LIBRO TERZO

AMÉDÉE FLEURISSOIRE

I

La contessa de Saint-Prix, sorella minore di Julius, dopo esser stata chiamata bruscamente a Parigi dalla morte del conte Juste- Agénor, aveva appena fatto ritorno nel civettuolo castello di Pezac, a quattro chilometri da Pau, che non abbandonava quasi mai da quando era vedova e meno ancora da quando i suoi figli s’eran sposati e accasati, quando ricevette una visita singolare.

Ritornava da una di quelle passeggiate mattutine che era solita fare in una carrozzella da lei stessa guidata; l’avvisarono che un cappuccino l’attendeva in salotto da un’ora. Lo sconosciuto era raccomandato dal cardinal André, come attestava il biglietto che fu consegnato alla contessa; il biglietto era chiuso in busta; e, sopra il nome del cardinale, si potevan leggere nella delicata e quasi femminile calligrafia di costui, alcune parole:

“Raccomando alla particolare attenzione della contessa Saint- Prix, il reverendo J.P. Salus, canonico di Virmontal”.

Era tutto; e bastava: la contessa riceveva volentieri la gente di Chiesa; e per di più il cardinal André teneva in pugno l’anima della contessa. S’affrettò in salotto e si scusò per essersi fatta attendere.

Il canonico di Virmontal era un bell’uomo; sulla nobile faccia gli splendeva una maschia energia che stonava (se così posso dire) stranamente con l’esitante precauzione dei suoi gesti e della sua voce, come destavano stupore i suoi capelli quasi bianchi messi a confronto con la carnagione giovane e fresca della faccia.

Nonostante l’affabilità della contessa, la conversazione s’avviò male e si trascinava a forza di frasi di circostanza sul recente lutto della signora, la salute del cardinal André, il nuovo scacco di Julius all’Accademia. La voce dell’ecclesiastico si faceva sempre più lenta e sommessa; l’espressione della faccia, sempre più triste; si alzò infine, ma, invece di prender congedo, disse:

«Avrei voluto intrattenerla, da parte del cardinale, signora contessa, su un grave argomento. Ma questa stanza è troppo sonora; il numero delle porte che vi si aprono m’intimorisce; ho paura che qualcuno possa ascoltarci».

La contessa andava pazza per le confidenze e i complotti; fece entrare il canonico in una stanzetta appartata, alla quale si accedeva solo dal salotto, e chiuse la porta.

«Qui siamo al sicuro,» disse. «Parli pure, senza alcun timore.»

Ma, invece di parlare, il canonico che aveva preso posto su uno sgabello davanti alla contessa, tirò fuori di tasca un fazzoletto e cominciò a singhiozzare convulsamente. Perplessa, la signora frugò in una cesta da lavoro posata su un tavolinetto vicino a lei; ne trasse una bottiglietta di sali, esitò a offrirli all’ospite, e infine si risolse a servirsene lei, intanto.

«Chiedo scusa,» disse alla fine l’ecclesiastico, facendo emergere dal fazzoletto una faccia congestionata. «La so troppo buona cattolica, signora contessa, per non comprendermi all’istante e non partecipare alla mia emozione.»

La contessa aveva un vero orrore per le effusioni; si rifugiò dietro un occhialetto. Il canonico si riprese sùbito e, accostando un poco lo sgabello, disse:

«M’è stata necessaria, signora contessa, la solenne assicurazione del cardinale per decidermi a venirle a parlare; sì, l’assicurazione da lui fornitami che la sua fede non è una delle solite fedi mondane, semplici mascheramenti dell’indifferenza…»

«Veniamo ai fatti, reverendo.»

«Il cardinale m’ha dunque assicurato che potevo assolutamente fidarmi della sua discrezione; una discrezione da confessore, se posso così dire…»

«Ma, reverendo, mi scusi, se si tratta d’un segreto di cui è a parte il cardinale, d’un segreto d’una simile gravità, come mai non me n’ha parlato lui stesso?»

Il solo sorriso del canonico avrebbe già potuto far comprendere alla contessa la debolezza della domanda.

«Una lettera! Ma, signora, alla posta, di questi tempi, tutte le lettere del cardinale vengono aperte.»

«Poteva affidarla a lei, la sua lettera.»

«Sì, signora, ma chi sa mai che cosa può diventare un foglio di carta? Siamo così sorvegliati; e c’è di più: il cardinale preferisce ignorare quanto sto per dirle, preferisce non entrar nella faccenda… Ah, signora, all’ultimo momento il coraggio m’abbandona e non so se…»

«Reverendo, lei non mi conosce, e quindi non posso offendermi se la sua fiducia in me non è maggiore,» disse con molta dolcezza la contessa, girando la testa da un’altra parte e lasciando ricadere l’occhialetto. «Io ho il massimo rispetto per i segreti che mi vengono confidati: Dio sa se ne ho mai tradito uno, il più piccolo; tuttavia non m’è mai capitato di sollecitare una confessione…»

Fece un leggero movimento come se volesse alzarsi, il canonico tese le braccia verso lei.

«Mi deve scusare, signora, degnandosi di considerare il fatto che lei è la prima donna, la prima ho detto, che sia stata giudicata degna, da coloro che mi hanno affidato la grave missione di comunicare con lei, degna di ricevere e di conservare questo segreto. E mi spavento, lo confesso, nel considerare quanto questa rivelazione sia pesante, ingombrante per l’intelligenza d’una donna.»

«Ci si fanno molte illusioni sulle scarse capacità d’intelligenza delle donne,» osservò con una certa asprezza la contessa; poi, le mani un poco alzate, nascose la propria curiosità sotto un’aria assente, rassegnata e vagamente estatica, da lei giudicata particolarmente adatta a accogliere un’importante confidenza da parte della Chiesa. Il canonico avvicinò ulteriormente lo sgabello.

Ma il segreto che don Salus si accingeva a confidare alla contessa mi appare ancor oggi troppo sconcertante, troppo bizzarro perché io osi riportarlo qui senza più ampie precauzioni.

C’è il romanzo e c’è la storia. Alcuni critici hanno definito il romanzo la storia che avrebbe potuto essere; la storia, un romanzo che s’è realizzato. Occorre proprio riconoscere, effettivamente, che l’arte del romanziere spesso merita più fede di quanta ne meritino i fatti. Ahimè, certi spiriti scettici negano tutti i fatti fuori dell’ordinario: non è certo per loro che scrivo.

Che il rappresentante di Dio sulla terra abbia potuto essere tolto dal santo Seggio e, per operazione del Quirinale, rubato in qualche modo all’intera cristianità, è un problema troppo spinoso che io non son tanto temerario da sollevare. Ma è storico che, verso la fine del 1893, corse una voce simile; è chiaro che molte anime devote ne furono sconvolte. Qualche giornale ne parlò timorosamente: fu fatto tacere; su quest’argomento apparve un opuscolo a Saint-Malo:1 fu sequestrato. Non solo la massoneria non teneva a che si diffondesse il resoconto d’una simile mistificazione, ma anche il partito cattolico non osava appoggiare e non si rassegnava a coprire le collette straordinarie che vennero immediatamente intraprese a questo proposito. E indubbiamente un gran numero d’anime pie si dissanguarono (si reputa che le somme raccolte o disperse in quell’occasione si aggirassero sul mezzo milione di franchi), ma c’è veramente da dubitare che tutti coloro che raccolsero i fondi fossero veri devoti, c’è da temere che si dessero da fare anche gl’imbroglioni. Per condurre a buon termine quella questua, a dispetto d’ogni fede, occorrevano pur sempre un’audacia, un’abilità, un tatto, un’eloquenza, una conoscenza della gente e dei fatti, un vigore, che potevano vantarsi di possedere solo alcune facce di bronzo, come appunto Protos, il vecchio compagno di scuola di Lafcadio. Avverto sùbito onestamente il lettore: è proprio Protos colui che si presenta ora sotto le spoglie e il nome preso a prestito di canonico di Virmontal.

La contessa, decisa a non aprir più bocca, a non cambiar più atteggiamento e neppure espressione prima di conoscere completamente quel segreto, ascoltava imperturbabile il falso prete che a poco a poco si andava rinfrancando. S’era alzato e camminava su e giù a gran passi; per preparar meglio l’interlocutrice, ricapitolava la faccenda, se non proprio dagli inizi (il conflitto tra la Loggia e la Chiesa, non era sempre esistito nella sua essenzialità?), almeno risaliva a certi fatti in cui la flagrante ostilità s’era dichiarata. Aveva dapprima invitato la contessa a ricordarsi di due lettere, indirizzate dal papa, nel dicembre ’92, una al popolo italiano, l’altra più particolarmente ai vescovi, lettere che mettevano in guardia i cattolici contro le future mosse dei massoni; poi, dato che la memoria faceva difetto alla contessa, aveva dovuto risalire molto più addietro, rievocare l’erezione della statua di Giordano Bruno, decisa, presieduta da Crispi dietro il quale allora s’era nascosta la Loggia. Aveva dipinto Crispi come impazzito per il furore che il papa avesse respinto le sue proposte, avesse rifiutato di trattare con lui (e per trattare, non occorreva forse intendere: sottomettersi?). Aveva ricostruito quella giornata tragica: i due partiti prendevano posizione; i massoni s’eran tolti la maschera, e – mentre il corpo diplomatico accreditato presso il santo Seggio si recava in Vaticano, manifestando con un simile atto, contemporaneamente al disprezzo per Crispi, la venerazione per il nostro Santo Padre ulcerato – la Loggia, a insegne spiegate, sulla Piazza Campo dei Fiori ove sorgeva il provocante idolo, aveva acclamato l’illustre bestemmiatore.

«Al concistoro che seguì quasi sùbito, il 30 giugno 1889,» continuò (sempre in piedi, s’appoggiava ora al tavolino, le braccia avanti, chino verso la contessa), «Leone XIII fece risuonare alta la propria veemente indignazione. La sua protesta fu intesa dal mondo intiero; e tutta la cristianità tremò aspettandosi ch’egli parlasse d’abbandonare Roma! Abbandonare Roma, ho detto!…Tutto ciò, signora contessa, lei lo sa già, ne ha sofferto e se ne ricorda come me.»

Riprese a andare su e giù.

«Alla fine Crispi fu privato del potere. La Chiesa poteva respirare ora? Nel dicembre del 1892 il papa scriveva, dunque, quelle due lettere. Signora…»

Sedette di nuovo, accostò bruscamente lo sgabello al divano e, afferrando un braccio della contessa, disse:

«Un mese dopo il papa veniva messo in prigione».

Poiché la contessa s’ostinava a restarsene tranquilla, il canonico le lasciò il braccio e continuò con voce meno agitata:

«Non cercherò d’impietosirla, signora, sulle sofferenze d’un prigioniero; il cuore delle donne è sempre pronto a commuoversi davanti allo spettacolo delle sciagure. Io mi rivolgo alla sua intelligenza, contessa, e la invito a considerare il caos in cui la scomparsa del nostro capo spirituale ha piombato noi cristiani».

Una leggera piega s’incise sulla fronte pallida della contessa.

«Non aver più un papa, è terribile, signora. Ma c’è ben di peggio: avere un falso papa è ancora più orrendo. Poiché, per nascondere il proprio delitto – che dico? – per spingere la Chiesa a dissolversi, a annullarsi da sola, la Loggia ha installato sul trono pontificio, al posto di Leone XIII, non so quale scagnozzo del Quirinale, un manichino a immagine della santa vittima, un impostore, al quale, per timore di nuocere al vero, dobbiamo pur fingere di sottometterci, davanti al quale infine, oh! vergogna delle vergogne, durante il giubileo s’è inchinata tutta la cristianità.»

A queste parole il fazzoletto che torceva tra le mani si lacerò.

«Il primo atto del falso papa consisté in quell’enciclica troppo famosa, l’enciclica alla Francia, per cui il cuore d’ogni francese degno di questo nome sanguina ancora. Sì, sì, so perfettamente, signora, quanto il suo magnanimo cuore di contessa abbia sofferto nel sentire la Santa Chiesa rinnegare la santa causa della monarchia; il Vaticano, proprio il Vaticano dico, applaudire la repubblica. Via, si rassicuri, signora! Ella aveva ogni diritto di stupirsi. Si rassicuri, signora contessa, ma pensi a quello che il Santo Padre prigioniero ha sofferto, nel sentirsi proclamare repubblicano da uno scagnozzo impostore!»

Poi si buttò indietro e rideva e piangeva.

«E che ha mai pensato lei, contessa de Saint-Prix, che ha mai pensato lei, a quell’udienza accordata dal Santo Padre, come corollario a questa enciclica crudele, al redattore del Petit Journal? Del Petit Journal, signora contessa, ah! Il colmo dei colmi! Leone XIII al Petit Journal! Capisce perfettamente che è impossibile: il suo magnanimo cuore le ha già detto che è tutta una falsità!»

«Ma,» esclamò la contessa, non potendo più trattenersi, «bisogna gridarlo al mondo intero.»

«No, signora: bisogna anzi tacerlo!» tuonò il canonico, maestoso; «proprio questo, bisogna tacere per ora; dobbiamo tacere se vogliamo agire.»

Poi, scusandosi, con voce di colpo velata dal dolore:

«Lo può constatare, le sto parlando come a un uomo».

«Ha ragione, reverendo: agire, dice bene. E presto, presto: che ha deciso lei?»

«Ah, sapevo bene che avrei trovato in lei questa nobile impazienza virile, del tutto degna del sangue dei Baraglioul. Ma nulla è più temibile, in queste circostanze, d’uno zelo intempestivo! Se alcuni eletti son stati ragguagliati circa tali abominevoli macchinazioni, è indispensabile, signora, contare sulla loro assoluta discrezione, sulla loro piena e totale obbedienza agli ordini che verranno emanati a tempo e luogo. Agire senza di noi, vuol dire agire contro di noi. E, oltre alla disapprovazione ecclesiastica a cui, chi agisse andrebbe incontro… ma che dico? la scomunica, ogni iniziativa individuale urterebbe contro smentite categoriche e formali del nostro stesso partito. Si tratta, signora, d’una crociata; sì, d’una crociata clandestina. Mi scusi se insisto su questo punto, ma sono stato incaricato in modo particolare di renderla edotta, proprio dal cardinale, che vuole ignorar tutto di questa storia e che apparirà neppure comprenderne l’argomento, se gliene si parlerà. Il cardinale vuole non avermi neppure visto; e ugualmente, più tardi, se gli avvenimenti ci rimetteranno in contatto, è inteso che lei e io, noi, non ci siamo mai parlati. Il nostro Santo Padre saprà ben riconoscere, lui, i suoi veri servitori.»

Un poco delusa, la contessa chiese timidamente:

«Ma allora?»

«Si agisce, signora contessa, si agisce, non abbia timore. E io son pure autorizzato a rivelarle una parte del nostro piano di battaglia.»

S’impettì sul sedile, proprio davanti alla contessa; e quella, intanto, s’era portata le mani alla faccia, e rimaneva così, il busto piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia, il mento tra le palme.

Cominciò a raccontare che il papa non si trovava chiuso in Vaticano, ma con ogni verosimiglianza a Castel Sant’Angelo, che, come certo la contessa sapeva, comunicava col Vaticano attraverso un corridoio sotterraneo; che non sarebbe stato indubbiamente molto difficoltoso trarlo da quella prigione, se non ci fosse stata di mezzo la paura quasi superstiziosa che ogni servitore, benché di sentimenti cristiani, nutriva per la massoneria. E proprio su questo contava la Loggia: l’esempio del Santo Padre sequestrato manteneva le anime nel terrore; nessuno dei servitori acconsentiva a prestare il proprio aiuto se non al patto d’esser messo nelle condizioni d’andarsene a vivere lontano, al riparo dai persecutori. A quest’uso erano state dedicate somme rilevanti da gente di devozione e discrezione a tutta prova: restava da rimuovere un solo ostacolo, un ostacolo che, però, costava più di tutti gli altri messi insieme, poiché quest’ostacolo era costituito da un principe, capo carceriere di Leone XIII.

«Si ricorda, signora contessa, di qual mistero rimase avvolta la duplice morte dell’arciduca Rodolfo, principe ereditario dell’Austria-Ungheria, e della sua giovane moglie, trovata rantolante al suo fianco, Maria Vetsera, nipote della principessa Grazioli, che aveva appena sposato?… Suicidio, fu detto! La pistola era là solo per ingannare l’opinione pubblica: in verità tutt’e due erano stati avvelenati. Perdutamente innamorato – ecco! – di Maria Vetsera, un cugino del granduca suo marito, granduca lui stesso, non aveva tollerato di vederla appartenere a un altro… Dopo un tale abominevole delitto Giovanni Salvatore di Lorena, figlio della granduchessa di Toscana Maria Antonietta, abbandonò la corte del parente, l’imperatore Francesco Giuseppe. Sapendosi scoperto, a Vienna, andò a denunciarsi al papa, a implorarlo, a commuoverlo. Ottenne il perdono; ma, sotto il pretesto d’una penitenza, Monaco – il cardinale Monaco-la-Valette – lo rinchiuse in Castel Sant’Angelo in cui langue da tre anni.»

Il canonico aveva snocciolato tutto questo con una voce piuttosto monotona; si concesse una pausa, poi, dopo aver battuto un piede a terra, disse:

«Costui è stato nominato da Monaco capo carceriere di Leone XIII».

«Come, il cardinale!» gridò la contessa; «un cardinale può dunque essere massone?»

«Ahimè!» disse il canonico, pensieroso, «la Loggia ha contaminato molto la Chiesa. Pensi, signora contessa, che se la Chiesa avesse saputo difenderai meglio da sola, nulla di tutto ciò sarebbe mai accaduto. La Loggia ha potuto impadronirsi della persona del nostro Santo Padre solo con la connivenza di qualche complice molto altolocato.»

«Ma è orrendo!»

«Che posso dirle di più, signora contessa? Giovanni Salvatore credeva d’essere prigioniero della Chiesa e invece lo era dei massoni. È disposto a adoperarsi per la liberazione del nostro Santo Padre solo se si permetterà di scappare anche a lui; e lui può scappare solo molto lontano, in qualche paese da cui non sia possibile l’estradizione. Vuole duecentomila franchi.»

A tali parole Valentine de Saint-Prix, che da qualche istante arretrava e aveva lasciato cadere le braccia, gettando la testa all’indietro, emise un debole gemito e perse la conoscenza. Il canonico balzò avanti.

«Si rassicuri, signora contessa,» disse, picchiandole le palme delle mani. «Non deve prendersela così!» e le poneva sotto il naso la bottiglietta dei sali. «Di questi duecentomila franchi, ne abbiamo già centoquarantamila,» e poiché la contessa apriva un occhio: «La duchessa de Lectoure ne ha versati cinquanta; ne occorrono ancora sessantamila.»

«Lei li avrà,» mormorò quasi impercettibilmente la contessa.

«Contessa, la Chiesa non ha mai dubitato di lei.»

Si alzò, molto serio, quasi solenne, si concesse una pausa, poi disse:

«Contessa de Saint-Prix, ho la più assoluta fiducia nella sua generosa parola; ma pensi alle difficoltà senza nome che accompagneranno, impacceranno, impediranno forse la consegna di questa somma; somma, ho detto, che lei per prima dovrà dimenticare di avermi rimesso, che io stesso devo essere pronto a negare d’aver preso; somma, per la quale non potrò certo mai rilasciarle una ricevuta… Per prudenza, posso riceverla solo da mano a mano, dalla sua mano alla mia: siamo sorvegliati: la mia presenza al castello può sollevare commenti. Possiamo mai esser sicuri dei nostri servitori? Pensi all’elezione del conte de Baraglioul! È necessario che io non rimetta più piede qui!»

E, siccome dopo tali parole restava lì, piantato sul pavimento, senza muoversi né aprir bocca, la contessa finalmente capì.

«Ma, reverendo, si renderà conto che non posso avere in casa una somma simile. E anche…»

Il canonico era un poco impaziente, ora; ed essa non osò aggiungere che le sarebbe occorso un poco di tempo certo per mettere insieme la somma (che in ogni modo sperava di non dover sborsare da sola, tutta lei). La contessa mormorò:

«Come fare?…»

E poi, dato che le sopracciglia del canonico diventavano sempre più minacciose:

«Di sopra ho pure qualche gioiello…»

«Oh, via, signora, i gioielli sono ricordi. Mi vede a fare il mestiere di venditore ambulante? E pensa che voglia destar sospetti, cercando d’ottenere il prezzo più alto possibile? Rischierei di compromettere allo stesso tempo lei e la nostra impresa.»

La sua voce grave, quasi insensibilmente andava diventando aspra e violenta; quella della contessa tremava leggermente.

«Aspetti un attimo, signor canonico: vado vedere quant’ho in casa.»

… Tornò poco dopo. La sua mano contratta gualciva alcune banconote azzurre.

«Per fortuna, ho appena incassato un poco di denaro dai fattori. Posso cominciare a consegnarle seimilacinquecento franchi.»

Il canonico alzò le spalle.

«Che vuole che me ne faccia?»

E tristemente sprezzante, allontanando da sé con nobile gesto la contessa:

«No, signora, no; io non prenderò queste banconote. Le prenderò solo con le altre. Le persone integre esigono l’integrità. Quando potrà consegnarmi l’intera somma?»

«Quanto tempo può lasciarmi? Otto giorni?…» chiese la contessa che pensava sempre a fare una colletta.

«Contessa de Saint-Prix, la Chiesa si sarebbe per caso sbagliata? Otto giorni! Le dico solo queste poche parole: il papa aspetta.» Poi, alzando le braccia al cielo: «Come! Lei ha l’inarrivabile onore di avere nelle sue mani la liberazione del Santo Padre, e indugia! E non teme, signora, non teme che Iddio, il giorno della di lei liberazione, faccia ugualmente aspettare e languire la di lei anima troppo debole sulla soglia del paradiso?»

Diventava minaccioso, terribile: poi, d’improvviso, si portò alle labbra il crocifisso d’un rosario e s’assentò in una rapida preghiera.

«Ma il tempo di scrivere a Parigi?» gemette la contessa, smarrita.

«Telegrafi! Dia ordine al suo banchiere di versare sessantamila franchi al Credito Fondiario di Parigi, che telegraferà al Credito Fondiario di Pau di versarle subito la somma. È puerile, addirittura.»

«Ho un po’ di denaro in deposito a Pau,» azzardò essa.

«Presso una banca?»

«Proprio al Credito Fondiario.»

Allora il canonico s’indignò veramente.

«Ah, signora, perché tante perifrasi prima di farmelo sapere? È tutta qui la sua sollecitudine? Che direbbe, ora, se respingessi la sua offerta?» Poi, camminando attraverso la stanza, le mani incrociate dietro la schiena, come irritato ormai contro tutto quello che avrebbe potuto ancora ascoltare: «C’è qualcosa di peggio della tiepidezza,» e con la lingua produceva piccoli schiocchi adatti a manifestare il suo disgusto, «nel suo comportamento, e quasi della doppiezza».

«Reverendo, la supplico…»

Per qualche istante il canonico continuò a camminare, le sopracciglia basse, inflessibile. Alla fine disse:

«Lei conosce, lo so, don Boudin, col quale pranzerò questa mattina stessa,» e tirò fuori di tasca l’orologio, «… e che sto già facendo aspettare. Stacchi un assegno a suo nome: incasserà per me i sessantamila franchi, che potrà immediatamente consegnarmi. Quando lo rivedrà, gli dica semplicemente che era per la “cappella espiatoria”; è un uomo discreto, che sa vivere e non insisterà. Ebbene, che aspetta ancora?»

La contessa, prostrata sul divano, si tirò su, si trascinò sino a una piccola scrivania che aprì, ne trasse un libretto d’assegni e riempì uno di quei foglietti con la sua scrittura inclinata.

«Mi scusi se poco fa sono stato brusco con lei, signora contessa,» disse il canonico con voce raddolcita, mentre prendeva l’assegno ch’ella gli tendeva. «Ma sono in giuoco tali interessi!»

Poi, facendo scivolare l’assegno in una tasca:

«Sarebbe empio se la ringraziassi, vero? Foss’anche in nome di Colui, nelle mani del quale sono soltanto un indegno strumento».

Ebbe un breve singhiozzo che soffocò nel fazzoletto; ma, riprendendosi sùbito, in una specie di cocciuta impennata, mormorò rapidamente una frase in una lingua straniera.

«Lei è italiano?» chiese la contessa.

«Spagnuolo! La sincerità dei miei sentimenti lo tradisce.»

«Non il suo accento. In verità, lei parla il francese con una tale purezza…»

«Troppo gentile, signora contessa, e ora mi scusi se la lascio così su due piedi. Grazie al nostro piccolo accordo, posso partire per Narbona questa sera stessa; l’arcivescovo di là mi aspetta con grande impazienza. Addio!»

Aveva preso le mani della contessa tra le sue e la fissava, il busto gettato indietro.

«Addio, contessa de Saint-Prix,» disse e poi si mise un dito sulle labbra. «E si ricordi che una sua sola parola può mandare all’aria tutto.»

Era appena uscito e già la contessa correva a tirare il cordone del campanello.

«Amélie, dite a Pierre che tenga pronto il calesse sùbito dopo pranzo, per andare in città. Ah, un attimo ancora…Germain monti all’istante in bicicletta e porti immediatamente alla signora Fleurissoire il biglietto che ora vi darò.»

E, china sulla scrivania, scrisse:

“Cara signora,

“Passerò tra poco da lei. Mi aspetti per le due. Ho qualcosa di molto grave da dirle. Faccia in modo che si sia sole”.

Firmò, chiuse la busta, poi tese il messaggio ad Amélie.

II

La signora Fleurissoire, nata Péterat, sorella minore di Véronique Armand-Dubois e di Marguerite de Baraglioul, rispondeva al nome barocco d’Arnica. Philibert Péterat, botanico piuttosto conosciuto, sotto il secondo Impero, per le sue infelicità coniugali, sin dalla giovinezza s’era ripromesso di attribuire nomi di fiori ai figli che avrebbe avuto. Alcuni suoi amici trovarono abbastanza singolare che battezzasse la prima figlia Véronique; ma, quando, al nome di Marguerite, qualcuno insinuò che lui stava ritrattandosi, cedeva all’opinione pubblica, cercava scampo nel comune, impennandosi bruscamente decise di gratificare la sua terza figlia d’un nome tanto deliberatamente botanico da tappar la bocca a tutti i maligni.

Poco dopo la nascita d’Arnica, Philibert, il cui carattere era inacidito, si separò dalla moglie, lasciò la capitale e andò a stabilirsi a Pau. La moglie invece s’attardava a Parigi l’inverno, ma, appena arrivavan le prime belle giornate, se ne tornava a Tarbes, suo paese natale, dove riceveva le due figlie maggiori in una vecchia casa di famiglia.

Véronique e Marguerite spartivano equamente l’annata fra Tarbes e Pau. Quanto alla piccola Arnica, considerata assai poco sia dalle sorelle che dalla madre, sciocchina, è vero, e più commovente che carina, rimaneva estate e inverno presso il padre.

La più grande gioia per la bimba era andar a cercare erbe col padre in campagna; ma spesso il maniaco, cedendo al malumore, la piantava a casa, se ne partiva tutto solo per un’interminabile gita, rientrava, sfinito, e, sùbito dopo mangiato, si ficcava a letto senza concedere alla figlia l’elemosina d’un sorriso o d’una parola. Suonava il flauto nei momenti di poesia, ricompitandosi insaziabilmente le stesse arie. Passava il resto del tempo a disegnare minuziose immagini dei suoi fiori.

Una vecchia serva, soprannominata Réséda, che s’occupava della cucina e dell’andamento della casa, tirò su la bimba; le insegnò il poco che sapeva, e con un tal regime Arnica a dieci anni era appena in grado di leggere. Finalmente Philibert ebbe un poco di rispetto umano: Arnica andò a scuola dalla vedova Semène che ammanniva qualche rudimento a una dozzina di bimbette e ad alcuni ragazzetti.

Arnica Péterat, così fiduciosa e indifesa, non aveva mai immaginato sino allora che il suo nome potesse suscitare il riso. Il primo giorno di scuola ebbe la brusca rivelazione del proprio ridicolo; il fiotto dei motteggi la fece piegare come un’alga molle; arrossì, impallidì, pianse; e la signora Semène, punendo l’intera classe per cattiva condotta, fu tanto malaccorta da caricare immediatamente d’animosità un’allegria priva, all’inizio, di qualsiasi malevolenza.

Lunga, lunga, anemica, inebetita, Arnica restò con le braccia penzoloni al centro della piccola classe e, quando la Semène le disse: «Il suo posto è al terzo banco a sinistra, signorina Péterat!» la gazzarra esplose di nuovo a dispetto di ogni ammonizione.

Povera Arnica, la vita già appariva davanti a lei come una squallida strada fiancheggiata da schemi e insulti. La signora Semène, per fortuna, non rimase insensibile alla sua disperazione, e presto la piccola trovò un rifugio in seno alla vedova.

Volentieri Arnica restava a scuola dopo le lezioni piuttosto di tornare a casa, ove, magari, non avrebbe neppure trovato il padre; la Semène aveva una figlia, di sette anni maggiore d’Arnica, un poco gobba ma gentile; nella speranza di trovarle un marito, la Semène riceveva ogni domenica sera, e due volte all’anno organizzava anche certe festicciole domenicali, con recite e balli; vi partecipavano, per riconoscenza, alcuni dei vecchi allievi, accompagnati dai genitori e, per mancanza di migliori occupazioni, alcuni adolescenti squattrinati e senza avvenire. Arnica fu sempre presente a quelle riunioni; fiore senza splendore, discreto sino al punto di scomparire, eppure destinato a non restare inosservato.

Quando, a quattordici anni, Arnica perse il padre, la signora Semène raccolse l’orfanella, che le sorelle discretamente più anziane, si recavano a trovare solo molto di rado. Eppure fu proprio durante una di quelle brevi visite che Marguerite s’imbatté in colui che due anni più tardi doveva diventare suo marito: Julius de Baraglioul – allora ventottenne – in villeggiatura presso il nonno Robert de Baraglioul che, come abbiam già detto, s’era andato a stabilire nei dintorni di Pau, poco dopo l’annessione del ducato di Parma alla Francia.

Il brillante matrimonio di Marguerite (le signorine Péterat non erano però prive di qualche soldo) rese la sorella anche più distante agli occhi timidi d’Arnica: ella sentiva che mai, chinandosi su lei, un conte, un Julius, avrebbe respirato il suo profumo. E invidiava la sorella per aver potuto evadere da quel nome così sgradevole: Péterat. Il nome Marguerite era delizioso: come suonava bene vicino a de Baraglioul! Ahimè, quale cognome avrebbe mai potuto far sì che pure quello d’Arnica non risultasse ridicolo?

Respinta dalla realtà, la sua anima non ancora sbocciata e già avvizzita, ripiegava sulla poesia. A sedici anni portava, ai lati della pallida faccia, riccioli malinconici, e quegli occhi azzurri e sognanti stupivano accanto ai capelli neri. La sua voce senza timbro era sommessa; leggeva versi e s’industriava a scriverne: considerava poetico tutto quanto avesse il potere d’allontanarla dalla vita.

Tra i frequentatori delle serate della Semène erano due giovanotti, legati già dall’infanzia da una tenera amicizia; l’uno, dinoccolato senza essere alto, non tanto magro quanto slombato, dai capelli più scoloriti che biondi, un naso fiero e due occhi timidi: era Amédée Fleurissoire. L’altro, grasso e tozzo, con duri capelli neri che quasi gli coprivano tutta la fronte, portava, per una curiosa abitudine, le testa costantemente inclinata sulla spalla sinistra, la bocca aperta e la mano destra tesa avanti: così ho dipinto Gaston Blafaphas. Il padre d’Amédée commerciava marmi, forniva monumenti funebri e corone mortuarie; Gaston era figlio d’un importante farmacista.

(Per quanto possa apparire strano, questo cognome, Blafaphas, è piuttosto diffuso nei villaggi dei contrafforti pirenaici; anche se a volte vien scritto in modi piuttosto diversi. Così solo nel villaggio di Sta… ove lo chiamava un esame, l’autore di queste righe s’è potuto imbattere in un Blaphaphas notaio, in un Balfafaz parrucchiere, in un Blaphaface salumaio, che, interrogati, non ammettevano alcuna origine comune, mentre ciascuno considerava con un certo disprezzo il cognome degli altri dalla grafia tanto inelegante. Ma queste annotazioni filologiche possono interessare solo un numero assai ristretto di lettori.)

Che sarebbero stati, l’uno senza l’altro, Fleurissoire e Blafaphas? Difficile immaginarlo. Durante le ricreazioni, a scuola, li si vedeva sempre insieme; presi costantemente in giro, si consolavano, si prestavano pazienza e conforto a vicenda. Venivano chiamati i “Blafafoires”. A tutt’e due quell’amicizia pareva l’arca di salvezza, l’oasi nello spietato deserto della vita; e l’uno non poteva assaporare una gioia se non la spartiva immediatamente con l’altro; o per meglio dire non poteva esistere gioia per l’uno se non in compagnia dell’altro.

Scolari mediocri, nonostante la commovente applicazione, e fondamentalmente refrattari a ogni specie di cultura, i Blafafoires sarebbero rimasti sempre gli ultimi della classe, senza l’aiuto di Eudoxe Lévichon, che, dietro piccole ricompense, correggeva e faceva addirittura loro i compiti. Questo Lévichon era il figlio minore d’uno dei principali gioiellieri della città (vent’anni prima, poco dopo il matrimonio con la figlia unica del gioielliere Cohen – nel momento in cui, in séguito alla prosperità degli affari, abbandonava i quartieri bassi della città per una via centrale – il gioielliere Albert Levy aveva stimato opportuno riunire e agglutinare i due cognomi, come aveva unito due case).

Blafaphas era solido, Fleurissoire, invece, di costituzione delicata. All’incombere della pubertà, la fisionomia di Gaston si coprì tutta d’ombra: si sarebbe detto che la linfa dovesse rendere peloso l’intero suo corpo; nello stesso tempo l’epidermide più delicata d’Amédée s’irritava, s’infiammava, si riempiva di foruncoli come se i peli facessero forza sotto, per uscire. Blafaphas padre consigliò qualche depurativo, e ogni lunedì Gaston portava in cartella una bottiglietta di sciroppo antiscorbutico che faceva scivolare poi in tasca all’amico. Si servivano anche di pomate.

Verso quel tempo Amédée si buscò il primo raffreddore; raffreddore che, nonostante l’ameno clima di Pau, non passò durante tutto l’inverno e lasciò dietro di sé una fastidiosa delicatezza bronchiale. Gaston colse questa nuova occasione per dimostrarsi premuroso; rifornì l’amico di liquirizia, di pasta di giuggiole e di lichene e di pastiglie per il petto a base d’estratto d’eucalipto che Blafaphas padre confezionava personalmente sulla ricetta d’un vecchio prete. Amédée, così facile a prendere il catarro, dovette rassegnarsi a non uscir mai senza sciarpa.

Amédée nutriva solo un’ambizione: succedere al padre. Gaston, invece, nonostante l’aspetto indolente, non mancava d’iniziative; già al liceo escogitava piccole invenzioni, per dir la verità abbastanza spassose: una trappola per le mosche, un pesapalline, un catenaccio di sicurezza per il suo banco, che, poi, non conteneva più segreti di quanti ne contenesse il suo cuore. Per quanto innocenti fossero le prime applicazioni della sua industriosità, dovevano pur sempre condurlo a ricerche più serie, che l’occuparono in séguito: il primo risultato fu l’invenzione di quella “pipa fumivora igienica, per fumatori delicati di petto e altri”, che restò a lungo esposta nella vetrina del farmacista.

Amédée Fleurissoire e Gaston Blafaphas s’innamorarono insieme di Arnica; era fatale. Cosa ammirabile, questa nascente passione, che immediatamente si confessarono l’un l’altro, lungi dal dividerli, rafforzò vieppiù la loro unione. E certo Arnica non dette dapprima all’uno o all’altro grandi motivi di gelosia. Nessuno dei due, del resto, s’era dichiarato; e mai e poi mai Arnica avrebbe potuto supporre il divampare d’un tal fuoco, nonostante il tremito delle loro voci quando, a quelle festicciuole della domenica sera in casa Semène, a cui non mancavano, ella offriva ai due lo sciroppo, l’estratto di verbena o la camomilla. E tutt’e due, ritornandosene a casa la sera, magnificavano poi la modestia e la grazia di lei, si preoccupavano per il suo pallore, s’incoraggiavano reciprocamente…

Decisero di fare insieme la dichiarazione la stessa sera, poi di lasciarla scegliere. Arnica, nuova, nuovissima all’amore, ringraziò il cielo nella sorpresa e nella semplicità del proprio cuore. Pregò i due spasimanti di lasciarle il tempo di riflettere.

A dir la verità non sentiva di propendere per l’uno o per l’altro, e s’interessava a loro, solo perché loro s’interessavano a lei, proprio quando lei aveva abbandonato ogni speranza d’interessare qualcuno. Per sei settimane, sempre più perplessa, s’inebriò agli omaggi dei pretendenti paralleli. E, mentre nelle loro passeggiate notturne, calcolando reciprocamente i propri progressi, i Blafafoires si raccontavano a lungo, senza perifrasi, le minime parole, gli sguardi, i sorrisi di cui lei li aveva gratificati, Arnica, chiusa in camera, scriveva su certi pezzetti di carta che poi bruciava accuratamente alla fiamma della candela, e ripeteva incessantemente e alternamente: “Arnica Blafaphas? … Arnica Fleurissoire?”, incapace di decidere davanti all’atrocità di quelle due combinazioni.

Poi, d’improvviso, durante una festa, aveva deciso per Fleurissoire; Amédée non l’aveva appena chiamata “Arnica”, accentuando la penultima sillaba del suo nome in un modo che le era parso italiano? (La cosa accadde, d’altra parte, non deliberatamente, con ogni probabilità Amédée si lasciò influenzare dal pianoforte su cui la signorina Semène ritmava l’atmosfera in quel momento), e quel nome d’Arnica, il suo proprio nome, le era parso immediatamente ricco di una musicalità imprevista, capace anch’esso d’esprimere poesia, amore… Erano tutt’e due soli in una stanzetta a fianco del salotto, e così vicini l’una all’altro che, quando Arnica, sentendosi mancare, lasciò ricadere la testa pesante di riconoscenza, la sua fronte toccò la spalla di Amédée, il quale, con la massima serietà, prese allora la mano d’Arnica e le baciò la punta delle dita.

Quando, mentre rincasavano, Amédée annunciò la propria felicità all’amico, Gaston, contro ogni abitudine, non disse nulla; passando davanti a un lampione, a Amédée parve che l’altro piangesse. Per quanto grande fosse l’ingenuità d’Amédée, poteva davvero supporre che l’amico arrivasse a condividere sino a quel punto la sua felicità? Sconcertato, addolorato, prese Blafaphas tra le braccia (la via era deserta) e gli giurò che, per quanto grande fosse il suo amore, l’amicizia era più grande ancora; non voleva assolutamente che il suo eventuale matrimonio la diminuisse, e, infine, piuttosto di sapere Blafaphas malato di gelosia, era pronto a promettergli, su quella stessa sua felicità, di non far mai uso dei diritti coniugali.

Né Blaphafas né Fleurissoire erano molto ardenti di temperamento; e Gaston, al quale, tuttavia, la virilità destava qualche inquietudine in più, se ne stette zitto: lasciò che Amédée promettesse.

Poco tempo dopo il matrimonio d’Amédée, Gaston, che, per consolarsi, s’era sprofondato nel lavoro, scoprì il “cartone plastico”. Quest’invenzione, che dapprima non pareva gran cosa, ebbe come risultato iniziale il rinsaldamento dell’amicizia di Lévichon per i Blafafoires, che s’era andata un poco allentando. Eudoxe Lévichon intuì immediatamente il partito che l’arte sacra avrebbe potuto trarre da quel nuovo materiale; lo battezzò all’istante con un notevole senso delle contingenze “Cartone romano”.1 La casa Blafaphas Fleurissoire e Lévichon era fondata.

L’impresa cominciò con un capitale di sessantamila franchi dichiarati, i Blafafoires figuravano modestamente con diecimila. Lévichon forniva generosamente gli altri cinquantamila, non volendo che i due amici esaurissero le proprie risorse. È vero che, di questi cinquantamila, quarantamila erano prestati da Fleurissoire che li aveva prelevati sulla dote di Arnica, rimborsabili in dieci anni, con un interesse cumulativo del quattro e mezzo per cento: più di quanto Arnica avesse mai sperato; in tal modo la piccola fortuna di Amédée era messa al riparo dai grossi rischi che una simile impresa non poteva mancare di correre. I Blafafoires, per conto loro, apportavano all’azienda l’appoggio delle proprie relazioni e di quelle dei Baraglioul, vale a dire, dopo che il cartone romano fu collaudato con successo, la protezione di molti membri influenti del clero: costoro (oltre a fare forti ordinazioni) convinsero molte piccole parrocchie a indirizzarsi alla casa F. B. L. per rispondere ai sempre più vasti bisogni dei fedeli, la cui educazione artistica, sempre più sviluppata, esigeva opere ben più raffinate di quelle delle quali s’era sin allora appagata la frusta fede dei vecchi. A tale scopo alcuni artisti, i cui meriti erano riconosciuti dalla Chiesa, arruolatisi nella fabbrica del cartone romano, videro finalmente le loro opere accettate dal Salon. Lasciando i Blafafoires a Pau, Lévichon si stabilì a Parigi, dove, grazie alla sua intraprendenza, la casa acquistò rapidamente una considerevole importanza.

Non era naturale, dunque, che la contessa de Saint-Prix cercasse, attraverso Arnica, d’interessare la casa Blafaphas e compagni alla segreta causa della liberazione del papa? e che confidasse nella grande pietà dei Fleurissoire per recuperare almeno una parte di quanto aveva sborsato? Disgraziatamente i Blafafoires, a causa della modestia della somma impegnata all’inizio dell’impresa, guadagnavano piuttosto pochino: due dodicesimi sugli utili palesi e assolutamente nulla sul resto. Ma, questo, la contessa non sapeva, poiché Arnica, come Amédée del resto, aveva un gran pudore a parlar di denaro.

III

«Cara signora, che succede? La sua lettera mi ha fatto paura!»

La contessa si lasciò cadere sulla sedia che Arnica sospingeva verso lei.

«Ah, signora Fleurissoire… guardi, mi permetta di chiamarla: amica mia… Questo gran dolore che tocca pure lei, non può far a meno d’avvicinarci. Ah, se sapesse!…»

«Mi dica, mi dica! Non mi lasci più in sospeso.»

«Ma quanto ho appena saputo, quanto sto per dirle, deve restare un nostro segreto.»

«Non ho mai tradito la fiducia di nessuno,» disse dolorosamente Arnica, alla quale nessuno aveva mai confidato un segreto.

«Lei non ci crederà.»

«Sì, sì,» gemeva Arnica.

«Ah!» gemeva la contessa. «Ma, via, sia così buona da darmi qualcosa da bere… Sento che sto per svenire.»

«Vuole un po’ di estratto di verbena? una tisana? una camomilla?»

«Qualsiasi cosa… Del tè piuttosto… Ah, non volevo crederci all’inizio.»

«C’è acqua bollente in cucina… Aspetti un attimo solo.»

E, mentre Arnica si dava da fare, l’occhio interessato della contessa faceva la stima del salotto. Vi regnava una modestia scoraggiante: sedie di reps verde, una poltrona di velluto granata, un’altra foderata di un volgare arazzo, proprio quella in cui era seduta lei; un tavolo, una consolle di mogano; davanti al focolare, un tappetuccio di lana; sulla mensola del camino, ai lati d’un orologio d’alabastro, sotto una campana di vetro, due vasi d’alabastro traforato, sotto le lor brave campane di vetro; sul tavolo, un album di fotografie di famiglia; sulla consolle, un’immagine della Madonna di Lourdes nella relativa grotta, di cartone romano, modello ridotto: tutto scoraggiava sempre più la contessa.

Insomma, però, potevano anche essere falsi poveri, avaracci…

Arnica tornava con la teiera, lo zucchero e una tazza su un vassoio.

«Le dò molto disturbo, vero?»

«Oh, ma le pare!… Soltanto preferisco farlo prima; perché dopo non ne avrei più la forza.»

«Ebbene, ecco,» cominciò Valentine dopo che Arnica fu seduta. «Il papa…»

«No, non me lo dica! non mi dica nulla!» esclamò subito la signora Fleurissoire, tendendo una mano davanti a sé; poi, emettendo un debole grido, ricadde indietro, a occhi chiusi.

«Povera amica, povera, cara amica mia,» diceva la contessa picchiandole la palma delle mani. «Sapevo bene che questo segreto era al di sopra delle sue forze.»

Alla fine Arnica aprì un occhio e mormorò tristemente:

«È morto?»

Allora Valentine, chinandosi su lei, le mormorò all’orecchio:

«È in prigione».

Lo stupore fece tornare in sé la signora Fleurissoire, e Valentine cominciò la lunga narrazione, inciampando nelle date, imbrogliandosi nella cronologia; ma il fatto era quello, certo, indiscutibile: il nostro Santo Padre era caduto in mano agl’infedeli; si stava organizzando clandestinamente una crociata per liberarlo; e occorrevano, prima di tutto, perché l’impresa approdasse a un risultato, molti denari.

«Che ne dirà Amédée?» gemeva Arnica, costernata.

Doveva tornare solo quella sera: era andato a fare una passeggiata in compagnia dell’amico Blafaphas.

«Soprattutto, gli raccomandi il segreto,» replicò Valentine più volte, congedandosi da Arnica. «Baciamoci, cara amica, coraggio!» Arnica, confusa, tendeva alla contessa la fronte umidiccia. «Domani passerò a sentire che pensate di poter fare. Consulti il signor Fleurissoire, ma pensi che ne va della Chiesa!… Siamo d’accordo: ne parli solo a suo marito! Me lo promette: non una parola con altri, vero? non una parola.»

La contessa de Saint-Prix aveva lasciato Arnica in uno stato di depressione molto vicino alla completa prostrazione. Quando Amédée rientrò dalla passeggiata, la donna s’affrettò a dirgli:

«Caro, ho saputo appena ora qualcosa di troppo triste. Il povero Santo Padre è in prigione».

«Impossibile!» disse Amédée come avrebbe detto: “Bah!”.

E allora Arnica scoppiando in singhiozzi:

«Lo sapevo bene, lo sapevo bene che non mi avresti creduto».

«Via, via, cara…» riprendeva Amédée, levandosi il soprabito senza il quale non si arrischiava mai a uscire per tema dei bruschi cambiamenti di temperatura. «Stai sognando? Lo saprebbero tutti, se avessero toccato il Santo Padre. Lo si leggerebbe sui giornali… E chi mai lo avrebbe potuto mettere in prigione?»

«Valentine dice che è stata la Loggia.»

Amédée guardò Arnica con l’idea che quella fosse ammattita. E disse tuttavia:

«La Loggia!… Che Loggia?»

«Ma come vuoi che lo sappia io? Valentine ha giurato di non parlarne.»

«Chi le ha raccontato tutte queste storie?»

«M’ha proibito di dirlo… Un canonico, che è andato da lei da parte del cardinale, con un biglietto…»

Arnica, di affari pubblici, non ne capiva nulla e, di quanto le aveva raccontato la signora de Saint-Prix, si faceva solo un’idea molto confusa. Le parole “detenzione” e “incarceramento” le facevan sorgere davanti agli occhi immagini tenebrose e semiromantiche; la parola “crociata” l’esaltava infinitamente e, quando Amédée, finalmente scosso, parlò di partire, se lo vide immediatamente in corazza e elmo a cavallo… Lui, adesso, camminava a gran passi su e giù per la stanza; diceva:

«Prima di tutto, soldi, noi non ne abbiamo… E poi, credi che basterebbe dare un po’ di denaro? Credi che, privandomi di qualche banconota, potrei riposare tranquillo? Ma, cara mia, se quanto mi dici è vero, è una cosa spaventosa e non ci permette, certo, d’indugiare. Spaventosa, mi capisci?»

«Sì, lo sento bene, spaventosa… Però spiegami un poco… perché?»

«Oh, se adesso c’è bisogno che te lo spieghi!…» E Amédée, il sudore alle tempie, alzava le braccia scoraggiato.

«No, no,» riprendeva; «non è il caso di dar soldi, ora; bisogna dare se stessi. Ora consulterò Blafaphas; vedremo che ne dirà lui.»

«Valentine de Saint-Prix m’ha fatto promettere di non parlarne a nessuno,» azzardò timidamente Arnica.

«Blafaphas non è nessuno; e poi gli raccomanderemo di tener tutto ciò per sé solo.»

«Come vuoi partire senza che lo si sappia?»

«Si saprà che parto, ma non si saprà dove vado.» Poi, girandosi verso lei, in tono patetico implorò: «Arnica, tesoro mio… lasciami partire».

Arnica singhiozzava. Adesso era lei a reclamare l’aiuto di Blafaphas. Amédée stava per andare a chiamarlo quando l’altro arrivò, bussando al vetro del salotto com’era sua abitudine

«Ecco la più strana storia che abbia mai inteso in vita mia,» esclamò quando l’ebbero messo al corrente. «No, ma, in verità, chi si sarebbe mai aspettato qualcosa di simile?» e di colpo, prima che Fleurissoire gli avesse minimamente rivelato le proprie intenzioni: «Amico mio, abbiamo una sola cosa da fare: partire.»

«Vedi,» disse Amédée, «è il primo pensiero.»

«Io, disgraziatamente, son trattenuto dalle condizioni del mio povero padre,» fu il secondo pensiero di Blafaphas.

«Insomma, è meglio che sia solo io,» disse Amédée. «In due ci faremmo notare troppo.»

«Ma come ti leverai d’impaccio?»

Allora Amédée sollevò il busto e le sopracciglia con l’aria di dire:“Farò del mio meglio, che cosa vuoi?”. E Blafaphas continuava:

«Sai a chi rivolgerti? Dove andare…. Sai almeno cosa vuoi andar a fare laggiù?»

«Per prima cosa rendermi conto di come stiano le cose.»

«Perché, insomma, se non ci fosse nulla di vero?»

«Proprio per questo, non posso restare nel dubbio.» E Gaston esclamò a sua volta:

«E neppur io».

«Amico mio, rifletti ancora,» Arnica tentava di convincere il marito.

«Ho già riflettuto abbastanza: parto, in segreto, ma parto.»

«Quando? Non hai nulla di pronto.»

«Stasera. Non ho bisogno di troppa roba.»

«Ma non hai mai viaggiato. Non sai nulla.»

«Vedrai, piccola mia. Vi racconterò le mie avventure,» disse Amédée con un sorrisetto che gli scuoteva il pomo d’Adamo.

«Ti prenderai il raffreddore, è sicuro.»

«Mi metterò la tua sciarpa.»

Smise d’andar su e giù, per sollevare con la punta dell’indice il mento di Arnica, come si fa ai neonati quando si vuole che ridano. Gaston manteneva un atteggiamento riservato; Amédée gli s’accostò.

«Conto su te per la consultazione dell’orario; mi dirai quando c’è un buon treno per Marsiglia, con vetture di terza classe. Sì, sì, ci tengo a prender la terza classe; e preparami un itinerario particolareggiato, con l’indicazione delle coincidenze e dei ristoranti, sino alla frontiera; dopo, sarò lanciato; me la caverò, vedrai, e Dio mi guiderà sino a Roma. Scrivetemi laggiù, fermo posta.»

L’importanza della missione gli scaldava perigliosamente il cervello. Quando Gaston se ne fu andato, continuò a misurare la stanza; mormorava:

«A me era riservato questo!» pieno d’una ammirazione e d’una riconoscenza gonfie di tenerezza: finalmente trovava una ragione d’essere. Ah, per pietà, signora mia, non cerchi più di trattenerlo! Son tanto pochi su questa terra gli esseri che sappiano trovare una giustificazione alla propria esistenza!

Tutto quanto ottenne Arnica fu che trascorresse un’ultima notte al suo fianco; d’altra parte, Gaston aveva segnato sull’orario, che portò quella sera, il treno delle otto del mattino come il più pratico.

Quella mattina pioveva fitto. Amédée non volle che Arnica o Gaston lo accompagnassero alla stazione. E nessuno ebbe uno sguardo d’addio per quel buffo viaggiatore dagli occhi di pesce, avvolto in una grande sciarpa color granata, con nella destra una valigia di tela grigia su cui aveva attaccato uno dei suoi biglietti di visita, nella sinistra un vecchio ombrello, e, sul braccio, uno scialle a quadri verdi e neri; il treno se lo portò via, verso Marsiglia.

IV

A quel tempo, un importante congresso di sociologia richiamava a Roma il conte Julius de Baraglioul. Forse non era stato specificamente convocato (avendo sulle questioni sociali più convinzioni che competenze), ma egli si rallegrava di poter stringere, in tale occasione, rapporti con qualche luminare, qualche celebrità. E poiché, logicamente, Milano si trovava sulla strada, Milano, dove, come si sa, dietro consiglio di padre Anselmo, gli Armand-Dubois erano andati ad abitare, ne avrebbe approfittato per rivedere il cognato.

Il giorno stesso in cui Fleurissoire lasciava Pau, Julius suonava alla porta d’Anthime.

Venne introdotto in un miserabile appartamentino di tre stanze – se poteva esser contato come una stanza l’oscuro bugigattolo, in cui Véronique cucinava, lei stessa, qualche legume, loro cibo ordinario. Un orribile lucernario di metallo rimandava la luce livida d’un cortiletto; Julius, tenendo in mano il cappello piuttosto di posarlo sulla sospetta tela cerata che ricopriva il tavolo ovale, e restando in piedi per orrore del velluto delle sedie, afferrò il braccio d’Anthime ed esclamò:

«Lei non può restar qui, povero amico mio».

«Perché mi compiange?» chiese Anthime.

Al suono delle loro voci era accorsa Véronique.

«Ci vuol credere, caro Julius? Lui non trova nulla da ridire davanti all’ingiustizia e all’abuso di fiducia di cui siamo vittime.»

«Chi vi ha fatti partire per Milano?»

«Padre Anselmo; a ogni modo non avremmo potuto restare nel nostro appartamento di via in Lucina.»

«Che bisogno ne avevamo?» domandò Anthime.

«Non sta qui la questione. Padre Anselmo vi aveva promesso un compenso. È al corrente della vostra miseria?»

«Fa finta d’ignorarla,» disse Véronique.

«Bisogna rivolgersi al vescovo di Tarbes.»

«Cosa che Anthime ha fatto.»

«E che ha detto?»

«È un uomo eccellente; mi ha vivamente incoraggiato a persistere nella mia fede.»

«Ma da quando siete qui non vi siete lagnati con nessuno?»

«Avrei voluto vedere il cardinal Pazzi che mi aveva dimostrato una certa attenzione, e a cui avevo scritto di recente; è passato da Milano, ma mi ha fatto dire dal suo cameriere…»

«Che una crisi di gotta lo costringeva a rimanersene in camera,» interruppe Véronique.

«Ma è vergognoso! Bisogna avvertire Rampolla,» esclamò Julius.

«Avvertirlo di che, amico mio? È vero, sono un poco a corto di tutto; ma di che abbiamo bisogno, di più? Ho sbagliato, ai tempi della prosperità, ero un peccatore; ero malato. Ora, eccomi, sono guarito. Un tempo, lei poteva ben compiangermi, era facile. Lo sa anche lei, perfettamente: i falsi beni allontanano da Dio.»

«Ma, insomma, questi falsi beni le son dovuti. Sono d’accordo con lei che la Chiesa insegna a disprezzarli, ma non ammetto che la si defraudi così.»

«Questo è un discorso,» disse Véronique. «Con quanto sollievo la sto a sentire, Julius! La rassegnazione di Anthime mi mette fuori di me; non c’è mezzo per indurlo a difendersi; s’è lasciato pelare come un pollo; ringraziando quanti si degnavano di portargli via qualcosa, che prendevano in nome del Signore.»

«Véronique, mi fa pena sentirti parlare così: tutto quello che vien fatto in nome del Signore è ben fatto.»

«Se ti fa tanto piacere esser preso per un cretino…»

«“Cretino” suona quasi come “cristiano”, cara».1

Allora Véronique, girandosi verso Julius:

«Ma lo sentite? Bene, è sempre così, tutti i giorni: straparla sempre da bigotto; e, quando ho ben sfacchinato, facendo le compere, cucinando e pulendo la casa, il signore cita il Vangelo, trova che m’inquieto inutilmente e mi consiglia di contemplare i gigli nei campi».

«Ti aiuto come posso, cara,» replicò Anthime con voce serafica; «ti ho proposto un’infinità di volte, ora che sono in gamba, d’andar al mercato o di pulire la casa al posto tuo.»

«Non son cose per chi porta i pantaloni. Contentati di scrivere le tue omelie e cerca soltanto di fartele pagare un po’ di più.» E poi con un tono sempre più irritato (lei, una volta tanto pronta al sorriso): «È una vergogna: quando penso come gli fruttavano i suoi empi articoli per la Dépêche. E di quei pochi soldi che gli dà Il pellegrino per le sue prediche, riesce ancora a darne più della metà ai poveri».

«Allora è un santo, un vero santo!…» esclamò Julius, costernato.

«Oh, come mi dà noia tutta la sua santità!… Guardi: sa che cos’è questo?» e portava alla luce da un angolo in ombra della stanza una gabbia da polli. «Qui ci sono due topi, ai quali, in altri tempi, il signor sapientone ha bucato gli occhi.»

«Ahimè, Véronique, perché rivanghi cose simili? Proprio tu li nutrivi, quando io facevo quegli esperimenti; e ti rimproveravo allora… Sì, Julius, al tempo delle mie malefatte, avevo accecato queste povere bestiole per vana curiosità scientifica; adesso gli dò da mangiare, mi sembra anche troppo naturale.»

«Vorrei proprio che la Chiesa trovasse ugualmente naturale far per lei quello che lei fa per questi topi, lei che dalla Chiesa è stato ugualmente accecato.»

«Accecato dice! Ma è lei a parlar così? Illuminato, fratello mio; illuminato.»

«Le parlo in termini realistici: le condizioni in cui è stato abbandonato sono inammissibili per me. La Chiesa ha preso un impegno formale nei suoi riguardi: è necessario che lo mantenga, per il suo onore e per la nostra fede.» Poi, girandosi verso Véronique: «Se voi due non avete ottenuto ancora nulla, rivolgetevi in alto, sempre più in alto. Parlavo di Rampolla? Al papa in persona voglio recare una supplice, ora; al papa che non è certo all’oscuro della conversione: una tale ingiustizia merita d’essergli riferita. Domani torno a Roma».

«Ma rimarrà pure a mangiare con noi,» osò dire timorosamente Véronique.

«Mi scusi, non ho lo stomaco molto solido,» e Julius, che aveva le unghie molto curate, guardava le grosse dita corte, dalle estremità quadrate, di Anthime; «quando tornerò da Roma mi tratterrò un poco di più con voi, e le parlerò, caro Anthime, del nuovo libro che sto preparando.»

«Ho riletto proprio in questi giorni l’Aria delle vette e l’ho trovato migliore di quanto mi fosse parso prima.»

«Peggio per lei! È un libro mancato; le spiegherò perché, quando lei sarà in grado di capirmi e di apprezzare le strane preoccupazioni che m’assillano. Ho troppo da dire; basta per oggi.»

Lasciò gli Armand-Dubois, dopo averli incoraggiati a sperar bene.


1 Compte rendu de la Délivrance de Sa Sainteté Léon XIII emprisonné dans les cachots du Vatican (Saint-Malo, imprimerie Y. Billois, rue de l’Orme, 4), 1893. (Nota dell’autore, naturalmente.)

1 Il “cartone romano plastico”, annunciava il catalogo, d’invenzione relativamente recente, di fabbricazione speciale, di cui la casa Blafaphas, Fleurissoire e Lévichon conserva il segreto, sostituisce molto vantaggiosamente la cartapesta, lo stucco e ogni altra composizione analoga che, attraverso l’uso, hanno rivelato innumerevoli inconvenienti (seguiva la descrizione dei vari modelli). (Nota dell’autore.)

1 Per quanto inebetito o estasiato dalla sua fede recente, il povero Anthime non pronuncia una simile sciocchezza, che è del traduttore, trovatosi di fronte a un gioco di parole francese purtroppo intraducibile in italiano. Dice l’originale infatti: – Si vous trouvez plaisant d’etre jobard… – Dans jobard il y a Job, mon ami.