LIBRO QUINTO LAFCADIO
«Questo è l’unico rimedio! Una cosa sola può curarci dall’essere noi stessi!…»
«Sì, letteralmente parlando, la questione non è come curarsi, ma come vivere.»
I
Dopo che, con la mediazione di Julius e l’assistenza del notaio, Lafcadio fu entrato in possesso delle quarantamila lire di rendita lasciategli dal fu conte Juste-Agénor de Baraglioul, la sua grande preoccupazione fu di non lasciar apparire nulla.
“Magari in un piatto d’oro”, s’era detto allora, “ma mangerai sempre le stesse pietanze.”
Non pensava a una cosa, o meglio non la sapeva ancora: che per lui, ormai, il gusto delle pietanze stava cambiando. O, per lo meno, che, siccome provava lo stesso piacere a lottare contro l’appetito o a cedere alla golosità, ora che il bisogno non lo assillava più, la sua resistenza andava allentandosi. Parliamo senza immagini: natura aristocratica, egli non aveva permesso che la necessità gl’imponesse alcun gesto: nessuno di quei gesti che attualmente poteva benissimo permettersi per malizia, per giuoco, per il semplice divertimento di anteporre il piacere all’interesse.
Conformandosi alle ultime volontà del conte, non aveva, dunque, preso il lutto. Una mortificante sorpresa lo attendeva presso i fornitori del marchese de Gesvres, l’ultimo zio, quando si presentò loro per mettere in efficienza il proprio guardaroba. Poiché faceva il nome di de Gesvres, il sarto tirò fuori alcune fatture che il marchese aveva dimenticato di pagare. Lafcadio aveva una vera ripugnanza per le truffe; fece quindi finta d’essere andato lì apposta per regolare quei conti e pagò in contanti i nuovi vestiti. Uguale avventura dal calzolaio. Quanto alle camicie, Lafcadio giudicò più prudente rivolgersi a un altro indirizzo.
“Se soltanto sapessi dove abita lo zio de Gesvres; mi piacerebbe mandargli queste fatture saldate”, pensava Lafcadio. “Certo, mi attirerei il suo disprezzo; ma sono un Baraglioul e ormai ti bandisco dal cuore, mascalzoncello d’un marchese.”
Nulla lo tratteneva a Parigi, né altrove; attraversando l’Italia a piccole tappe si dirigeva a Brindisi, da dove pensava d’imbarcarsi per Giava.
Completamente solo nel vagone che lo portava via da Roma, aveva, nonostante il caldo, gettato sulle ginocchia una morbida coperta da viaggio color tè, su cui si compiaceva di contemplarsi le mani guantate in color cenere. Attraverso la soffice stoffa dell’abito, respirava benessere per tutti i pori; il collo non stretto da un colletto quasi alto ma poco inamidato da cui sfuggiva, sottile come un serpentello sulla camicia pieghettata, una cravatta di seta color bronzo. Si sentiva bene dentro la pelle, bene dentro i vestiti, bene dentro le scarpe – pieghevoli mocassini tagliati nella medesima pelle dei guanti –: in quella molle prigione il piede si stendeva, s’arcuava, si sentiva vivere. Il cappello di castoro, abbassato davanti agli occhi, lo separava dal paesaggio; e fumava una pipetta di radica e abbandonava i pensieri al loro naturale movimento. Pensava:“La vecchia, con una nuvoletta bianca sopra la testa, me l’indicava e diceva: ‘La pioggia, non ci sarà neppure oggi!’… quella vecchia di cui mi son caricato il sacco sulle spalle”, (per capriccio aveva fatto a piedi in quattro giorni la traversata degli Appennini tra Bologna e Firenze, dormendo a Coviglialo), “e che ho baciato in cima alla salita… questo faceva parte di quelle che il curato di Covigliaio chiamava buone azioni. L’avrei potuta anche stringere alla gola – con una mano senza tremiti – quando ho sentito quella sudicia pelle rugosa sotto le mie dita… Ah, come mi accarezzava il bavero del vestito per toglierne la polvere! e diceva: ‘Figlio mio, carino!..’. Di dove mi veniva quella gioia così intensa quando, dopo, ancora tutto molle di sudore, all’ombra di quel grande castagno, e tuttavia senza fumare, mi son steso sul muschio? Mi sentivo tanto possente da poter abbracciare l’intera umanità; o magari strangolarla… Che piccola cosa la vita umana! E come arrischierei la mia, allegramente, se solo mi si offrisse qualche bella prodezza che fosse graziosamente temerario tentare!… Non posso, tuttavia, far l’alpinista o l’aviatore… Che mi consiglierebbe quel murato vivo di Julius?… Peccato che sia maniaco! Mi avrebbe fatto piacere possedere un fratello.
“Povero Julius! Tanta gente che scrive e così poca che legge! È un fatto: si legge sempre meno… se debbo giudicare da me stesso, come diceva quel tale. Finirà con una catastrofe; una bella catastrofe bene impregnata d’orrore! Si butterà a mare tutta la carta stampata; e sarà un miracolo se il meglio non raggiungerà il peggio in fondo.
“Vorrei proprio sapere quel che avrebbe detto la vecchia se avessi cominciato a stringere. Si può immaginare che cosa succederebbe se, ma resta sempre uno spiraglio, attraverso il quale filtra l’imprevisto. Nulla succede mai proprio come si è preveduto… E questo mi spinge ad agire… Si fa così poco! ‘Che tutto quello che può essere sia!’, ecco come mi spiego la creazione… Innamorato di quello che potrebbe essere. Se fossi lo Stato, mi farei metter dentro.
“Nulla d’interessante nella corrispondenza di quel signor Gaspard Flamand che sono andato a ritirare come mia alla posta di Bologna. Nulla che valesse la pena di venirgli rispedito.
“Dio, come son poche le persone di cui si vorrebbe frugar le valigie!… E tuttavia come son poche anche quelle da cui, con un gesto, una parola determinati, si potrebbe ottenere qualche curiosa reazione!… Bella collezione di marionette; ma i fili si vedon troppo, parola mia! Ormai per la strada s’incontrano solo tangheri e bricconi. È degno d’un onest’uomo, Lafcadio sto parlando con te, prendere sul serio questa farsa?… Su, su, facciamo le valigie: è ora! Fuggiamo verso un mondo nuovo; lasciamo l’Europa, imprimendo sul suolo il nostro tallone nudo!… Se c’è ancora nel Borneo, nel profondo delle foreste, qualche superstite pitecantropo, andremo là a calcolare le risorse d’una possibile umanità!…
“Avrei voluto rivedere Protos: senza dubbio s’è imbarcato per l’America. Apprezzava solo, a quel che diceva, i barbari di Chicago… Non altrettanto voluttuosi per i miei gusti quei lupi: io sono di natura felina. Andiamo oltre.
“Il curato di Covigliaio, tanto bonaccione, non mi pareva disposto a depravare molto il ragazzo con cui parlava. Certo, l’aveva in custodia: ne avrei fatto volentieri il mio camerata; non del curato – perbacco – ma del piccolo… Che begli occhi levava verso me! cercavano tanto inquietamente il mio sguardo, quanto il mio sguardo cercava il suo; ma mi giravo subito da un’altra parte… Non dovevano esserci più di cinque anni di differenza tra lui e me. Sì: doveva essere tra i quattordici e i sedici anni, non di più… Che cos’ero io a quell’età? Uno stripling, uno sbarbatello pieno di desideri: mi piacerebbe rincontrarmi oggi; credo che mi troverei di mio gusto… Faby, nei primi tempi, era sorpreso nel provare tanta attrazione per me; fece bene a confessarsi a mia madre; dopo, il suo cuore si sentì più leggero; ma il suo contegno riservato come mi urtava!… Quando più tardi, nell’Aurès, sotto la tenda, gli ho raccontato tutto questo, ne abbiamo riso!… Lo rivedrei volentieri ora; peccato che sia morto. Ma passiamo oltre.
“In verità, speravo di dispiacere al curato. Cercavo quel che avrei potuto dirgli di sgradevole: ho saputo trovar solo parole che l’affascinavano… Come m’è difficile non apparire seducente! Tuttavia non posso annerirmi la faccia come consigliava Carola; o mettermi a mangiare l’aglio… Ah, non pensiamo più a quella povera ragazza! A lei debbo i più mediocri tra i miei piaceri… Oh, ma di dove vien fuori questo strano vecchietto?”.
Amédée Fleurissoire entrava dalla porta del corridoio.
Fleurissoire aveva viaggiato solo nello scompartimento sino alla stazione di Frosinone. A quella fermata, un italiano di mezz’età era salito nello scompartimento, s’era seduto non lontano da lui e lo aveva cominciato a guardare con un’aria così cupa che l’aveva indotto alla fuga.
Nello scompartimento vicino, la giovane grazia di Lafcadio lo aveva, invece, attratto.
“Ah, che bel giovanotto! è quasi un ragazzo ancora”, pensava Fleurissoire. “In vacanza senza dubbio. Com’è ben vestito! E che candore è nel suo sguardo. Sarà un vero riposo spogliarmi della mia diffidenza! Se sapesse il francese, farei volentieri un po’ di conversazione con lui…”
Sedette in faccia al giovane, in un angolo, presso il finestrino. Lafcadio rialzò la tesa del cappello di castoro e cominciò a considerare Fleurissoire con occhio opaco, indifferente all’apparenza.
“Tra questo sporco mostricciattolo e me, che può esserci, di comune?”, pensava. “Pare che costui si creda furbo. Che ha da sorridermi in questo modo? Crede forse che lo voglia baciare? È possibile che esistano donne capaci ancora di carezzare i vecchi! Certo, resterebbe sorpreso nell’apprendere che so leggere scrittura e stampa, correntemente, alla rovescia o in trasparenza, negli specchi e nelle carte assorbenti; tre mesi di studio e due anni di tirocinio; e tutto per amore dell’arte. Cadio, piccolo mio, il problema s’impone: agganciarsi a questo destino. Ma da che parte?… Ecco gli offrirò da fumare: accetti o no, vedremo qual è la sua lingua.”
«Grazio, grazio!» disse Fleurissoire rifiutando.
“Nulla da fare col tapiro. Dormiamo!”, riprende tra sé Lafcadio, e, riabbassando il cappello sugli occhi, cerca di tradurre in sogno un ricordo della giovinezza.
Si rivede al tempo in cui lo chiamavano Cadio, in quello sperduto castello dei Carpazi, che per due estati lui e la madre avevano abitato in compagnia di Baldi, l’italiano, e del principe Wladimir Bielkowski. La sua camera è all’estremità d’un corridoio; è il primo anno che dorme lontano dalla madre… La maniglia di bronzo della porta, che ha la forma d’una testa di leone, è tenuta ferma da un grosso chiodo… Ah, come son precisi i ricordi di quelle sensazioni!… Una notte viene svegliato da un sonno profondissimo e crede di sognare ancora, vedendo al capezzale lo zio Wladimir, che gli appare più gigantesco ancora del solito, simile a un incubo, drappeggiato in un ampio caffettano color ruggine, i baffi cascanti e la testa coperta da uno strano berretto da notte, simile a un berretto persiano, che lo rende infinitamente più alto. Ha in mano una lanterna cieca che posa sul tavolino accanto al letto, vicino all’orologio di Cadio, respingendo da un lato un sacchetto di palline. Il primo pensiero di Cadio è che la madre sia morta, o malata; sta per far delle domande a Bielkowski, quando costui si posa un dito sulle labbra e gli fa segno d’alzarsi. In fretta il ragazzo s’infila la veste da camera che indossa all’uscita dal bagno e che lo zio, dopo averla presa dalla spalliera di una seggiola, gli passa; e tutto con le sopracciglia aggrottate e l’aria di chi non scherza. Ma Cadio ha tanta fiducia in Wladi che non prova paura neppure per un istante; s’infila le ciabatte e lo segue, molto interessato dai suoi modi e, come sempre, con la speranza di divertirsi.
Escono nel corridoio; Wladimir va avanti gravemente, misteriosamente, protendendo la lanterna; si direbbe che stanno compiendo un rito, che seguono una processione; Cadio barcolla un poco perché è ancora ebbro di sogni; ma la curiosità ben presto gli sgombra il cervello. Davanti alla porta della madre tutte due si fermano un istante, tendendo l’orecchio: nessun rumore, la casa dorme. Giunti sul pianerottolo, odono il russare d’un cameriere la cui stanza s’apre vicino al granaio. Scendono. Wladi posa piedi felpati sugli scalini; al minimo scricchiolio, si gira con un’aria talmente infuriata che Cadio fa fatica a non scoppiare a ridere. Wladi indica particolarmente uno scalino, facendo segno al ragazzo di scavalcarlo, con tanta serietà, come se ci fosse pericolo. Cadio non vuol sciupare il proprio piacere chiedendosi se quelle precauzioni sono necessarie, né se lo sia quello che fanno; si presta al giuoco e, scivolando lungo la ringhiera, scavalca lo scalino… Si diverte tanto prodigiosamente che, per seguire Wladi, attraverserebbe il fuoco.
Quando hanno raggiunto il pianterreno, siedono tutt’e due sul penultimo scalino per riposarsi un istante; Wladi scuote la testa ed emette un piccolo sospiro, come per dire: “Ah, l’abbiamo scampata bella”. E ripartono. Quante precauzioni davanti alla porta del salotto! La lanterna, ora tenuta da Cadio, illumina la stanza tanto bizzarramente che il ragazzo riconosce appena il posto dove si trova; gli pare smisurato; un poco di luna scivola attraverso la fessura di un’imposta; tutto è immerso in una tranquillità soprannaturale: si direbbe uno stagno in cui essi stanno per gettare clandestinamente la rete; e lui può vedere che ogni cosa è bene al proprio posto, ma per la prima volta ne afferra la stranezza.
Wladi s’accosta al pianoforte, lo apre, accarezza con la punta delle dita qualche tasto che risponde assai debolmente. D’improvviso il coperchio gli sfugge e produce, cadendo, un baccano formidabile. (Lafcadio sussulta ancora pensandoci.) Wladi si precipita sulla lanterna, che chiude, poi si lascia andare in una poltrona; Cadio scivola sotto un tavolo; tutt’e due rimangono a lungo, nel buio, senza muoversi, in ascolto… ma nulla; nulla s’è mosso nella casa; lontano, un cane abbaia alla luna. Allora, piano, piano, lentamente, Wladi rifà un poco di luce.
In sala da pranzo, con che espressione gira la chiave della dispensa! Il ragazzo sa perfettamente che si tratta solo di un giuoco, ma lo zio pare anche lui molto preso da quel giro. Annusa, come per accertare dove sia il migliore odore; s’impadronisce d’una bottiglia di tokay; ne versa due bicchierini per inzupparvi i biscotti; poi invita il ragazzo a trincare, sempre però tenendo un dito sulle labbra; il cristallo tintinna impercettibilmente. Terminato lo spuntino notturno, Wladi pensa a metter tutto in ordine; va con Cadio a lavare i bicchieri nell’acquaio in cucina, li asciuga, tappa di nuovo la bottiglia, chiude la scatola dei biscotti, spazza via meticolosamente le briciole, si accerta, con un’ultima occhiata, che tutto sia a posto nell’armadio… Nessuno può accorgersi di nulla.
Wladi riaccompagna Cadio sino alla sua camera e lo lascia con un profondo inchino. Cadio riprende il sonno e il giorno dopo si chiederà se per caso non abbia sognato tutto.
Buffo giuoco per un ragazzo! Che ne penserebbe Julius?…
Sebbene tenga gli occhi chiusi, Lafcadio non dorme; non riesce a dormire. “Il vecchietto, che so esser là, crede che io dorma”, pensava. “Se socchiudessi gli occhi lo scoprirei intento a guardarmi. Protos sosteneva che è particolarmente difficile fingere di dormire e far attenzione contemporaneamente; assicurava di poter riconoscere il falso sonno dal leggero, piccolo tremito delle palpebre… che io trattengo ora. Persino Protos resterebbe ingannato.”
Il sole intanto era calato; già s’attenuavano gli ultimi riflessi del suo splendore, Fleurissoire li contemplava rapito. D’improvviso, nel soffitto a volta del vagone, s’accese la luce elettrica; una luce troppo brutale dopo quel tenero crepuscolo; e, per timore che turbasse il sonno del vicino, Fleurissoire girò il commutatore: questo non produsse l’oscurità completa, ma diramò la corrente della lampada centrale a una lampada azzurra da notte. Ma per Fleurissoire anche quell’ampolla azzurra spandeva troppa luce; egli dette un altro giro all’interruttore; la lampada da notte si spense, ma s’accesero immediatamente due lampade laterali, più abbaglianti di quella di centro; ancora un giro, e ancora la lampada da notte; Fleurissoire si rassegnò.
“Avrà finito di giocare con la luce?”, pensava Lafcadio, impaziente. “Che fa ora? (No! non aprirò gli occhi.) È in piedi?… Sarà attratto dalla mia valigia? Bravo! Vede che è aperta. Per perderne subito la chiave, valeva proprio la pena di fargli mettere una serratura tanto complicata che m’è toccato far forzare a Bologna! Un lucchetto almeno si sostituisce… Il diavolo mi fulmini: si spoglia per caso quello là? Ah, guardiamo!”
Non badando affatto alla valigia di Lafcadio, Fleurissoire, che voleva mettersi il nuovo colletto, s’era tolto la giacca per poterselo abbottonare più comodamente; ma la tela inamidata, dura come il cartone, resisteva a ogni sforzo.
“Non ha l’aria molto felice”, si diceva Lafcadio. “Deve soffrire d’una fistola o di qualche altro male nascosto. Debbo aiutarlo? Da solo non può riuscirci.”
Eppure sì! il colletto alla fine accolse il bottone. Fleurissoire allora riprese, dal sedile su cui l’aveva posta accanto al cappello, alla giacca, ai polsini, la cravatta e, avvicinandosi al finestrino, cercò come Narciso sull’onda, di distinguere sul vetro la propria faccia dal paesaggio.
“Non si vede abbastanza.”
Lafcadio riaccese la luce centrale. Il treno correva lungo una scarpata, che si vedeva attraverso il vetro, illuminata dalle brevi luci di ogni scompartimento; una fila di quadrati chiari che danzavano lungo la strada ferrata, e si deformavano a ogni accidente del terreno. In mezzo a uno di quei quadrati, si vedeva ballonzolare l’ombra buffa di Fleurissoire; gli altri quadrati erano vuoti.
“Chi vedrebbe?”, pensava Lafcadio. “Lì, vicinissimo alla mia mano, sotto la mia mano, questa maniglia, che posso tanto facilmente girare; questa porta, spalancandosi di colpo, lo farebbe cadere in avanti; basterebbe una piccola spinta; e lui piomberebbe nella notte come un masso; non si sentirebbe neppure un grido… E domani, in viaggio per le isole!… Chi saprebbe mai nulla?”
La cravatta era a posto; un nodino già fatto; ora, Fleurissoire aveva preso uno dei polsini e se l’aggiustava al polso destro; e, così facendo, esaminava, al di sopra del posto ove si era seduto sino allora, la fotografia (una delle quattro che decoravano lo scompartimento) di una qualche costruzione sul mare.
“Un delitto senza motivo” continuava Lafcadio: “che pasticcio per la polizia! Ma in fondo, chiunque potrebbe vedere da un altro scompartimento, che uno sportello s’apre e che un’ombra cinese fa una capriola. Meno male che le tende del corridoio son tirate… Non sono tanto curioso degli avvenimenti quanto di me stesso. Tanti si credono capaci di tutto e poi si tirano indietro al momento d’agire… Tra l’immaginare e il fare c’è di mezzo un abisso!… E non si può ripetere la mossa come nel giuoco degli scacchi. Bah, a prevedere tutti i rischi, il giuoco perderebbe interesse!… Tra l’immaginazione d’un fatto e… Guarda, la scarpata finisce. Siamo su un ponte, credo; un fiume…”
Sul fondo del vetro, nero in quel momento, i riflessi apparivano più chiari e Fleurissoire si chinò per rettificare la posizione della cravatta.
“Qui, sotto la mia mano, questa maniglia” mentre lui è distratto e guarda lontano, davanti a sé “gira di già, parola mia, più facilmente di quanto potessi credere. Se riesco a contare sino a dodici, senza affrettarmi, prima di vedere qualche luce in questa campagna, il tapiro è salvo. Comincio: uno; due; tre; quattro; (piano! piano!) cinque; sei; sette; otto; nove… dieci: una luce…”
II
Fleurissoire non emise neppure un grido. Sotto la spinta di Lafcadio e davanti all’abisso bruscamente spalancatoglisi ai piedi, compì un gran gesto per trattenersi, la sua mano sinistra afferrò lo stipite liscio dello sportello, mentre, per metà girato, gettava la destra indietro, lontana, al di sopra di Lafcadio, mandando a rotolare sotto il sedile, all’altra estremità dello scompartimento, il secondo polsino, che, prima del fatto, stava aggiustandosi.
Lafcadio si sentì piombare sulla nuca un artiglio terribile; abbassò la testa e dette una seconda spinta più impaziente della prima; le unghie dell’altro gli solcarono il collo; e Fleurissoire non trovò più nulla a cui aggrapparsi a eccezione del cappello di castoro che afferrò disperatamente e trascinò nella caduta.
“E adesso: sangue freddo”, si disse Lafcadio. “Non sbattiamo lo sportello; nello scompartimento vicino potrebbero sentire.”
Tirò a sé lo sportello, controvento, con una certa fatica e lo richiuse piano, piano.
“Mi ha lasciato il suo orribile cappello di paglia; ancora un po’ e con una pedata lo mandavo a raggiungere il suo padrone; ma lui m’ha preso il mio, e deve bastargli. Ottima precauzione, la mia, di togliere le iniziali!… Ma sulla fodera resta pur sempre la marca del cappellaio, a cui non si ordinano cappelli di castoro tutti i giorni… Tanto peggio, il dado è tratto… Che si possa credere ancora a una disgrazia… No, perché ho richiuso lo sportello… Far fermare il treno?… Via, via, Cadio, niente ritocchi: tutto è come l’hai voluto.
“Prova che ora sono perfettamente padrone di me: cominciamo col guardare che cosa rappresenta questa fotografia che il vecchietto stava contemplando… Miramare! Nessuna voglia d’andarlo a vedere… Qui manca l’aria.”
Aprì il finestrino.
“La bestia m’ha graffiato. Sanguino… mi ha fatto molto male. Ci vorrà un po’ d’acqua: il gabinetto è in fondo al corridoio, a sinistra. Prendiamo un fazzoletto.”
Prese dalla reticella la propria valigia e l’aprì sul sedile, al posto in cui poco prima era seduto.
“Se incontro qualcuno in corridoio, calma… No, il cuore non mi batte troppo forte. Andiamo!… Ah, la sua giacca; posso facilmente nasconderla sotto la mia. In tasca ci sono delle carte: ho di che occuparmi durante il resto del percorso.”
Era una povera giacca lisa, color liquirizia, di panno sottile, ruvido e volgare, che Lafcadio toccò con qualche disgusto e appese all’attaccapanni nel piccolo gabinetto ove si chiuse; poi, chino sul lavabo, cominciò a esaminarsi nello specchio.
Aveva il collo brutalmente graffiato in due punti; una sottile striscia rossa partiva da dietro la nuca e, girando a sinistra, andava a morire dietro l’orecchio; un’altra più breve, una vera scorticatura però, due centimetri più su della prima, saliva dritta verso l’orecchio di cui aveva raggiunto e staccato un poco il lobo. Sanguinava, questa ferita, ma meno di quanto aveva potuto temere; al contrario, il dolore, che dapprima non aveva avvertito, si svegliava ora, molto acuto. Bagnò il fazzoletto nel catino, fermò il sangue, poi lavò il fazzoletto.
“Non macchierà neppure il colletto”, pensò, riaggiustandosi, “va tutto bene.”
Stava per uscire; in quel momento la locomotiva fischiò; una fila di lumi passò dietro il vetro opaco del gabinetto. Era Capua. Scendere a quella stazione vicina al luogo dell’incidente, correre nella notte, impadronirsi di nuovo del cappello, questo pensiero sorse in lui abbagliante. Rimpiangeva molto il morbido cappello di castoro, leggero, lucido, tiepido, fresco insieme, d’una eleganza tanto discreta. Tuttavia non prestava mai interamente ascolto ai desideri e non gli piaceva cedere, neppure a se stesso; ma, soprattutto, detestava l’indecisione e da molti anni conservava come un feticcio un dado da gioco reale che in altri tempi gli aveva donato Baldi: lo portava sempre addosso, lo aveva lì, nel taschino del panciotto.
“Se faccio sei”, disse tirando fuori il dado, “scendo!” Fece cinque.
“Scendo ugualmente. Presto, la giacca del morto!… ora la mia valigia…”
Corse nello scompartimento.
Oh, come davanti all’eccezionalità d’un fatto, pare inutile ogni esclamazione! Più l’avvenimento è sorprendente, più il mio racconto sarà semplice. Dirò dunque recisamente questo: quando Lafcadio rientrò nello scompartimento per riprendere la sua valigia, la valigia non c’era più.
Credette dapprima d’essersi sbagliato, tornò a uscire in corridoio… Ma sì; era proprio lì che si trovava poco prima. Ecco la veduta di Miramare… ma allora? Corse al finestrino e credette di sognare: sul marciapiede della stazione, non lontano ancora dal vagone, la sua valigia se ne andava via tranquillamente, in compagnia d’un omaccione che la reggeva, camminando piano, piano.
Lafcadio volle slanciarsi; il gesto che compì per aprire lo sportello, fece scivolare a terra la giacca color liquirizia.
“Diavolo, diavolo! Un passo di più e mi perdevo!… Tuttavia quel mascalzone andrebbe un poco più veloce se supponesse che gli posso correre dietro. Che abbia visto?”
In quel momento, poiché rimaneva chino in avanti, una goccia di sangue gli scivolò lungo la guancia.
“Tanto peggio per la valigia! Il dado l’aveva detto: non devo scendere qui.”
Chiuse di nuovo lo sportello e si rimise a sedere.
“Non ci son carte nella valigia; e la mia biancheria è senza cifre; che cosa rischio?… Non importa: bisogna imbarcarsi al più presto; forse sarà un poco meno divertente; ma senz’altro più saggio.”
Il treno ripartiva.
“Non rimpiango tanto la valigia… ma il cappello di castoro, avrei proprio voluto recuperarlo. Non pensiamoci più.”
Empì di nuovo la pipa, l’accese, poi, ficcando la mano nella tasca interna dell’altra giacca, tirò fuori insieme una lettera d’Arnica, uno scontrino dell’agenzia Cook e una busta di carta ordinaria che aprì.
“Tre, quattro, cinque, sei biglietti da mille! Questo non può interessare una persona onesta.”
Rimise le banconote nella busta, e la busta nella tasca della giacca. Ma, quando, un istante dopo, esaminò lo scontrino dell’agenzia Cook ebbe un capogiro. C’era scritto, ben chiaro, il nome di Julius de Baraglioul.
“Sto impazzendo”, pensò. “Che rapporto può esserci con Julius?… scontrino rubato?… no; impossibile. Biglietto prestato indubbiamente. Diavolo, diavolo! Forse ho combinato un guaio: questi vecchietti sono meglio ramificati di quanto si crede…”
Poi, trepidante di interrogativi, aprì la lettera d’Arnica. Quei fatti apparivano troppo strani; faceva fatica a fissare la propria attenzione. Indubbiamente, non riusciva a stabilire esattamente quale parentela, quali legami potessero esistere tra Julius e quel vecchietto, ma, in ogni modo, afferrò questo: che Julius si trovava a Roma. Immediatamente la decisione fu presa: lo invase un impellente desiderio di rivedere il fratello, una sfrenata curiosità d’assistere alle conseguenze della faccenda su quella mente calma e logica.
“È detto! Stasera dormo a Napoli; svincolo il baule e domani torno a Roma col primo treno. Certamente sarà meno saggio, ma forse un poco più interessante.”
III
A Napoli, Lafcadio prese alloggio in un albergo vicino alla stazione; ebbe l’accortezza di prender con sé il baule, poiché i viaggiatori senza bagagli destano sempre sospetti e lui non voleva suscitare la minima curiosità; poi s’affrettò a procurarsi gli oggetti di toletta di cui aveva bisogno e un cappello che sostituisse l’odiosa “magiostrina” (che, del resto, gli andava stretta) lasciatagli in eredità da Fleurissoire. Desiderava anche acquistare una pistola, ma dovette rimandare al giorno dopo l’acquisto: i negozi chiudevano già.
Il treno che voleva prendere il giorno seguente partiva presto; si arrivava a Roma per colazione…
Era sua intenzione di presentarsi a Julius solo quando i giornali avessero parlato del “delitto”. Il “delitto”! Questa parola gli pareva piuttosto curiosa; e del tutto impropria, indirizzandosi a lui, quella di “delinquente”. Avrebbe preferito quella d’“avventuriero”, parola flessibile come il suo cappello di castoro, di cui poteva rialzare le falde a piacimento.
I giornali del mattino non parlavano ancora dell’“avventura”. Egli attendeva impaziente quelli della sera, con una gran fretta d’incontrare Julius e di vedere come andasse la partita; come il bimbo che giuoca a rimpiattino, che non vuole, certo, esser scovato ma che tuttavia desidera che lo si cerchi, Lafcadio aspettando s’annoiava. Era un fluttuante stato d’animo che non conosceva ancora; e la gente che passava vicino a lui per la strada gli pareva particolarmente mediocre, sgradevole, odiosa.
Quando arrivò la sera, acquistò il Corriere da uno strillone sul corso; poi entrò in un ristorante, ma per una specie di sfida e per stimolare la propria avidità di sapere, si costrinse a mangiare prima, lasciando il giornale piegato lì accanto, sul tavolino; poi uscì e, di nuovo sul corso fermandosi davanti alla luce d’una vetrina, spiegò il giornale e, in seconda pagina, vide in testa a una notizia di cronaca queste parole:
DELITTO, SUICIDIO… O DISGRAZIA?
Poi lesse:
“Alla stazione di Napoli, il personale delle ferrovie dello Stato ha trovato, sulla rete d’uno scompartimento di prima classe del treno proveniente da Roma, una giacca di colore scuro. Nella tasca interna una busta gialla, aperta, contenente sei biglietti da mille franchi; nessun altro documento che permettesse d’identificare il proprietario dell’indumento. Se vi è stato delitto, si spiega difficilmente che una somma così ingente sia stata lasciata nella giacca della vittima; questo sembra indicare per lo meno che il movente del delitto non sarebbe da ricercarsi nella rapina.
“Nessuna traccia di lotta è stata rilevata nello scompartimento; ma si è rinvenuto, sotto un sedile, un polsino con un gemello raffigurante due teste di gatto, legate una all’altra da una catenella d’argento dorato e tagliate in un quarzo semitrasparente, che vien detto: agata nebulosa a riflessi, della specie che i gioiellieri chiamano pietra lunare.
“Si stanno facendo attive ricerche lungo la strada ferrata”.
Lafcadio spiegazzò il giornale.
“Come! i gemelli di Carola, adesso! Ma quel vecchio è un crocicchio”. Girò la pagina e vide in fondo:
RECENTISSIME
UN CADAVERE LUNGO LA FERROVIA
Senza leggere più oltre, Lafcadio corse al “Grand-Hôtel”.
Mise in una busta il proprio biglietto di visita, scrivendo sotto il suo nome queste parole:
LAFCADIO WLUIKI
“chiede se il conte Julius de Baraglioul abbia o no ancora bisogno di un segretario”.
Poi fece avere il biglietto al destinatario.
Alla fine un lacchè venne a rilevarlo nell’atrio ove attendeva pazientemente, lo guidò lungo alcuni corridoi, lo introdusse dal conte.
Al primo colpo d’occhio, Lafcadio distinse, gettato in un angolo della stanza, il Corriere della sera. Sul tavolo, al centro della stanza, una gran boccia d’acqua di Colonia, stappata, spandeva un forte profumo. Julius aprì le braccia:
«Lafcadio, amico mio… come sono felice di rivederla!»
I capelli scompigliati gli fluttuavano e si agitavano sulle tempie: pareva dilatato; teneva un fazzoletto a pallini neri in mano e si faceva vento. «Lei è, forse, la persona che meno m’aspettavo di vedere qui; ma quella al mondo con cui più desidero parlare, questa sera… È stata la signora Carola a dirle che sono qui?»
«Che domanda strana!»
«Parola mia! L’ho appena incontrata… Del resto, non son sicuro che mi abbia visto.»
«Carola! È a Roma?»
«E lei non lo sa?»
«Arrivo dalla Sicilia proprio ora, e lei è la prima persona che vedo qui. Non tengo affatto a rivedere l’altra.»
«M’è parsa molto graziosa.»
«Lei non è difficile.»
«Intendo dire: molto meglio che a Parigi.»
«Questo è esotismo; ma, se lei ha appetito…»
«Lafcadio, certi discorsi non stanno bene tra noi.»
Julius avrebbe voluto assumere un’aria severa, riuscì solo a fare una smorfia poi riprese:
«Mi vede molto agitato. Sono a una svolta della vita: ho la testa in fiamme e sento, in tutto il corpo, una specie di vertigine, come se stessi per svaporare. Da tre giorni che sono a Roma, chiamatovi da un congresso di sociologia, passo di sorpresa in sorpresa. Il suo arrivo mi dà il colpo di grazia… Non mi riconosco più».
Camminava a gran passi; si fermò davanti al tavolo, prese la boccia, versò sul fazzoletto un fiotto di profumo, si applicò la compressa sulla fronte e continuò a premerla.
«Mio giovane amico… mi permetta di chiamarla così… Credo ormai d’avere in tasca il mio nuovo libro! Il modo, magari eccessivo, con cui lei mi parlò a Parigi del mio Aria delle vette, mi fa supporre che non rimarrà insensibile al nuovo.»
I suoi piedi s’intrecciarono; il fazzoletto cadde a terra; Lafcadio s’affrettò a raccattarlo e, mentre era chinato, sentì la mano di Julius posarglisi piano piano su una spalla, proprio come già aveva fatto la mano del vecchio Juste-Agénor. Lafcadio sorrideva, quando si rialzò.
«Ci conosciamo da così poco tempo,» disse Julius; «ma stasera non posso far a meno di parlarle come a un…»
Si fermò.
«L’ascolto come un fratello, signor de Baraglioul,» riprese Lafcadio, audace, «dato che lei si degna di permettermelo.»
«Vede, Lafcadio, nell’ambiente in cui vivo a Parigi, fra quanti frequento: gente di mondo, gente di Chiesa, gente di lettere, accademici, non trovo veramente nessuno con cui possa liberamente parlare, voglio dire: a cui confidare le nuove preoccupazioni che mi agitano. Ché, le debbo confessare, dopo il nostro primo incontro, le mie opinioni sono del tutto cambiate.»
«Meglio, meglio, allora!» disse impertinentemente Lafcadio.
«Lei non può credere, lei che non è del mestiere, come un’etica sbagliata ostacoli il libero sviluppo delle facoltà creatrici: così nessuna opera potrebbe esser più lontana dai miei vecchi romanzi di quella che progetto adesso. La logica, la coerenza che esigevo dai miei personaggi, per maggior loro concretezza, cominciavo a esigerla da me stesso; e questo non era naturale. Viviamo contraffatti piuttosto di non somigliare al ritratto che di noi abbiamo tracciato all’inizio: è assurdo; facendo così, rischiamo di falsare quanto c’è di meglio in noi.»
Lafcadio sorrideva sempre, aspettando la conclusione e divertendosi a riconoscere le lontane conseguenze dei suoi primi discorsi.
«Che le dirò, Lafcadio? Per la prima volta vedo davanti a me il campo libero. Capisce quel che vogliano dire queste parole: “campo libero”?… Mi vado dicendo che era già libero; mi ripeto che lo è da sempre e che sino a ora mi vincolavano impure preoccupazioni di carriera, di pubblico, di giudici ingrati da cui il poeta spera invano ricompensa. Ormai non m’aspetto nulla da altri all’infuori che da me. Ormai m’aspetto tutto da me stesso; aspetto tutto dall’uomo sincero; e esigo qualsiasi cosa; poiché adesso sento in me le più varie possibilità, poiché in definitiva si tratta solo di metterle sulla pagina, oserò dar loro corso. Vedremo!»
Respirava profondamente, buttava la spalla all’indietro, sollevava la scapola quasi fosse un’ala, come se le sue nuove perplessità lo soffocassero già un poco. E continuava confusamente, a bassa voce:
«E, siccome quei signori dell’Accademia non vogliono saperne di me, io mi preparo a fornir loro buone ragioni per non ammettermici; poiché sino a ora non ne avevano. Non ne avevano proprio».
La sua voce improvvisamente diventava quasi acuta, mentre scandiva quelle ultime parole; si fermava, poi riprendeva, un poco più calmo.
«Dunque ecco quello che penso… Mi sta a ascoltare?»
«Con tutta l’anima,» disse, sempre sorridendo, Lafcadio.
«E mi segue?»
«Sino all’inferno.»
Julius inumidì di nuovo il fazzoletto, sedette in una poltrona; davanti a lui, Lafcadio si mise a cavalcioni su una sedia.
«Si tratta d’un giovanotto, voglio farne un criminale.»
«Non ci vedo difficoltà.»
«Eh, eh!,» disse Julius che, invece, voleva dimostrare le difficoltà.
«Ma scusi, lei è il romanziere; chi può proibirglielo? E dal momento che fa opera d’immaginazione, non può immaginare tutto quello che le piace?»
«Quanto più quello che immagino è strano, tanto più motivi e spiegazioni devo fornire.»
«Non è difficile trovare motivi per un delitto.»
«Senza dubbio… ma, precisamente, io voglio che non ce ne siano: non voglio motivi per questo crimine; mi basta motivare il criminale. Sì, pretendo portarlo a commettere gratuitamente il delitto; a desiderare di commettere un delitto senza alcun motivo.»
Lafcadio cominciava a prestare maggiore attenzione.
«Prendiamolo adolescente: voglio che da ciò si riconosca l’eleganza della sua natura, si riconosca che lui agisce soprattutto per giuoco, che abituamente preferisce al proprio interesse il proprio piacere…»
«Questo, forse, non è proprio comune…» osò Lafcadio.
«Non è così,» disse Julius, rapito. «Aggiungiamo che prova piacere nel costringere se stesso…»
«Sino alla dissimulazione.»
«Inculchiamogli l’amore del rischio.»
«Bravo!» esclamò Lafcadio sempre più divertito. «Se sa prestare ascolto al dèmone della curiosità, credo che il suo allievo sia maturo.»
E così, ognuno a sua volta superando l’altro, quei due parevano giocare a saltamontone.
Julius: «Lo vedo esercitarsi agli inizi; è diventato abilissimo nei furterelli».
Lafcadio: «Mi son chiesto tante volte perché non se ne compiano di più. È vero che di solito le occasioni si offrono solo a coloro che, non provando il bisogno, non si lasciano tentare».
Julius: «Non provando il bisogno; e lui è proprio di coloro che non ne provano il bisogno; ma lo tentano solo quelle occasioni che esigono qualche abilità, dell’astuzia…».
Lafcadio: «E senza dubbio l’espongono un poco».
Julius: «Ho detto che gli piace il rischio. In fondo, la truffa gli ripugna: non cerca d’appropriarsi di qualcosa, ma si diverte a cambiar posto a dati oggetti. E mette in ciò una vera abilità da prestigiatore».
Lafcadio: «Poi l’impunità l’incoraggia…».
Julius: «Ma anche lo indispettisce. Se non lo hanno preso, vuol dire che s’è proposto un giuoco troppo facile».
Lafcadio: «E allora si provoca a un giuoco più rischioso».
Julius: «È così che lo faccio ragionare…».
Lafcadio: «Ma è ben sicuro che ragioni?».
Julius, proseguendo: «È per il bisogno che aveva di commetterlo, che diventa autore d’un delitto».
Lafcadio: «Abbiamo già detto che era molto abile».
Julius: «Sì, tanto più abile in quanto agirà a freddo. Pensi dunque: un delitto non originato dalla passione o dal bisogno. La sua ragione di commettere un delitto, consiste proprio nel commetterlo senza ragione».
Lafcadio: «È lei che ragiona il delitto del suo personaggio; lui, semplicemente, lo commette».
Julius: «Non c’è nessuna ragione di ritenere colpevole chi ha commesso il delitto senza ragione».
Lafcadio: «Lei è troppo sottile. Al punto in cui lei lo ha portato, lui è quel che si dice: un uomo libero».
Julius: «Alla mercè della prima occasione».
Lafcadio. «Ho una gran voglia di vederlo all’opera. Che ha intenzione di proporgli?».
Julius: «Ebbene, esitavo ancora. Sì, fino a stasera esitavo… E d’improvviso stasera, il giornale con le ultime notizie, mi offre proprio l’esempio desiderato. Un’avventura provvidenziale! È orrendo: si figuri che hanno assassinato mio cognato!».
Lafcadio: «Come! il vecchietto del treno è…».
Julius: «Era Amédée Fleurissoire, gli avevo prestato il mio biglietto e lo avevo accompagnato sino al treno. Un’ora prima aveva ritirato seimila franchi dalla mia banca e, poiché li portava con sé, mi aveva lasciato con qualche inquietudine; covava idee grigie, idee nere, che posso dire? presentimenti. Ora in treno… Ma lei ha letto il giornale».
Lafcadio: «Solo il titolo del fatto di cronaca».
Julius: «Stia a sentire, glielo leggo,» spiegò il Corriere davanti a sé. «Lo traduco:
«“La polizia, che stava effettuando attive ricerche lungo la strada ferrata fra Roma e Napoli, ha scoperto, questo pomeriggio, nel letto secco del Volturno, a cinque chilometri da Capua, il corpo della vittima a cui appartiene senza dubbio la giacca rinvenuta ieri sera in un vagone. È un uomo d’aspetto modesto, d’una cinquantina d’anni circa”. Pareva più vecchio di quanto fosse. “Non è stato trovato su lui alcun documento che permettesse di stabilire la sua identità.” Questo mi dà fortunatamente il tempo di respirare. “Secondo le apparenze è stato proiettato molto violentemente dal vagone, poiché è passato al di sopra del parapetto del ponte che in quel punto è in riparazione e sostituito da qualche trave.” Che stile! “Il ponte è elevato di circa quindici metri sul livello del fiume; la morte deve essere stata susseguente alla caduta, poiché il corpo non reca traccia di ferite. È in maniche di camicia; al polso destro un polsino, simile a quello che è stato rinvenuto nel vagone, ma privo di gemello”… Che ha?» Julius si fermò: Lafcadio non aveva potuto reprimere un sussulto, poiché gli era balenata l’idea che il gemello fosse stato asportato dopo il delitto. Julius riprese: «“La sua mano sinistra è rimasta contratta su un cappello di feltro moscio…”».
«Di feltro moscio! Gli zoticoni!» mormorò Lafcadio.
Julius levò il naso dal giornale.
«Che cosa la meraviglia tanto?»
«Nulla, nulla! Continui.»
«“… di feltro moscio, troppo largo per la sua testa e che pare essere piuttosto quello dell’aggressore; l’indicazione del negozio in cui il cappello fu acquistato è stata accuratamente tagliata dal marocchino della fodera, di cui manca un pezzetto delle dimensioni e della forma d’una foglia d’alloro”»…
Lafcadio si alzò, si chinò dietro a Julius per leggere sulla sua spalla e forse per nascondere il proprio pallore. Non poteva nutrir più dubbi ormai: il delitto aveva subito dei ritocchi; qualcuno era passato di là, aveva tagliato quel pezzo di fodera; senza dubbio, lo sconosciuto che s’era impadronito della valigia.
Julius intanto continuava:
«“… cosa che sembra indicare la premeditazione di questo delitto.” Perché precisamente di questo delitto? Forse il mio eroe aveva preso queste preoccupazioni per poter approfittare della prima occasione… “Sùbito dopo le constatazioni di legge, il cadavere è stato trasportato a Napoli per consentirne l’identificazione.” So che laggiù hanno il modo e l’abitudine di conservare molto a lungo i cadaveri».
«È sicuro che si tratti di suo cognato?» La voce di Lafcadio tremava un poco.
«Perbacco; l’attendevo stasera a cena.»
«Ha avvisato la polizia?»
«Non ancora. Prima ho bisogno di mettere un po’ d’ordine nelle idee. Essendo già in lutto, da questo lato almeno (intendo: quello del vestito), sono tranquillo; ma lei capisce che, appena il nome della vittima sarà di dominio pubblico, dovrò avvertire tutti i miei familiari, dovrò inviare telegrammi, scrivere lettere, dovrò occuparmi delle partecipazioni, del funerale e andare a Napoli per reclamare la salma che… Oh, mio caro Lafcadio, perché non accetterebbe, in considerazione del congresso a cui devo assolutamente partecipare, di recarsi, per procura, a reclamare il cadavere in vece mia?…»
«Parleremo di ciò fra poco.»
«Sempre che questo non l’impressioni troppo. Intanto, risparmio alla mia povera cognata qualche ora crudele; dalle vaghe notizie dei giornali, come potrebbe supporre?… Ritorno all’argomento: quando dunque ho letto il fatto di cronaca, mi son detto: “Questo delitto, che immagino così bene, che ricostruisco, che vedo: io conosco, proprio io, la ragione che l’ha fatto commettere, e so che, se non ci fosse stata l’esca dei seimila franchi, non sarebbe stato compiuto”»…
«Ma supponiamo tuttavia che…»
«Sì, vero? supponiamo per un momento che non ci fossero questi seimila franchi, o meglio che il criminale non li abbia presi: è il mio uomo, allora.»
Lafcadio intanto s’era alzato; aveva raccattato il giornale lasciato cadere da Julius, e l’aveva aperto a un’altra pagina.
«Vedo che lei non ha letto bene tutto: il criminale, precisamente, non ha preso i seimila franchi,» disse più freddamente che poté. «Tenga, legga»:
“Questo sembra indicare per lo meno che il movente del delitto non sarebbe da ricercarsi nella rapina”.
Julius afferrò il foglio che Lafcadio gli tendeva; lesse avidamente, poi si passò una mano sugli occhi; poi sedette; poi si rialzò bruscamente, si slanciò su Lafcadio, afferrandolo per le braccia.
«La rapina non è il movente!» gridò, come assalito dall’entusiasmo, squassava Lafcadio furiosamente. «La rapina non è il movente! Ma allora…» E respingeva Lafcadio, correva all’altra estremità della stanza, si faceva vento, si batteva la fronte, si soffiava il naso: «Allora so, perbacco, so perché quel bandito l’ha ammazzato… Ah, infelice amico! Ah povero Fleurissoire! Dunque quanto diceva era vero! E io che lo credevo un poco matto… Ma, allora, è spaventoso».
Lafcadio, stupitissimo, aspettava la fine della crisi; s’irritava un poco, gli pareva che Julius non avesse il diritto di sfuggirgli così.
«Io credevo appunto che lei…»
«Stia zitto: non sa nulla. E io che perdo il mio tempo con lei, con tutte queste ridicolaggini… Presto, il bastone, il cappello!»
«Dove sta correndo?»
«Ad avvertire la polizia, perbacco!»
Lafcadio si mise di traverso sulla soglia.
«Prima mi deve spiegare,» disse imperiosamente. «Parola d’onore si direbbe che lei sta ammattendo.»
«Poco fa ero matto. Ora mi desto dall’incoscienza… Ah, povero Fleurissoire! Ah, infelice amico! Santa vittima! La sua morte mi ferma a tempo sulla via dell’irriverenza, della bestemmia. Il suo sacrificio mi riconduce all’ovile. E io che ridevo di lui!…»
Aveva ripreso a andare su e giù; poi, fermandosi bruscamente e posando il bastone e il cappello vicino al flacone di colonia sul tavolo, si piantò davanti a Lafcadio:
«Lei vuol sapere perché quel bandito l’ha ammazzato?»
«Credevo che non ci fossero perché.»
E Julius, allora, furiosamente:
«Prima di tutto, non possono esistere crimini senza motivo. Si sono sbarazzati di lui perché conosceva un segreto… che m’aveva confidato, un grave segreto; e, d’altronde troppo grave per lui. Avevano paura di lui, capisce? Ecco… Oh, questo la farà ridere facilmente, lei così estraneo alle cose della fede». Poi, pallidissimo, raddrizzandosi: «Quel segreto, l’eredito io».
«Stia in guardia! È di lei che avranno paura adesso.»
«Vede bene che occorre avvertir la polizia.»
«Ancora una domanda,» disse Lafcadio, fermandolo nuovamente.
«No, mi lasci andare. Ho una terribile fretta. Quella sorveglianza continua, che tanto preoccupava il mio povero cognato, adesso, può esserne ben certo, è rivolta contro me. Lei non può credere quanto sia abile questa gente: sanno tutto, glielo dico io… Diventa sempre più opportuno ora che vada lei a reclamare il corpo al mio posto… Sorvegliato come sono, adesso, non so proprio che cosa potrebbe succedermi. Le domando questo come un favore, Lafcadio, mio caro amico.» Congiungeva le mani, implorava. «In questo momento non ho la testa a posto, ma m’informerò in questura, in modo di munirla di una procura in regola. Dove potrò fargliela avere?»
«Per maggiore comodità mi stabilirò in questo stesso albergo. A domani. Corra, presto.»
Lasciò che Julius s’allontanasse. Una gran nausea saliva in lui, quasi una specie di odio contro se stesso, contro Julius; contro tutto. Alzò le spalle, poi tirò fuori di tasca lo scontrino Cook a nome di Baraglioul che aveva preso dalla giacca di Fleurissoire, lo posò sul tavolo, in evidenza, vicino alla boccia di profumo; spense la luce e uscì.
IV
Nonostante tutte le precauzioni prese, nonostante tutte le raccomandazioni fatte alla polizia, Julius de Baraglioul non aveva potuto impedire ai giornali di divulgare i suoi legami di parentela con la vittima e di designare in tutte lettere l’albergo ove aveva preso alloggio.
Certo, la sera prima, aveva passato attimi di vera angoscia, quando, al ritorno dalla questura, verso mezzanotte, aveva trovato in camera sua, posto bene in evidenza, lo scontrino Cook a suo nome, di cui s’era servito Fleurissoire. Aveva immediatamente suonato il campanello ed era uscito nel corridoio, livido e tremante, incontro al cameriere che aveva pregato di guardare sotto il letto, perché lui non osava guardarci. Una specie d’inchiesta condotta seduta stante non approdò a alcun risultato; ma come fidarsi del personale dei grandi alberghi?… Tuttavia, dopo una notte di tranquillo riposo dietro una porta solidamente inchiavardata, Julius s’era svegliato in migliori condizioni d’animo; ora la polizia lo proteggeva. Scrisse molte lettere e telegrammi, che andò a portare in persona alla posta.
Quando rientrò, lo avvertirono che una signora aveva chiesto di lui; non aveva detto il nome, attendeva nel reading-room. Julius vi si recò e fu non poco stupito nel trovarsi di fronte Carola.
Non nella prima sala, ma in un’altra più appartata, più piccola e poco illuminata, s’era seduta di sbieco, presso un tavolinetto, e, per darsi un contegno, andava distrattamente sfogliando un album. Vedendo entrare Julius, si alzò, più confusa che sorridente. Il suo soprabito nero si apriva su un corpetto scuro, semplice, quasi di buon gusto; al contrario, il cappello, vistoso anche se nero, richiamava con troppa violenza l’attenzione.
«Mi giudicherà eccessivamente ardita, signor conte. Non so proprio come ho trovato il coraggio d’entrare nel suo albergo e di chieder di lei; ma ieri lei m’ha salutato con tanta gentilezza… E poi quello che debbo dirle è troppo importante.»
Restava in piedi, dietro il tavolino; fu Julius a avvicinarsi, le tese la mano al di sopra del tavolo, senza cerimonie.
«A che debbo il piacere della sua visita?»
Carola abbassò la fronte.
«So che lei è stato dolorosamente provato.»
Dapprima, Julius non capì; ma, quando Carola tirò fuori un fazzoletto e se lo passò sugli occhi, disse:
«Come? È una visita di condoglianza?»
«Conoscevo il signor Fleurissoire,» replicò lei.
«Bah!»
«Oh, non da molto tempo; ma gli volevo bene. Era così gentile, così buono… Ero stata io a regalargli quei gemelli da polsino; lei sa, quelli di cui parla il giornale; e questo m’ha permesso di identificarlo; ma non sapevo proprio che fosse il suo signor cognato. Son rimasta molto sorpresa e immagini quanto la cosa mi abbia fatto piacere… Oh, scusi… non volevo dir questo!»
«Non se la prenda, cara signorina, lei vuol dire, senza dubbio, che è contenta d’avere un’occasione di rivedermi.»
Senza rispondere, Carola nascose la faccia nel fazzoletto; qualche singhiozzo la scosse e Julius credette di doverle prendere la mano.
«Anch’io,» disse con tono tenero, «anch’io, cara signorina, creda pure che…»
«La mattina, prima che partisse, gli avevo ben detto di stare in guardia. Ma non era nella sua natura… Era troppo fiducioso, lei lo sa.»
«Un santo, signorina; era un santo,» disse Julius con slancio, tirando fuori a sua volta il fazzoletto.
«Lo avevo capito,» esclamò Carola. «La notte, quando credeva che io dormissi, si alzava, si metteva in ginocchio ai piedi del letto, e…»
Questa candida confessione finì col turbare Julius, che si rimise il fazzoletto in tasca e s’accostò maggiormente alla donna.
«Si tolga il cappello, cara signorina.»
«Grazie; ma non mi disturba.»
«Disturba me… Permetta…»
Ma, poiché Carola indietreggiava sensibilmente, egli riprese il controllo di se stesso.
«Mi permetta di farle una domanda: lei ha qualche particolare ragione per essere spaventata?»
«Io?»
«Sì, quando ha detto a mio cognato di stare in guardia, aveva qualche ragione di supporre?… Parli apertamente: nessuno viene mai qui la mattina, nessuno può sentirci. Sospetta di qualcuno?»
Carola abbassò la testa.
«Deve capire come ciò m’interessi particolarmente,» continuò Julius, loquacissimo, «e si metta nei miei panni. Ieri sera, rientrando dalla questura ove ero stato a fare la deposizione, ho trovato in camera mia, proprio al centro del tavolo, il biglietto ferroviario con cui aveva viaggiato quel poveraccio di Fleurissoire. Era intestato a mio nome; questi biglietti sono strettamente personali, si sa; avevo avuto il torto di prestarglielo; ma la questione non è qui… Nel fatto di riportarmi il biglietto, cinicamente, in camera, approfittando d’un istante in cui ero fuori, devo vedere una sfida, una fanfaronata, e un insulto che non mi turberebbe, questo si capisce, se non avessi le mie buone ragioni per credermi minacciato a mia volta, ed ecco perché: quel povero Fleurissoire, amico anche suo, era a parte di un segreto, un segreto abominevole, un segreto pericolosissimo, che non desideravo… che non volevo assolutamente sapere, e che lui aveva commesso l’incresciosa imprudenza di confidarmi. E ora le chiedo: colui che, pur di soffocare questo segreto, non ha avuto timore di arrivare sino al delitto… lei sa chi sia?»
«Si tranquillizzi, signor conte: ieri sera l’ho denunciato alla polizia.»
«Signorina Carola, non mi aspettavo meno da lei.»
«Mi aveva promesso di non fargli del male; doveva solo mantenere la sua promessa e io avrei mantenuto la mia. Ora ne ho abbastanza; faccia quel che vuole.»
Carola s’esaltava, Julius passò dietro il tavolo e, accostandosi nuovamente a lei:
«Forse staremo meglio in camera mia per parlare».
«Oh, signore,» disse Carola, «adesso le ho detto tutto quello che dovevo dirle; non vorrei disturbarla oltre.»
E, allontanandosi ancora, compì il giro del tavolino e si trovò presso la porta.
«Meglio che ci lasciamo ora, signorina,» disse con dignità Julius che pretendeva di prendersi il merito di quella resistenza. «Ah, volevo dirle anche questo: se avesse l’idea di venire al funerale dopodomani, è meglio che non dia a vedere di conoscermi.»
Con queste parole, si lasciarono, senza aver pronunciato il nome dell’insospettato Lafcadio.
V
Lafcadio riportava da Napoli le spoglie di Fleurissoire. Erano contenute in una vettura mortuaria agganciata in coda al treno. Lafcadio non aveva ritenuto indispensabile salirvi. Tuttavia, per decenza, aveva preso posto nello scompartimento di prima non proprio attiguo, perché l’ultimo vagone del treno era di seconda, ma almeno vicino alla salma. Partito la mattina da Roma, doveva rientrarvi la sera di quello stesso giorno. Si confessava malvolentieri il sentimento nuovo che gli aveva ben presto invaso l’animo, malvolentieri poiché di nulla si vergognava quanto della noia, quel male segreto da cui lo avevano preservato sino a quel giorno, prima i begli appetiti ribelli della gioventù, poi la grave necessità. Uscito dal proprio scompartimento, col cuore vuoto di speranza e di gioia, passeggiava da un capo all’altro della vettura, oppresso da una curiosità indecisa, cercando oscuramente qualcosa di nuovo e d’assurdo, senza saper cosa, da tentare. Tutto appariva insufficiente al suo desiderio: non pensava più a imbarcarsi, riconosceva a malincuore che il Borneo non l’attirava; non più del resto d’Italia: si disinteressava anche delle conseguenze della sua avventura; ormai questa gli appariva compromettente e ridicola. Se la prendeva con Fleurissoire perché non aveva saputo difendersi meglio: protestava contro quella pietosa figura, e avrebbe voluto cancellarla dalla mente.
Invece avrebbe rivisto volentieri l’omaccione che s’era impadronito della sua valigia; un vero burlone quello là!… E come se potesse sperare di rivederlo alla stazione di Capua, si sporse dal finestrino scrutando il marciapiedi deserto. Ma, poi, l’avrebbe saputo riconoscere? L’aveva visto solo di schiena, e già distante, mentre s’allontanava, nella penombra… Lo seguiva con l’immaginazione attraverso la notte: lo vedeva giungere al letto del Volturno, ritrovare l’orribile cadavere, depredarlo e, per una specie di bravata, tagliare dalla fodera del suo cappello quel pezzetto di cuoio “della forma e delle dimensioni d’una foglia d’alloro”, come dicevano elegantemente i giornali. Lafcadio, in definitiva, doveva essere molto riconoscente al ladro di aver sottratta alla polizia quella piccola prova contro di lui, l’indirizzo del fornitore. Senza dubbio, quel depredatore di morti, aveva tutto l’interesse, lui stesso, a non attirare l’attenzione; e, se avesse preteso, nonostante tutto, di trarre qualche profitto da quel pezzetto di cuoio – parola d’onore! – avrebbe potuto risultare divertente entrare in trattative con lui.
La notte adesso s’era chiusa intorno. Un cameriere della vettura ristorante, circolando da un capo all’altro del treno, venne a avvisare i viaggiatori di prima e di seconda classe che il pranzo era pronto. Senza appetito, ma almeno salvo dalla disoccupazone per almeno un’ora, Lafcadio s’incamminò dietro alcuni altri, ma piuttosto staccato da loro. Il ristorante si trovava in testa al treno. Le carrozze, attraverso le quali passava Lafcadio, erano vuote; qua e là alcuni oggetti disseminati sui sedili segnalavano e conservavano il posto di coloro che erano andati a mangiare: scialli, cuscini, libri, giornali. Una borsa da avvocato richiamò l’attenzione del giovanotto: certo d’esser l’ultimo, si fermò davanti allo scompartimento, poi entrò. Quella borsa, in fondo, non l’attirava; fu per scrupolo di coscienza che vi frugò.
Su un’etichetta posta all’interno, la borsa recava quest’indicazione in eleganti lettere d’oro:
DEFOUQUEBLIZE
Facoltà di Giurisprudenza di Bordeaux
La borsa conteneva due volumi di diritto penale e sei numeri della Gazette des Tribunaux.
“Ancora qualche bestione per il congresso. Puah!”, pensò Lafcadio che rimise tutto al suo posto, poi si affrettò a raggiungere la piccola fila dei passeggeri avviati al ristorante.
Un’esile bimba e la madre chiudevano la marcia, tutt’e due in gran lutto; le precedeva un signore in finanziera, cilindro, coi capelli lunghi e lisci e i favoriti grigiastri; secondo tutte le apparenze doveva trattarsi del signor Defouqueblize, il proprietario della borsa. Tutti avanzavano lentamente, titubando, agli scossoni del treno. All’ultimo gomito della vettura, mentre il professore stava per insinuarsi in quella specie di fisarmonica che unisce una vettura all’altra, una scossa più forte lo fece barcollare; per recuperare l’equilibrio compì un brusco movimento che gli fece cadere gli occhiali in un angolo dello stretto vestibolo formato dal corridoio davanti alla porta del gabinetto. Si chinò a cercar le sue lenti e la signora e la bimba passarono oltre. Lafcadio si divertì per qualche istante a osservare gli sforzi del professore; pietosamente scombussolato, metteva a caso le mani qua e là, a fior di terra; nuotava nell’astratto; la sua si sarebbe detta la danza informe di un plantigrado, o, in un improvviso ritorno d’infanzia, un tentativo di moscacieca: “Su, Lafcadio, un bel gesto! Cedi al tuo cuore che non è corrotto. Va’ in aiuto dell’infermo. Porgigli quel pezzo di vetro indispensabile; da solo non lo troverà mai: l’ha dietro le spalle. Ancora un passo e schiaccierà le lenti…”. In quel momento un nuovo scossone proiettò l’infelice a testa bassa contro la porta del gabinetto; il cilindro attenuò il colpo, sformandosi e calando sulle orecchie del malcapitato. Il signor Defouqueblize emise un gemito; si raddrizzò, si scoprì; Lafcadio intanto, ritenendo che la farsa fosse durata abbastanza, raccattò gli occhiali, li depositò nel cappello teso come quello d’un mendicante e poi scappò, evitando i ringraziamenti.
Il pranzo era cominciato. A fianco della porta vetrata, a destra, Lafcadio sedette a un tavolino imbandito per due; il posto davanti restava vuoto. A sinistra, alla sua stessa altezza, la vedova occupava con la figlia un tavolo di quattro coperti, di cui due restavano vuoti.
“Che noia regna in questi luoghi!”, si diceva Lafcadio, il cui sguardo indifferente scivolava sui convitati, senza trovarne uno a cui interessarsi. “Tutto questo gregge considera una monotona occupazione quel divertimento che, per chi sa prenderla, è la vita… Come sono mal vestiti! Ma come sarebbero brutti, nudi! Muoio prima della frutta se non ordino un po’ di sciampagna.”
Entrò il professore. Secondo le apparenze s’era appena lavate le mani, insudiciatesi nella ricerca delle lenti; si stava esaminando le unghie. Un cameriere lo fece sedere davanti a Lafcadio. Il cantiniere passava di tavolo in tavolo. Lafcadio, senza dire una parola indicò sulla carta un Montebello Grand-Crémant da venti lire, mentre il signor Defouqueblize chiedeva una bottiglia d’acqua di Saint-Galmier. Adesso, tenendo fra due dita gli occhiali, vi alitava piano piano sopra, poi, con un angolo del tovagliolo, lustrò le lenti. Lafcadio lo guardava, stupito da quegli occhi di talpa su cui battevano le grosse palpebre infiammate.
“Fortunatamente non sa che son stato io a rendergli la vista! Se comincia a ringraziarmi, cambio sùbito posto.”
Il cantiniere tornò con la Saint-Galmier e lo sciampagna, che stappò per primo e poi posò fra i due convitati. La bottiglia era appena sulla tavola che già Defouqueblize l’afferrava, senza distinguere quale fosse; se ne versò un bicchiere pieno che vuotò d’un fiato… Il cameriere stava facendo un gesto, ma Lafcadio lo trattenne ridendo.
«Oh, ma che ho bevuto?» esclamò Defouqueblize con una terribile smorfia.
«Il Montebello del suo signor vicino,» rispose il cantiniere con dignità. «Eccola, la sua acqua di Saint-Galmier. Prenda.»
E posò la seconda bottiglia.
«Ma sono desolato, signore… Ci vedo così male… Sono proprio confuso, creda…»
«Mi farebbe un vero piacere, signore,» lo interruppe Lafcadio, «se non cercasse neppure di scusarsi e invece accettasse un secondo bicchiere nel caso che il primo le sia piaciuto.»
«Ahimè, signore, le confesserò che l’ho trovato detestabile; e non capisco proprio come, nella mia distrazione, abbia potuto mandarne giù un bicchiere intero; avevo una tal sete… Mi dica, signore, la prego: è molto forte quel vino?… perché, le dirò… io bevo solo acqua… anche una sola goccia d’alcole mi dà infallibilmente alla testa… Mio Dio, mio Dio, che mi sta succedendo?… Se me ne tornassi immediatamente nello scompartimento?… Farei proprio bene a stendermi.»
Fece l’atto d’alzarsi.
«Rimanga, rimanga, caro signore,» disse Lafcadio che cominciava a divertirsi. «Al contrario farà bene a mangiare, senza preoccuparsi per il vino. La riaccompagnerò io alla sua vettura se avrà bisogno d’un sostegno; ma non tema: il poco vino che ha bevuto non ubriacherebbe neppure un bimbo.»
«Accetto l’augurio. Ma, veramente, non so come lei… Posso offrirle un poco d’acqua di Saint-Galmier?»
«La ringrazio molto; ma mi permetta di preferire il mio sciampagna.»
«Ah, veramente, si trattava di sciampagna! E… lei lo berrà tutto?»
«Per rassicurarla.»
«È troppo cortese, lei; ma al suo posto io…»
«Se lei mangiasse un po’,» lo interruppe Lafcadio, e, per suo conto, già mangiava. Defouqueblize cominciava a infastidirlo.
L’attenzione di Lafcadio ora si spostava sulla vedova.
Certo, un’italiana. Vedova d’un ufficiale, senza dubbio. Quanta dignità nei suoi gesti! Quale tenerezza nello sguardo! E com’era pura la fronte! Com’erano intelligenti le mani! Quanta eleganza nell’abbigliamento, pur così semplice… Lafcadio, quando non sentirai più nel tuo cuore l’armonia d’un simile accordo, possa il tuo cuore cessar di battere! La figlia somigliava alla madre; e da quale nobiltà, un poco seria e persino quasi triste, è temperato l’eccesso di grazia della piccola! Con quale sollecitudine la madre si china verso lei! Ah, davanti a creature simili il demonio stesso cederebbe; a tali creature, Lafcadio, il tuo cuore è pronto a votarsi.
In quel momento il cameriere passò a cambiare i piatti. Lafcadio lasciò che portasse via il suo ancora pieno a metà, poiché quanto stava vedendo lo riempiva d’improvviso stupore: la vedova, la delicata vedova, si chinava in fuori verso il passaggio, e, rialzando lestamente la gonna, con il movimento più naturale, scopriva una calza scarlatta e il più bel polpaccio del mondo.
Tanto inaspettatamente esplodeva nella grave sinfonia quella nota ardente… forse lui sognava? Intanto il cameriere portava una nuova pietanza. Lafcadio stava per servirsi; gli occhi gli si posarono di nuovo sul piatto, e quanto vide lo sbalordì.
Là, proprio davanti a lui, bene in vista, in mezzo al piatto, caduto da chi sa dove, orrendo e riconoscibile tra mille… non puoi aver dubbi, Lafcadio: c’è il gemello di Carola! Quello dei gemelli che mancava al secondo polsino di Fleurissoire. Tutto questo sa molto d’incubo… Ma il cameriere si china con la portata. Con rapidità, Lafcadio libera il piatto, facendo scivolare il volgare gioiello sulla tovaglia; e vi mette il piatto sopra, si serve abbondantemente, empie il bicchiere di sciampagna, lo vuota sùbito, e torna a riempirlo ancora. Poiché se prova già allucinazioni da ubriaco quando è sveglio e lucido… No, non si trattava di un’allucinazione; sente il bottone scricchiolare sotto il piatto; solleva il piatto, s’impadronisce del bottone; lo fa scivolare accanto all’orologio nel taschino del panciotto; lo tasta ancora, si assicura: il gemello è là, ben sicuro… Ma chi potrà dirgli come gli è capitato nel piatto? Chi ve l’ha messo? Lafcadio guarda Defouqueblize: il professore mangia innocentemente, a testa bassa. Lafcadio vuol pensare a qualcos’altro: guarda nuovamente la vedova; ma nel suo gestire, nel contegno tutto è ridiventato dignitoso, normale; adesso, però, la trova meno affascinante. Cerca d’immaginare nuovamente il gesto provocante, la calza rossa; non ci riesce più. Cerca di rivedere il gemello sul proprio piatto; e, se non lo sentisse lì nel taschino, avrebbe tutti i suoi dubbi… Ma, poi, perché l’ha preso quel bottone?… Che non è suo. In quel gesto istintivo, assurdo, quale confessione! Come s’è rivelato a colui, chiunque sia, forse uno della polizia, che certamente lo sta osservando, lo spia… C’è caduto, come un idiota, in questa trappola grossolana. Si sente sbiancare; si gira di colpo: nessuno dietro la porta a vetri… Ma, forse, poco fa qualcuno era là, lo guardava! Si forza a mangiare ancora; ma i denti gli si serrano per la stizza. Sciagurato! Non sta riampiangendo il terribile delitto, ma quel gesto malaccorto. Che ha adesso il professore per sorridergli?…
Defouqueblize aveva finito di mangiare. Si pulì le labbra, poi coi gomiti sul tavolo, spiegazzando nervosamente il tovagliolo, guardava Lafcadio: uno strano tic gli agitava le labbra; alla fine, come non riuscendo più a contenersi:
«Posso essere tanto ardito, signore, da chiedergliene ancora un goccio?»
E spinse, timorosamente, il proprio bicchiere verso la bottiglia semivuota. Lafcadio, distratto dalla propria inquietudine e veramente felice per la diversione, gli versò tutto quel che rimaneva.
«Non mi è possibile dargliene di più… Ma vuole che ne ordini ancora?»
«Allora credo che mezza bottiglia basterebbe.»
Defouqueblize, già sensibilmente sborniato, aveva perso ogni senso delle convenienze. Lafcadio, che non temeva il vino secco e che si divertiva all’ingenuità dell’altro, fece stappare una seconda bottiglia di Montebello.
«No, no, non me ne versi troppo!» diceva Defouqueblize, levando il tremolante bicchiere che Lafcadio finiva di riempire. «Strano che mi paresse tanto cattivo, prima! Si temono certe cose che non si conoscono. Semplicemente, credevo di bere acqua di Saint-Galmier, aveva un buffo gusto, lei mi capisce. È come se le versassero dell’acqua di Saint-Galmier, quando crede di bere sciampagna; anche lei dirà – non è vero –: “Come sciampagna ha un gusto proprio strano! no?”…»
Rideva alle proprie parole, poi si protendeva attraverso la tavola in direzione di Lafcadio, che pure rideva. Disse piano, piano:
«Non so perché rido in questo modo; certo la colpa è del suo vino. Temo che sia un poco più forte di quanto lei mi vuol far credere. Eh, eh, eh! Ma mi riaccompagna nella mia vettura, è inteso, vero? Saremo soli e, se io sarò un poco scorretto, lei ne sa la ragione.»
«In viaggio,» disse Lafcadio, «la cosa non ha importanza.»
«Ah! signore,» riprese subito l’altro, «quante cose si farebbero nella vita, se soltanto si potesse esser sicuri che quanto si fa non ha importanza, come lei dice giustamente! Se soltanto si potesse essere sicuri che non si è impegnati in questo modo…Veda per esempio quello che le sto dicendo, una cosa molto naturale, logica: crede che oserei parlare altrettanto francamente se soltanto fossimo a Bordeaux? Dico a Bordeaux, perché è a Bordeaux che abito. Vi sono conosciuto, rispettato; sebbene non ammogliato, vi conduco una vita tranquilla, esercito una professione stimata: professore alla facoltà di giurisprudenza; sì: criminologia comparata, una nuova cattedra… Capirà che laggiù io non ho il permesso – come dire? –, il permesso d’ubriacarmi, anche una sola volta, per caso: la mia vita deve essere rispettabile. Pensi se uno dei miei allievi m’incontrasse ubriaco per strada!… Rispettabile; e senza aver l’aria d’esserci costretto; questo è il punto; non bisogna dar motivo a pensare: il professor Defouqueblize (è il mio nome) fa molto bene a contenersi!… Non soltanto occorre non far nulla d’insolito, ma persuadere il prossimo che, anche se si possedesse ogni licenza, non si farebbe assolutamente nulla d’insolito; che in noi non è nulla d’insolito che chieda di manifestarsi. C’è ancora un poco di vino? Un goccio soltanto, mio caro complice, un goccio… Una simile occasione non s’incontra due volte nella vita. Domani, a Roma, a quel congresso che ci riunisce, incontrerò un’infinità di colleghi, seri, addomesticati, contegnosi, compassati come diventerò anch’io quando avrò indossato nuovamente la mia livrea. Le persone della buona società, come lei o come me, hanno l’obbligo verso se stesse di vivere contraffatte.»
Ormai il pranzo era alla fine; un cameriere passava raccogliendo il denaro dei conti e le mance.
Via via che la saletta si vuotava, la voce di Defouqueblize diventava più sonora; a momenti, gli scoppi di quella voce inquietavano Lafcadio. Quello continuava:
«E, quand’anche non fosse più la società a costringerci, basterebbe sempre quel gruppo di parenti e d’amici a cui non sappiamo rassegnarci a spiacere. Essi oppongono alla nostra incivile sincerità una nostra immagine, di cui siamo solo a metà responsabili, che ci somiglia molto poco, ma che è indecoroso, glielo assicuro, non rispettare. In questo momento, è un fatto: evado dalla mia immagine, evado da me stesso… O vertiginosa avventura! o perigliosa voluttà!… Ma le dò noia?»
«Lei m’interessa straordinariamente.»
«Parlo, parlo… Che vuole! anche ubriaco, resto sempre professore; e l’argomento mi sta a cuore… Ma, se ha finito di mangiare, forse vorrà offrirmi il suo appoggio per aiutarmi a arrivare al mio scompartimento sinché riesco a star su ancora. Temo, se indugio un poco di più qui, di non essere più in grado d’alzarmi.»
Defouqueblize, dopo queste parole, prese una specie di slancio per abbandonare la sedia, ma, ricadendo immediatamente e lasciandosi andare sul tavolino sparecchiato, il busto proiettato verso Lafcadio, riprese con voce tenera e quasi confidenziale:
«Ecco la mia tesi: sa che cosa ci vuole per fare dell’uomo onesto un furfante? Basta una distrazione, un po’ d’oblio! Sissignore: una falla nella memoria, e la sincerità viene alla luce!… Una soluzione di continuità; una semplice interruzione di corrente. Naturalmente io non vado affermando cose simili nelle mie lezioni… Ma, tra noi, che vantaggio per il bastardo! Pensi un po’: quello, la cui stessa vita è prodotto d’uno scarto, d’una deviazione dalla retta via».
La voce del professore s’era di nuovo alzata; egli fissava ora su Lafcadio certi strani occhi, il cui sguardo, vago e acuto, cominciava a inquietare l’interlocutore. Lafcadio si chiedeva adesso se la miopia di quell’uomo non fosse simulata; quasi gli pareva di riconoscere quello sguardo. Alla fine, più impacciato di quanto volesse ammettere, si alzò e disse ruvidamente:
«Su, mi prenda il braccio, professor Defouqueblize. Si alzi: basta con le chiacchiere!»
Defouqueblize abbandonò piuttosto malamente la propria sedia. Tutt’e due s’incamminarono, esitando, lungo il corridoio, verso lo scompartimento in cui era rimasta la borsa del professore. Defouqueblize entrò per primo; Lafcadio lo sistemò al posto e si congedò. Aveva appena girato la schiena per andarsene, quando su una spalla gli s’abbatté una forte manata. Si girò immediatamente. Con un balzo, Defouqueblize s’era tirato su… ma era ancora Defouqueblize? quel tale che con voce ironica, autoritaria e giubilante esclamava:
«Sarebbe male piantare così in fretta un amico, signor Lafcadio Nonsisapiùkì!… Ma come? È proprio vero? Lei voleva evadere?»
Del funambolesco professore ubriaco di poco prima non restava più nulla in quell’omaccione aggressivo e franco, in cui Lafcadio non esitò a riconoscere Protos. Un Protos ingrandito, allargato, potenziato che s’annunciava temibile.
«Ah, è lei, Protos,» disse semplicemente. «La preferisco così; non son riuscito a riconoscerla.»
Perché, per quanto terribile potesse essere, Lafcadio preferiva una realtà al grottesco incubo in cui si dibatteva da più di un’ora.
«Non ero camuffato male, vero?… Mi sono conciato così per lei… E, invece, gli occhiali dovrebbe portarli proprio lei, caro il mio giovanotto: finirà col passare dei guai se non riconosce un poco meglio i “sottili”.»
Quanti ricordi mal sopiti quella parola, “sottili”, suscitò nell’animo di Cadio! Un “sottile”, nel gergo di cui Protos e lui si servivano un tempo, quando erano ospiti dello stesso collegio, era un uomo che, per una qualsiasi ragione, non presentava a tutti ovunque la stessa faccia. Avevano anche stabilito con una particolare classifica numerose categorie di “sottili”, più o meno eleganti e commendevoli; a tutti replicava e s’opponeva l’unica grande famiglia dei “crostacei”, i cui rappresentanti si pavoneggiavano da cima a fondo della scala sociale.
I nostri due amici tenevano per ammessi questi assiomi: 1° i “sottili” si riconoscono tra loro; 2° i “crostacei” non riconoscono i “sottili”. Lafcadio ricordò sùbito tutto questo e, siccome era una di quelle nature che si prestano a ogni giuoco, sorrise. Protos riprese:
«Tuttavia, è stata una fortuna che mi trovassi là l’altro giorno, vero?… Non è stato forse proprio per caso; mi piace sorvegliare i novizi: son pieni d’immaginazione, d’intraprendenza, di civetteria… Ma credono troppo facilmente di poter fare a meno di consigli. Il suo lavoro aveva terribilmente bisogno di ritocchi, ragazzo mio!… Come si può aver l’idea di mettersi in testa una roba simile, quando si deve lavorare? Con l’indirizzo del fornitore su quel corpo del reato, sarebbe stato messo al fresco in una settimana. Ma io ho un vero affetto per i vecchi amici; e lo dimostro. Sa che le ho voluto molto bene, Cadio? Ho sempre pensato che avrei potuto far qualcosa per lei. Bello com’è, avrebbe potuto avere ai suoi piedi tutte le donne e ricattare, per giunta, più d’un uomo. Come son stato felice d’aver finalmente sue notizie e di sapere che veniva in Italia! Parola d’onore, avevo fretta di sapere che ne fosse stato di lei, da quando ci si frequentava presso quella nostra vecchia amica. È ancora un bell’uomo, sa! Ah, sapeva dove rivolgersi Carola!»
L’irritazione di Lafcadio diventava sempre più manifesta, come anche lo sforzo per contenerla; e tutto questo divertiva moltissimo Protos, che fingeva di non accorgersi di nulla. Aveva tirato fuori dal taschino del panciotto un pezzetto di cuoio e l’esaminava.
«L’ho tagliato bene, vero?»
Lafcadio avrebbe voluto strozzarlo; strinse i pugni e le unghie gli penetrarono nella carne. L’altro seguitava, ironico:
«Un servizietto a modo! Val bene i sei biglietti da mille… che lei deve proprio dirmi perché non s’è messo in tasca».
Lafcadio sussultò:
«Allora mi prende per un ladro?»
«Stia a sentire, piccolo,» riprese tranquillamente Protos, «non mi piacciono troppo i dilettanti; è meglio che glielo dica sùbito, con la massima schiettezza. E poi, con me, lei sa, non è proprio il caso di fare il fanfarone o l’imbecille. Lei mostra d’aver disposizione, d’accordo, una brillante disposizione, ma…»
«La smetta di prendere in giro,» lo interruppe Lafcadio che non riusciva più a contenere la collera. «Dove vuol arrivare? Mi son comportato da deficiente l’altro giorno; pensa proprio che abbia bisogno di sentirmelo dire da un altro? Sì, lei ha in mano un’arma contro di me: non voglio stare a considerare se sarebbe prudente per lei servirsene. Vuole che riscatti quel pezzetto di cuoio. Su, parli! Smetta di ridere e di guardarmi in quel modo. Vuole soldi. Quanti?»
Il suo tono era tanto deciso che Protos aveva compiuto un piccolo passo indietro; ma si riprese.
«Via, via!» disse. «Le ho detto forse qualcosa di scortese? Si discute fra amici, serenamente: nessuna ragione d’arrabbiarsi così! Parola d’onore, è troppo giovane, Cadio.»
Ma, siccome l’altro gli accarezzava un braccio, Lafcadio si svincolò con un sussulto.
«Sediamoci,» disse Protos, «si potrà parlar meglio.»
E si sprofondò in un angolo, vicino alla porta che dava sul corridoio; poi posò i piedi sul sedile davanti.
Lafcadio pensò che l’altro voleva così sbarrargli l’uscita. Senza dubbio, Protos era armato; lui, invece, non portava addosso nessun’arma. Rifletté che in un corpo a corpo avrebbe avuto sicuramente la peggio; poi, se anche per un istante aveva potuto desiderare la fuga, la curiosità già lo vincolava, quell’appassionata curiosità contro la quale nulla, neppure il pensiero della propria incolumità personale, aveva mai potuto spuntarla. E sedette.
«Soldi? Ma mi faccia il piacere!» disse Protos. Tirò fuori da un astuccio un sigaro, ne offrì uno a Lafcadio che rifiutò. «Forse il fumo le dà noia?… Ebbene, mi stia a sentire.» Tirò qualche boccata dal sigaro, poi, con la massima calma: «No, no, Lafcadio, amico mio, non voglio soldi da lei; ma ubbidienza. Mi pare che lei, ragazzo mio, – mi scusi la franchezza – non si renda ben conto della sua situazione. È meglio che la guardi in faccia arditamente; e mi permetta d’aiutarla.
«Dunque un adolescente ha voluto evadere da quelle cornici sociali che ci serrano; un adolescente simpatico: e proprio come piacciono a me; ingenuo e deliziosamente istintivo; poiché, suppongo, non ci ha pensato troppo… Mi ricordo, Lafcadio, come in altri tempi lei fosse ferratissimo con le cifre, ma non volesse mai fare i calcoli, quando si trattava delle sue spese personali… In breve, il regime dei “crostacei” la disgusta; lascio agli altri la pena di stupirsi di ciò… Ma io, invece, mi stupisco che, intelligente com’è, Cadio, abbia creduto di poter uscire dalla sua società tanto semplicemente, senza cadere nello stesso istante in braccio a un’altra, che abbia creduto che una società possa vivere senza leggi.
«Lawless, se ne ricorda? l’abbiamo letto da qualche parte: “Two hawks in the air, two fishes swimming in the sea not more lawless than we…”. Due falchi nell’aria, due pesci natanti nel mare non più liberi di noi da ogni legge… Che bella cosa la letteratura! Lafcadio, amico mio, impari la legge dei “sottili”.»
«Su, vuoti il sacco.»
«Perché tanta fretta? Ne abbiamo, di tempo, davanti a noi. Scendo solo a Roma. Lafcadio, amico mio, può capitare che un crimine sfugga alla polizia; voglio spiegarle perché noi siamo più furbi di loro: noi, è questo il fatto, noi ci giochiamo la vita. Dove la polizia fallisce, qualche volta riusciamo noi. Perbacco: lei l’ha voluto, Lafcadio; la cosa è fatta, ormai, e lei non può più scappare. Preferirei che m’ubbidisse, perché, vede, sarei veramente desolato di dover denunciare un vecchio amico alla polizia; ma che fare? Ormai il suo destino è in mano alla polizia, o a noi.»
«Denunciare me significa denunciare anche lei.»
«Speravo che si parlasse seriamente! Cerchi di mettersi in testa questo, Lafcadio: la polizia mette al fresco i ribelli; ma in Italia, volentieri, compone la vertenza coi “sottili”. “Compone la vertenza”: credo che siano le parole giuste. Io sono un po’ della polizia, ragazzo mio:tengo gli occhi aperti. Aiuto l’ordine costituito. Non agisco: faccio agire.
«Via, smetta di recalcitrare, Cadio! La mia legge non è poi così terribile. Lei esagera la portata di queste cose: è tanto ingenuo, tanto spontaneo! Pensa che non sia già stato una dimostrazione d’ubbidienza, perché così volevo io, l’atto con cui ha raccattato sul piatto, a tavola, il bottoncino della signorina Venitequa? Ah, gesto imprevidente: gesto idillico! Povero Lafcadio! S’è rimproverato – vero? – per quel piccolo gesto? Ed è brutto, per lei, che non sia stato io il solo a vederlo. Bah, non si agiti: il cameriere e la vedova e la piccola sono dei nostri. Adorabili. Dipende solo da lei di farsene degli amici. Lafcadio, amico mio, sia ragionevole; si sottometterà?»
Forse perché eccessivamente a disagio, Lafcadio aveva deciso di non parlare. Restava, col busto rigido, le labbra serrate, gli occhi fissi davanti a sé. Protos riprese, stringendosi nelle spalle:
«Buffo tipo! E, in realtà, così cedevole! Ma avrebbe già accettato, forse, se avessi cominciato col dirle che cosa ci aspettiamo da lei. Lafcadio, amico mio, mi tolga un dubbio: lei che ho lasciato tanto in miseria, come mai non ha preso quei sei biglietti da mille; le par naturale?… Il signor Baraglioul padre morì, m’ha detto la Venitequa, il giorno dopo che il conte Julius, suo degno figlio, s’era recato a farle visita; e la sera di quello stesso giorno lei piantò la Venitequa. Dopo, le sue relazioni col conte Julius son diventate, parola mia, molto intime; vuol spiegarmi perché?… Lafcadio, amico mio, in altri tempi ho conosciuto molti suoi zii; mi pare che da allora il suo pedigree si sia un poco imbaragliulato!… No, non si arrabbi; sto scherzando. Ma cosa vuole che si supponga? A meno, tuttavia, che lei non debba direttamente al signor Julius la sua presente fortuna; cosa che (mi permette di dirlo?), dato il suo fascino, Lafcadio, mi parrebbe un poco più scandalosa. In un modo o nell’altro, qualsiasi cosa ci lasci supporre, Lafcadio, amico mio, la faccenda è chiara: il suo dovere è fissato; lei ricatterà Julius. Non faccia così, si calmi! Il ricatto è una sana istituzione, necessaria al mantenimento dei costumi. Eh, come! se ne va?…»
Lafcadio s’era alzato.
«Oh, mi lasci passare, insomma!» gridò, scavalcando il corpo di Protos; e costui, sdraiato attraverso lo scompartimento, dall’uno all’altro sedile, non compì alcun gesto per fermarlo. Lafcadio, stupito di non esser trattenuto, aprì la porta del corridoio e, scostandosi, disse:
«Non scappo, non abbia paura. Mi può sorvegliare; ma, piuttosto che starla a sentire più a lungo… Mi scusi se le preferisco la polizia. Vada pure a informarla l’aspetto».
VI
Quello stesso giorno, il treno della sera portava a Roma da Milano gli Armand-Dubois; poiché viaggiavano in terza videro solo all’arrivo la contessa de Baraglioul e la figlia maggiore che avevano viaggiato nella vettura letto del medesimo treno.
Poche ore prima del telegramma contenente quell’annuncio di morte, la contessa aveva ricevuto una lettera dal marito; il conte vi parlava diffusamente del grande piacere provato durante il suo inopinato incontro con Lafcadio; in quella lettera non v’era, senza dubbio, la minima allusione a quella semifraternità che, agli occhi di Julius, ornava d’un tanto perfido fascino il giovanotto (Julius, fedele all’ordine del padre, non s’era spiegato con la moglie più apertamente di quanto avesse fatto con l’altro), ma certi accenni, certe reticenze avevano ugualmente messo in guardia la contessa; d’altra parte io non sono ben sicuro che Julius, al quale la monotonia della vita borghese precludeva i divertimenti, non si dilettasse a svolazzare intorno allo scandalo, bruciandosi la punta delle ali. E non sono neppure sicuro che la presenza a Roma di Lafcadio, la speranza di rincontrarlo non avessero contato in qualche modo nella decisione di Geneviève d’accompagnare laggiù la madre.
Julius era andato loro incontro alla stazione. Le condusse subito al “Grand-Hôtel”, dopo aver piantato quasi immediatamente gli Armand-Dubois che avrebbe ritrovato il giorno dopo, al funerale. Costoro si fecero condurre in via Bocca di Leone, allo stesso albergo in cui s’erano fermati durante il primo soggiorno romano.
Marguerite portava buone notizie al romanziere: l’elezione all’Accademia era cosa certa; due giorni prima il cardinale André l’aveva avvertita ufficiosamente: il candidato non avrebbe avuto neppur bisogno di ricominciare le visite di rito; l’Accademia gli andava incontro a porte aperte: era atteso.
«Vedi bene!» diceva Marguerite. «Che ti dicevo a Parigi? Ogni nodo viene al pettine: su questa terra bisogna sapere aspettare.»
«E non cambiare,» rispondeva con compunzione Julius portandosi la mano della moglie alle labbra e, senza notare come si caricasse di disprezzo lo sguardo appuntato su lui dalla figlia: «Fedele a lei, signora, ai miei ideali, ai miei principi: la perseveranza è la virtù più indispensabile.»
Già s’allontanavano da lui i ricordi di quel suo scarto pure così recente, e ogni pensiero meno che ortodosso, ogni desiderio meno che degno. Ora che sapeva, si riprendeva senza alcuno sforzo. E ammirava quella coerenza sottile che per un attimo aveva dirottato il suo spirito. Non lui era cambiato: ma il papa.
“Quanta costanza, invece, nel mio pensiero”, si diceva,“quale logica! Il difficile è sapere cosa si debba credere. Quel povero Fleurissoire è morto, per esser penetrato tra le quinte. La cosa più semplice, quando si è semplici, è stare a quel che si sa: l’orrendo segreto l’ha ammazzato. La conoscenza può fortificare solo i forti… Non importa: sono contento che Carola abbia potuto avvertire la polizia; questo mi permette di meditare con maggior agio… Tuttavia, se sapesse che la sua disgrazia e il suo esilio, non li deve al vero Santo Padre, quale consolazione ne proverebbe Armand-Dubois; quale incoraggiamento nella sua fede; che sollievo!… Domani, dopo il funerale, farò bene a parlargli.”
La cerimonia non attirò molta gente. Tre carrozze seguivano il carro funebre. Pioveva. Nella prima carrozza Blafaphas teneva amichevole compagnia ad Arnica (alla fine del lutto, la sposerà senza alcun dubbio); tutt’e due partiti da Pau due giorni prima (abbandonare la vedova al suo dolore, lasciarla intraprendere sola quel lungo viaggio, Blafaphas non poteva neppure pensarlo; e, d’altronde, pur non essendo della famiglia, aveva preso il lutto: quale parente poteva valere un simile amico?), ma arrivati a Roma appena da qualche ora per aver perso una coincidenza.
Nell’ultima carrozza aveva preso posto la signora Armand-Dubois con la contessa e la figlia; nella seconda, il conte con Anthime Armand-Dubois.
Sulla tomba di Fleurissoire non venne fatta alcuna allusione alla sua disgraziata avventura. Ma, al ritorno dal cimitero, Julius de Baraglioul, di nuovo solo con Anthime, cominciò:
«Le avevo promesso d’intercedere per lei presso il Santo Padre».
«Dio m’è testimone che non gliel’avevo chiesto.»
«È vero: colpito dall’abbandono in cui la lasciava la Chiesa, avevo ascoltato solo il mio cuore.»
«Dio m’è testimone che non me ne lamentavo.»
«Lo so, lo so! Mi ha già irritato abbastanza con la sua rassegnazione! E, giacché lei stesso mi spinge a tornare sull’argomento, le confesserò, caro il mio Anthime, che ci vedo meno santità che orgoglio, e che l’eccesso della sua rassegnazione, l’ultima volta che ci siamo visti a Milano, m’è parso molto più vicino alla ribellione che alla vera pietà, e mi ha grandemente disturbato nella mia fede. Dio non le chiedeva tanto, diavolo! Parliamoci chiaro: il suo atteggiamento m’ha offeso.»
«Il suo, posso dunque confessarglielo anch’io, mi ha rattristato, fratello mio. Non era forse lei che m’incitava alla ribellione, e…»
Julius, agitatissimo, l’interruppe:
«Ho abbastanza provato in me stesso e fatto capire agli altri in tutto il corso della mia carriera, che si può essere perfetti cristiani senza per questo rinunciare ai legittimi vantaggi offertiti dal ceto in cui Dio ha trovato saggio collocarci. E rimproveravo al suo atteggiamento proprio l’affettazione con cui pareva voler avvantaggiarsi sul mio».
«Dio m’è testimone che…»
«Ah, non protesti sempre!» lo interruppe di nuovo Julius. «Dio non ha nulla a che fare con questo. Le voglio spiegare bene: quando dico che il suo atteggiamento era vicinissimo alla ribellione, intendo… alla mia ribellione; e questo precisamente le rimprovero: di spingere, accentuando l’ingiustizia, un altro a ribellarsi per lei. Poiché non ammettevo, io, che la Chiesa fosse dalla parte del torto; e il suo atteggiamento, senza averne l’aria, ce la metteva proprio. Avevo dunque deciso di lamentarmi al suo posto. E lei sentirà quanto avessi ragione d’indignarmi.»
Julius, che aveva la fronte imperlata di sudore, posò sulle ginocchia il cilindro.
«Vuole che faccia entrare un po’ d’aria?» e Anthime, compiacentemente, abbassò il vetro dalla sua parte.
«Appena a Roma, dunque,» riprese Julius, «sollecitai un’udienza. Venni ricevuto. Un singolare successo doveva coronare il mio tentativo…»
«Ah!» disse con indifferenza Anthime.
«Sì, caro mio. Poiché, se materialmente non ottenni nulla di quanto ero andato a reclamare, ricavai da quella visita una certezza… che metteva il nostro Santo Padre al riparo da tutte le supposizioni ingiuriose che formulavano al suo riguardo.»
«Dio m’è testimone che non ho mai supposto nulla d’ingiurioso nei riguardi del nostro Santo Padre.»
«Supponevo io per lei. La vedevo danneggiato; m’indignavo.»
«Venga al fatto, Julius: ha visto il papa?»
«Ebbene, no: non ho visto il papa!» esplose alla fine Julius. «Ma mi sono impadronito d’un segreto; segreto dubbio dapprima, ma destinato a avere ben presto, con la morte del nostro caro Amédée, una conferma improvvisa; segreto spaventoso, sconcertante, ma in cui la sua fede, Anthime, saprà trovare un conforto. Poiché, infine, deve sapere che di tutte le ingiustizie che le son state fatte, il papa è innocente…»
«Eh, non ne ho mai dubitato.»
«Anthime, mi stia bene a sentire: io non ho visto il papa perché nessuno lo può vedere; colui che attualmente è assiso sul trono pontificio che la Chiesa ascolta, che promulga; colui che m’ha parlato, il papa che si può vedere in Vaticano, il papa che ho visto non è il vero papa.»
Anthime, a queste parole, fu scosso da una grande risata.
«Rida, rida!» riprese Julius, piccato. «Anch’io ne ridevo, dapprima. Avessi riso un po’ meno, non avrebbero ammazzato Fleurissoire. Ah, santo amico mio! tenera vittima!…» La sua voce spirò tra i singhiozzi.
«Mi dica, allora: è proprio seria questa sua favola?… Ma… però, però…» disse Armand-Dubois, inquieto davanti alla commozione di Julius. «Occorrerebbe cercar di sapere…»
«È per aver voluto sapere che lui è morto.»
«Perché, allora, se ho rinunciato ai miei beni, alla mia situazione, alla mia scienza, se ho lasciato che mi si giocasse…» continuava Anthime che s’andava a poco a poco montando a sua volta.
«Glielo ripeto: di tutto questo il vero papa non è responsabile; quello che l’ha ingannato è un emissario del Quirinale…»
«Debbo credere a quel che mi dice?»
«Se non crede a me, creda a quel povero martire.»
Tutt’e due restarono qualche istante in silenzio. Era smesso di piovere; un raggio di sole sbucava dalle nubi. La carrozza rientrava a Roma con lenti sobbalzi.
«In tal caso, so quanto mi resta da fare,» riprese Anthime, con la sua voce più ferma. «Li metto in piazza.»
Julius sussultò.
«Amico mio, lei mi spaventa. Così si farà senz’altro scomunicare.»
«Ma da chi? Se si tratta d’un falso papa, me ne infischio.»
«E io che pensavo d’aiutarla a gustare in questo segreto qualche virtù consolatrice,» disse Julius costernato.
«Scherza?… E chi mi assicura che Fleurissoire, arrivando in paradiso, non scopra che anche il suo buon Dio non è più quello vero?»
«Vediamo un po’, caro Anthime, lei divaga. Come se ce ne potessero essere due! come se ce ne potesse essere un altro.»
«No, ma lei può parlarne anche troppo comodamente, lei che per lui non ha rinunciato a nulla, lei a cui tutto va bene, vero o falso che sia lui… Oh, basta!… ho bisogno di prendere un po’ d’aria.»
Sporto fuori del finestrino, toccò con la punta del bastone la spalla del vetturino e fece arrestare la carrozza. Julius si preparava a scendere insieme con lui.
«No, mi lasci stare. Ne so abbastanza per decidere la mia condotta. Si tenga il resto per un romanzo. Quanto a me, questa sera stessa scrivo al gran Maestro dell’Ordine, e da domani riprendo le mie cronache scientifiche sulla Dépêche. Ci sarà proprio da ridere.»
«Come, zoppica!» esclamò Julius, sorpreso di vederlo di nuovo claudicante.
«Sì, da qualche giorno, m’hanno ripreso i dolori.»
«Ah, me la dica tutta!» disse Julius che, senza guardarlo allontanarsi, si rincantucciò nella carrozza.
VII
Protos aveva proprio l’intenzione di denunciare Lafcadio alla polizia come aveva minacciato?
Non so: gli avvenimenti, del resto, provarono come quei signori della polizia non fossero proprio tutti amici suoi. Costoro, informati il giorno prima da Carola, avevano preparato una trappola nel vicolo Vecchierelli; conoscevano da lungo tempo la casa e sapevano che offriva, al piano superiore, facili comunicazioni con la costruzione attigua, di cui sorvegliavano ugualmente le uscite.
Protos non temeva i questurini: le loro possibili accuse non gli facevano paura, né l’apparato della giustizia; sapeva di non poter essere facilmente battuto, poiché in realtà non era colpevole di alcun delitto, al massimo aveva a carico qualche piccolo reato, ma troppo piccolo per contare veramente. Dunque, non si spaventò molto quando comprese d’essere accerchiato, e lo comprese molto in fretta, avendo un fiuto particolare per riconoscere, comunque si cammuffassero, i questurini.
Appena un poco perplesso, si chiuse dapprima nella camera di Carola, aspettando il ritorno di costei che non aveva visto dopo l’assassinio di Fleurissoire; voleva chiederle consiglio e lasciarle qualche istruzione nel caso che l’avessero messo al fresco.
Carola, intanto, ubbidientissima ai desideri di Julius, non s’era fatta vedere al cimitero: nessuno s’era accorto che, nascosta dietro una tomba e sotto un ombrello, ella aveva assistito alla mesta cerimonia. Aspettò pazientemente, umilmente che i dintorni della tomba si spopolassero; vide riformarsi il corteo, Julius salire di nuovo in carrozza insieme con Anthime, e le carrozze allontanarsi sotto la pioggia sottile. Allora s’accostò a sua volta alla tomba, tirò fuori dallo scialle un grosso mazzo di crisantemi che posò, lontano dalle corone dei familiari; poi rimase a lungo sotto la pioggia, non guardando nulla, non pensando nulla, spargendo lacrime in mancanza di preghiere.
Quando tornò nel vicolo dei Vecchierelli, notò sùbito, sulla soglia, due figure insolite; ma non capì che la casa era sorvegliata. Aveva fretta di raggiungere Protos: certa che lui fosse l’assassino, ora lo odiava…
Qualche istante più tardi la polizia accorreva alle sue grida; troppo tardi, ahimè! Esasperato dal sapersi denunciato da lei, Protos aveva strozzato Carola.
Questo succedeva verso mezzogiorno. I giornali della sera pubblicavano già la notizia e, poiché era stato trovato addosso a Protos anche quel famoso pezzetto di cuoio, si fu sicuri che lui avesse compiuto tutt’e due i delitti.
Intanto, Lafcadio aveva vissuto sino a quella sera in un’attesa, un’angoscia vaga, non tanto dell’arresto minacciatogli da Protos, ma di Protos stesso o di qualcosa, comunque, contro cui non cercava neppure più di difendersi. Un incomprensibile torpore pesava su lui, forse era solo un prodotto della stanchezza: s’abbandonava.
Il giorno prima aveva rivisto Julius solo per un istante, quando costui, all’arrivo del treno di Napoli, s’era recato a prender possesso del cadavere; poi aveva camminato a lungo per la città, a caso, per calmare quell’esasperazione che, dopo quel colloquio in treno, la consapevolezza della propria schiavitù gli aveva fatto nascer dentro.
E tuttavia la notizia dell’arresto di Protos non apportò a Lafcadio il sollievo desiderato: lo si sarebbe detto deluso. Strano essere! Come aveva rinunciato a ogni profitto materiale del proprio delitto, così non si adattava a rinunciare ad alcuno dei rischi della partita. Non ammetteva che fosse finita tanto presto: volentieri, come faceva in altri tempi giocando agli scacchi, avrebbe regalato la torre all’avversario, e, come se quanto era accaduto gli rendesse improvvisamente la vittoria troppo facile e tutto il suo giuoco troppo poco interessante, sentiva di non potere avere più pace se non spingeva oltre la sfida.
Pranzò in una trattoria vicina all’albergo per non doversi cambiar d’abito. Sùbito dopo, rientrando in albergo, vide, attraverso la porta a vetri del ristorante, il conte Julius seduto a tavola insieme con la moglie e la figlia. Fu colpito dalla bellezza di Geneviève che non aveva più rivista dalla prima visita in casa Baraglioul. Attendeva nel fumoir che il pranzo fosse finito, quando vennero a avvertirlo che il conte era risalito in camera e lo aspettava.
Entrò. Julius de Baraglioul era solo; s’era messo di nuovo in vestaglia.
«Ebbene; l’assassino è preso,» disse immediatamente tendendogli la mano.
Ma Lafcadio non la strinse. Restava sulla porta.
«Quale assassino?» chiese.
«L’assassino di mio cognato, perbacco!»
«L’assassino di suo cognato sono io.»
Lo disse senza tremare, senza cambiar tono, senza abbassare la voce, senza un gesto, così naturalmente che Julius dapprima non capì. Lafcadio dovette ripetere.
«Non hanno arrestato, le assicuro, l’assassino del suo signor cognato, per la semplice ragione che l’assassino del suo signor cognato sono io.»
Se Lafcadio avesse avuto un aspetto feroce, forse Julius si sarebbe spaventato; ma la sua aria era infantile. Pareva anche più giovane della prima volta che Julius l’aveva incontrato; il suo sguardo era così limpido, la voce così chiara. Aveva chiuso la porta, ma restava appoggiato al legno.
Julius, vicino al tavolino, si lasciò cadere in una poltrona.
«Mio povero ragazzo,» disse dapprima, «parli più piano… Che l’ha preso? Come avrebbe potuto fare una cosa simile?»
Lafcadio abbassò la testa, già rimpiangendo d’aver parlato.
«E chi lo sa? Ho fatto molto in fretta, mentre avevo voglia di farlo.»
«E che aveva contro Fleurissoire, quel degno uomo pieno di tante virtù?»
«Non lo so… Non aveva l’aria felice… Come vuole che le spieghi quello che non so spiegare a me stesso?»
Un penoso silenzio aumentava fra i due, e le loro parole lo rompevano a raffiche, poi si riformava più profondo; si sentivano allora le note d’una volgare canzone napoletana salire dall’ampia hall del “Grand Hôtel”. Julius grattava con la punta dell’unghia del mignolo, molto a punta e molto lunga, una piccola macchia di cera sul tappeto del tavolo. D’improvviso s’accorse che quella sua bell’unghia era rotta: v’era un’incrinatura trasversale che spiccava in tutta la sua estensione sul tono incarnato della sostanza cornea. Come se l’era rotta? E come mai non se n’era accorto sùbito? A ogni modo il male era irreparabile; Julius poteva solo tagliarla. Provò una contrarietà molto viva, poiché aveva gran cura delle proprie mani e particolarmente di quell’unghia che aveva formato lentamente e metteva in valore il dito di cui aumentava l’eleganza. Le forbici erano nel cassetto del tavolino da toletta, e Julius stava per alzarsi e andarle a prendere; ma avrebbe dovuto passare davanti a Lafcadio; pieno di tatto, rimandò a più tardi la delicata operazione.
«E… che conta di fare ora?» chiese.
«Non so: forse di costituirmi. Mi concedo questa notte per riflettere.»
Julius lasciò ricadere il braccio contro la poltrona; osservò per qualche istante Lafcadio, poi con tono scoraggiato, sospirò:
«E io che cominciavo a volerle bene!…»
L’aveva detto senza cattive intenzioni. Lafcadio non poteva ingannarsi. Ma, per quanto inconsapevole, questa frase non era meno crudele e lo colpì al cuore. Rialzò la testa, irrigidito contro l’angoscia che improvvisamente s’impadroniva di lui. Guardò Julius: “proprio di costui ieri mi sentivo quasi fratello?”, si diceva. Girò lo sguardo nella stanza dove, il giorno prima, nonostante il delitto, aveva potuto parlare tanto allegramente; la boccia di colonia era ancora sul tavolo, quasi vuota.
«Mi ascolti, Lafcadio,» riprese Julius: «la sua situazione non mi pare affatto disperata. Il presunto autore del delitto…»
«Sì, lo so, che l’hanno arrestato,» lo interruppe Lafcadio seccamente: «Mi sta per consigliare di lasciar accusare un innocente al mio posto?»
«Colui che lei chiama un innocente, ha ammazzato una donna; una donna che lei conosce…»
«E questo dovrebbe tranquillizzarmi, vero?…»
«Non dico precisamente, ma…»
«Aggiungiamo che solo lui può denunciarmi.»
«Vede bene che non è proprio tutto perduto.»
Julius s’alzò, andò alla finestra, aggiustò le pieghe della tenda, tornò sui propri passi, poi, chino in avanti, le braccia incrociate sullo schienale della poltrona che aveva appena lasciato, disse:
«Lafcadio, non vorrei lasciarla andar via, senza un consiglio: dipende solo da lei, ne sono più che sicuro, ridiventare un uomo onesto, riprendere il suo posto nella società; almeno per quanto la nascita le permette… La Chiesa è pronta ad aiutarla. Su, ragazzo mio, un poco di coraggio: vada a confessarsi.»
Lafcadio non poté trattenere un sorriso:
«Rifletterò sulle sue gentili parole». Fece un passo avanti: «Senza dubbio, preferirà non toccare la mano d’un assassino. Vorrei tuttavia ringraziarla per la sua…»
«Va bene! va bene!» disse Julius, con un gesto cordiale e distante. «Addio, ragazzo. Non oso dirle “arrivederci”. Tuttavia se, in séguito, lei…»
«Per il momento non ha più nulla da dirmi?»
«Più nulla per il momento.»
«Addio, signore.»
Lafcadio salutò solennemente e uscì.
Tornò in camera, al piano di sopra. Si svestì a metà, si buttò sul letto. La fine della giornata era stata molto calda; la notte non aveva portato il fresco. La finestra era spalancata, ma neppure un alito di vento muoveva l’aria; i lontani globi elettrici di piazza Termini, da cui lo separavano i giardini, riempivano la camera d’una luce azzurrina e diffusa che si sarebbe potuta scambiare per quella della luna. Voleva riflettere, ma uno strano languore gl’intorpidiva disperatamente la mente; non pensava al delitto né al modo di evitarne le conseguenze, cercava solo di non udire più quelle atroci parole di Julius: “E io che cominciavo a volerle bene”… Se anche lui non avesse voluto bene a Julius, quelle parole avrebbero mai potuto meritare le sue lacrime? E piangeva proprio per questo?… La notte era così dolce, gli pareva che sarebbe bastato abbandonarsi per morire. Prese una caraffa d’acqua che era sul comodino, v’inzuppò un fazzoletto e se l’applicò sul cuore che gli faceva male.
“Nulla al mondo potrà ormai rinfrescare questo cuore arido”, si diceva, lasciando che le lacrime gli colassero sulle labbra per assaporarne l’amarezza. E alcuni versi cantavano al suo orecchio, letti chi sa dove e da tempo dimenticati:
My heart aches; a drowsy numbness pains
My senses…1
S’addormentò.
Sogna? Ma non ha forse sentito bussare alla porta? La porta che lui non chiude mai la notte, s’apre piano piano, lascia filtrare una fragile forma bianca. E lui si sente chiamar flebilmente:
«Lafcadio… È qui, Lafcadio?»
Nel dormiveglia, Lafcadio riconosceva quella voce. Ma dubita ancora, dunque, della realtà d’una apparizione tanto deliziosa? Teme che una parola, un gesto possa metterla in fuga?… Sta zitto, immobile.
Geneviève de Baraglioul, la cui camera era proprio accanto a quella del padre, aveva sentito, suo malgrado, tutto il colloquio tra il padre e Lafcadio. Un’insopportabile angoscia l’aveva sospinta sino alla camera di costui, e, poiché ora il suo appello restava senza risposta, credette che Lafcadio si fosse ammazzato e si buttò verso il capezzale, cadendo, singhiozzante, in ginocchio.
Mentre ella rimaneva in quella posizione, Lafcadio si tirò su, si chinò tutto sulla ragazza, senza tuttavia azzardarsi ancora a posare le labbra sulla bella fronte che vedeva risplendere nell’ombra. Geneviève de Baraglioul sentì allora la sua volontà cedere; ritraendo la fronte che già l’alito di Lafcadio accarezzava e non sapendo più chi, se non lui, potesse difenderla contro lui, disse:
«Abbi pietà di me, amico mio».
Lafcadio si riprese immediatamente e, staccandosi da lei e insieme respingendola, disse:
«Si alzi, signorina de Baraglioul. Se ne vada! Io non sono… non posso più essere suo amico».
Geneviève si rialzò, ma non si allontanò dal letto su cui restava semisdraiato colui che essa aveva creduto morto. Toccando con tenerezza la fronte ardente di Lafcadio, come per assicurarsi che viveva ancora, disse:
«Amico mio, ho sentito tutto quanto ha detto a mio padre. Non capisce che son venuta proprio per questo?»
Lafcadio, rialzandosi, la guardò. I capelli sciolti le ricadevano intorno; tutta la faccia era nell’ombra, così che a lui era impossibile distinguerne gli occhi, ma si sentiva avviluppare dal suo sguardo. Come se non potesse sopportarne la dolcezza, nascose la faccia tra le mani.
«Ah, perché l’ho incontrata così tardi?» gemette. «Che ho fatto perché lei mi ami? Perché mi parla così, quando ormai non sono più libero e degno d’amarla?»
Ella protestò con tristezza.
«È incontro a lei che vengo, Lafcadio, non incontro a un altro. Incontro al suo delitto. Lafcadio, quante volte ho sospirato il suo nome, dopo quel primo giorno in cui lei m’apparve come un eroe, persino troppo temerario… Lo deve sapere, adesso: in segreto m’ero promessa a lei dall’istante in cui la vidi offrire se stesso in modo tanto generoso. Che è dunque accaduto, dopo? È possibile che lei abbia ucciso qualcuno? Come s’è lasciato andare così in basso?»
E, poiché Lafcadio, senza rispondere, scuoteva la testa:
«Non ho sentito mio padre dire che un altro è stato arrestato?» riprese. «Un bandito che aveva appena ammazzato… Lafcadio, sinché c’è ancora tempo, scappi; questa notte, vada via! Vada lontano!»
Allora Lafcadio:
«Non posso più,» mormorò. E poiché i capelli fluenti di Geneviève gli sfioravano le mani, li afferrò, se li premette appassionatamente sugli occhi, sulle labbra. «Fuggire: è questo che mi consiglia? Ma dove vuole che scappi, ora? Anche se sfuggissi alla polizia, non potrei sfuggire a me stesso… E lei mi disprezzerebbe se scappassi.»
«Io! disprezzarla, amico mio…»
«Vivevo nell’incoscienza; ho ammazzato come in un sogno; un incubo in cui continuo a dibattermi…»
«E da cui voglio strapparla,» gridò lei.
«Perché svegliarmi, se devo svegliarmi criminale?» Le afferrò un braccio: «Non capisce che l’impunità mi fa orrore? Che mi resta da fare, ora, se non costituirmi, appena sarà giorno?»
«A Dio deve costituirsi, non agli uomini. Se mio padre non gliel’ha detto, glielo dirò io ora: Lafcadio, la Chiesa è pronta a prescriverle la pena e ad aiutarla a ritrovar la pace, di là dal suo pentimento.»
Geneviève ha ragione; e certo Lafcadio non ha di meglio di questa comoda sottomissione; se ne accorgerà presto o tardi, e le altre vie son tutte ostruite… È seccante che sia stato quel tonto di Julius a consigliargli per primo questa soluzione!
«Che lezione mi sta recitando,» dice con ostilità. «È proprio lei a parlare così?»
Lascia andare il braccio che stringeva; e, mentre Geneviève si stacca sente ingrandire in sé insieme con un oscuro rancore verso Julius, il bisogno di allontanare Geneviève dal padre, di trascinarla più giù, più vicina; abbassando gli occhi, vede, calzati da piccole pantofole di seta, i piedini nudi di lei. «Non capisce che io non temo il rimorso, ma…»
Ha lasciato il letto; si allontana da lei; va alla finestra aperta: soffoca; appoggia la fronte al vetro, mette le palme ardenti sul ferro freddo del balcone; vorrebbe dimenticare che lei è lì, che sono così vicini…
«Signorina de Baraglioul, lei ha fatto per un criminale tutto quanto una ragazza di buona famiglia può tentare; anche un po’ di più; la ringrazio di tutto cuore. Ora è meglio che mi lasci. Ritorni a suo padre, alle sue abitudini, ai suoi doveri… Addio. Chi sa se ci rivedremo. Pensi che, proprio per essere un po’ meno indegno dell’affetto che lei mi dimostra, proprio per questo, domani andrò a costituirmi. Pensi che… No, non mi s’avvicini… Crede che una stretta di mano mi basterebbe?»
Geneviève sarebbe disposta a sfidare il corruccio del padre, il disprezzo dell’opinione pubblica, ma davanti al tono gelido di Lafcadio, si sente vacillare il coraggio. Non ha dunque capito, Lafcadio, che, per venirgli a parlare così, questa notte, per fargli così la confessione del suo amore, ha dovuto essere risoluta e coraggiosa, e il suo amore vale di più d’un semplice “grazie”?… Ma come potrebbe dirgli che anche lei, sino a quel giorno, s’agitava come in un sogno – un sogno da cui riusciva a evadere qualche istante solo all’ospedale ove, tra quei poveri bimbi, curando le loro piaghe autentiche, le pareva di prender contatto, finalmente, con una realtà – un mediocre sogno in cui le si agitavano al fianco i genitori e si levavano tutte le convenzioni grottesche del loro mondo, senza che lei riuscisse a prendere sul serio i loro gesti, le opinioni, le ambizioni, i principi, persino le loro stesse persone? Che c’era di strano se Lafcadio non aveva potuto prendere sul serio Fleurissoire?… Ma possono separarsi così, loro due? L’amore la spinge, la getta verso di lui. Lafcadio l’afferra, la stringe, copre la sua pallida fronte di baci…
Qui comincia un nuovo libro.
O tangibile verità del desiderio! tu respingi nella penombra i fantasmi del mio spirito.
Lasceremo i nostri amanti, a quest’ora in cui canta il gallo, in cui il colore, il calore della vita trionfano finalmente sulla notte. Lafcadio si solleva su Geneviève addormentata. Tuttavia non contempla la bella faccia dell’amante, la fronte molle di sudore, le palpebre di madreperla, le calde labbra socchiuse, quel seno perfetto, quelle membra abbandonate, no, non contempla nulla di tutto questo, ma, attraverso la finestra spalancata, l’alba in cui freme un albero del giardino.
Ben presto, Geneviève dovrà lasciarlo; ma egli aspetta ancora; ascolta, chino su lei, attraverso il suo leggero respiro, l’incerto rumore della città che ormai si sveglia. Lontano, nelle caserme, cantano le trombe. Come! vuol rinunciare a vivere? e per la stima di Geneviève, ch’egli stima un po’ meno da quando lei lo ama un po’ di più, pensa ancora a costituirsi?
FINE
1 Il cuore mi duole: un sonnolento torpore affligge i miei sensi.