effetto, e secondo lei era esattamente ciò che stava succedendo quella sera.
La folla si agitava irrequieta. I neonati strillavano. I bambini piagnucolavano. Diversi ragazzini con i pantaloni al ginocchio vennero richiamati dalla funzione dai loro padri, forse per una visitina alla legnaia.
La gente sull’erba, che avrebbe avuto problemi anche a sentire il migliore dei sermoni, perse rapidamente interesse e iniziò a chiacchierare. Il basso brusio dei continui mormorii crebbe ben presto in un tale schiamazzo da distrarre persino l’‘angolo dell’amen’.
Avendo già visto un predicatore perdere l’attenzione della gente, a cose normali Esme avrebbe provato dispiacere per fratello Wilbur, ma quel robusto ometto paonazzo rifiutava di accettare la sconfitta e continuava a parlare, ancora e ancora. Gridava con tutto il fiato che aveva in gola, riempiendo prima un’ora, poi due, come se stesse punendo la congregazione per la sua disattenzione.
Esme si muoveva scomodamente sulla panca, gettando qualche occhiata alle gemelle, che sedevano con i gomiti puntati sulle ginocchia, annoiate ma col mento retto coraggiosamente dai palmi delle mani.
Spostò lo sguardo su Cleav, che nascose uno sbadiglio trasformandolo in un leggero colpo di tosse. I loro occhi si incontrarono e si dissero in silenzio che una settimana di splendidi sermoni era svanita in un fiasco conclusivo.
Anche se la sera si faceva tarda, la temperatura sembrava invece aumentare. A Esme fu consegnato un ventaglio, un triangolo di carta assicurato a un bastoncino, su cui stava scritto ‘Imprese funebri Moreley, Russellville, Tennessee’ su un lato, e un versetto della Bibbia sull’altro: ‘Tutte le cose che domanderete in preghiera, se avete fede, le otterrete.’ Esme iniziò a domandare che la funzione terminasse, ma non credeva davvero che sarebbe finita, e dunque il sermone continuò.
Come se ne avesse percepito il fastidio, Cleav fece scivolare la mano sul grembo di Esme per stringerle le dita. Lei alzò gli occhi verso di lui, ma Cleav aveva lo sguardo puntato in avanti, con un’espressione di rapita contemplazione.
Dolcemente il polpastrello calloso del pollice iniziò a disegnare pigri cerchi sul palmo di lei. Quel tocco tenero e gentile aveva un effetto strano e sensuale su Esme, che sentì i capezzoli irrigidirsi come se la stanza si fosse improvvisamente gelata, e dovette abbassare lo sguardo per assicurarsi che non ci fossero prove visibili di quella sensazione.
Cercò di ritrarre la mano, ma quella di Cleav la trattenne. Lui la guardò negli occhi, scoccandole un sorriso d’intesa che le fece diventare le guance rosse come bacche.
La stava provocando! Quel pensiero era assolutamente scioccante. Lo stava facendo apposta, proprio in mezzo a un sermone!
Esme non poté nascondere il sorrisetto malizioso che le incurvò le labbra. Lentamente, con discrezione, incrociò le gambe in modo molto poco signorile e iniziò ad accarezzare il polpaccio di Cleav con la punta del suo nuovo stivaletto abbottonato.
Cleav la guardò di nuovo con gli occhi sgranati, sorpreso dal suo tentativo di cambiare le carte in tavola.
Esme rivolse immediatamente la propria attenzione al predicatore, come se pendesse dalle sue labbra, mentre suo marito si agitava a disagio accanto a lei.
Avrebbe dovuto vergognarsi di se stessa, pensò in un lampo di sensi di colpa, ma quel rimprovero venne presto dimenticato.
Perché mai il cielo avrebbe ispirato un sermone tanto noioso all’evangelista se avesse voluto che la gente l’ascoltasse per davvero?
La momentanea distrazione rallegrò un poco la serata dei Rhy, senza però riuscire a cancellare del tutto la lunga ed estenuante serata. Il rumore sempre più forte di un quartetto di russatori che proveniva dall’ ‘angolo dell’amen’ fu l’unico altro diversivo.
Esme vide la signora Tewsksbury che sedeva nella prima fila e continuava a scrutare la folla con sguardo nervoso.
Anche Pearly Beachum sembrava non avere occhi che per il resto della congregazione, ed Esme pensò con una punta di cattiveria che la donna stesse prendendo appunti per i pettegolezzi del giorno dopo.
Eula Rhy, invece, stava esaminando con attenzione la seta del suo secondo miglior abito nero.
La lanterna a sinistra del pulpito crepitava di tanto in tanto, minacciando di far sparire anche quel poco di luce che gettava sull’insistente camminare avanti e indietro di fratello Wilbur.
Si avvicinava mezzanotte quando il predicatore, esausto, sudato e petulante, intonò finalmente l’ultimo inno. Così come sono non era mai sembrato tanto meraviglioso.
Gli anziani nell’‘angolo dell’amen’ si risvegliarono con la tipica tosse secca dei vecchi polmoni. Esme rischiò di mettersi a ridere nel vedere suo padre, con gli occhi appannati dal sonno, scuotere la testa come un cane bagnato nel tentativo di schiarirsi le idee.
La congregazione innalzò le voci nel canto, e il predicatore invitò i peccatori presenti a farsi avanti e ‘riconciliarsi con il Signore’. Esme quasi gemette: quel tipo di invitò poteva durare per ore, se abbastanza persone si sentivano ispirate ad avvicinarsi all’altare, e persino i non peccatori potevano essere spinti a presentarsi per confessare problemi e chiedere preghiere e consigli. Un buon sermone poteva mettere in moto dozzine di piedi penitenti.
Con il messaggio di quella notte, però, persino i più pii tra la folla non si mossero.
L’assemblea, in piedi, stava cantando penosamente la terza strofa:
“Così come sono! Sbattuto qua e là
Da mille conflitti, dalle avversità…”
quando la gente in fondo iniziò ad agitarsi.
Esme si voltò insieme a tutti gli altri. Forse qualcuno voleva farsi avanti? Non riusciva a credere che qualcuno volesse farlo dopo quel sermone, ma pensò che il Signore agisse in modi misteriosi.
Piegando il collo per cercare di vedere oltre le decine di altre persone che facevano altrettanto, notò infine l’istigatore del trambusto: Armon Hightower.
Esme spalancò la bocca dalla sorpresa, e Cleav si lasciò sfuggire uno sbuffo incredulo.
Con Sophrona Tewksbury al proprio fianco, Armon stava percorrendo il corridoio esterno per raggiungere il davanti della pergola, accompagnato dai mormorii della folla.
Il canto si spense lentamente, e Armon, una volta raggiunto fratello Wilbur, gli sussurrò all’orecchio qualcosa che lo lasciò sorpreso come tutti gli altri presenti. Sophrona era rimasta indietro con aria apertamente imbarazzata, ed evitava di guardare verso il punto dove si trovavano i suoi genitori.
Il predicatore rivolse diversi cenni affermativi al giovane durante la loro discussione, poi si allontanò da lui e alzò le braccia. “Fratelli e sorelle,” iniziò a dire, “questo giovanotto si è fatto avanti, questa sera, e desidera parlare a tutti voi.”
Il silenzio sconvolto fu interrotto da un eccitato mormorio di voci che chiedevano ai vicini “Che significa?” “Di che si tratta?” “Il giovane Hightower redento? Incredibile!”
Quando le domande iniziarono ad acquietarsi, Armon rivolse una rapida occhiata a miss Sophrona prima di fare un passo avanti.
Il bell’uomo si schiarì nervosamente la gola. “Molti di voi erano qui lunedì,” disse. “E quelli che non c’erano, be’, immagino abbiate sentito che mia nonna è venuta fin quassù per chiedere a tutti voi di pregare per la salvezza della mia anima.”
Diversi presenti annuirono.
I bei lineamenti di Armon erano sottolineati dal vivace rossore imbarazzato che gli inondava le guance.
“A dire la verità,” ammise, “non ho mai pensato molto alla mia salvezza. Mi è sempre sembrata una cosa contraria alla mia natura.”
Una risatina d’assenso si levò dall’ ‘angolo dell’amen’, ed Esme scoccò a suo padre un’occhiataccia di disapprovazione.
Armon si passò nervosamente le dita tra la fitta ciocca di capelli che gli ricadeva sulla fronte e si costrinse ad affrontare con coraggio la folla radunata.
“Negli ultimi tempi invece ci ho pensato un po’ di più.” I suoi occhi si fermarono sulla donna anziana e curva che sedeva sulla destra della seconda panca. “Nonna,” disse, in tono più basso e affettuoso, “so che hai pregato per me, sempre, per un sacco di anni.” Deglutì visibilmente. “Voglio ringraziarti per questo, e per tutto ciò che ho avuto in questo mondo,” aggiunse. “Mi hai lavato e nutrito per quasi tutta la vita, e non è facile per una vedova, lo sappiamo tutti.”
Si prese il labbro superiore tra i denti e si sfregò le mani, riflettendo su cosa dire.
“Vorrei dirti, nonna, che ho preso una decisione per il Signore,” riprese, “ma sarebbe una bugia.” L’ombra di un sorriso gli tese le labbra al riaffiorare di un ricordo nella sua mente. “Se ricordi, ti ho promesso anni fa, quando mi hai detto che le tue vecchie braccia erano troppo stanche per prendermi ancora a sculacciate, che non ti avrei mai più detto bugie.”
L’anziana donna gli sorrise con amore.
“Non sono ancora stato salvato,” dichiarò Armon in tono sincero.
Uno strano sospiro serpeggiò tra la folla, come se cento persone stessero trattenendo il respiro.
“Ci sto pensando, sul serio,” riprese a dire lui. “E voglio che tu, nonna, e tutti gli altri presenti, mi ricordiate nelle vostre preghiere al Signore. So che avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile.”
Dall’ ‘angolo dell’amen’ si sentì un’altra risatina, e Armon stesso riuscì a indossare un sorriso un po’ tremante.
“Credo che il Signore lo sappia,” proseguì in tono più calmo, “visto che mi ha mandato il migliore aiuto che un uomo possa desiderare.”
Girò la testa e guardò Sophrona.
“Non sono stato salvato,” ripeté alla folla. “Ma ho deciso di cambiare.”
Tese la mano con un caldo sorriso, e la figlia del reverendo Tewksbury lo raggiunse. La prosperosa bellezza era rossa in viso e teneva adorabilmente gli occhi bassi, timida, stringendo forte la mano di Armon come per farsi forza.
“Ho abbandonato i miei modi da rozzo campagnolo,” annunciò. “Niente più alcol, carte o donne, per me. Adesso sono solo un altro burbero uomo sposato.”
Sophrona si illuminò di un ampio sorriso.
“Voglio che siate i primi a incontrare mia moglie, Sophrona Hightower. Ci siamo sposati a Russellville oggi pomeriggio.”
Se i ragazzi con i pantaloni corti nelle ultime file avevano atteso tutta la sera di vedere qualcosa di eccitante, furono esauditi.
Nonna Hightower batté forte le mani e gridò: “Alleluia!”
Le gemelle Crabb gridarono inorridite all’unisono.
E Mabel Tewksbury crollò a terra come morta.