Appena faceva buio, si sedeva su una sedia sul balcone e guardava il piccolo parco per bambini dall’altra parte della strada. Era il principale compito giornaliero, il centro della sua vita. Che il cielo fosse sereno, nuvoloso, o che piovesse, era capace di proseguire per ore senza interruzione. All’inizio di ottobre, l’aria cominciava a farsi fredda. La sera Aomame si vestiva a piú strati, prendeva un plaid e beveva una cioccolata calda. Fino alle dieci e mezzo circa fissava lo scivolo, poi si immergeva a lungo nella vasca per riscaldarsi e infine andava a letto.

Naturalmente c’era la possibilità che Tengo andasse lí anche di giorno, con la luce del sole. Ma le sembrava improbabile. Era sicura che se fosse tornato nel parco, sarebbe stato dopo il tramonto, quando si accendevano i lampioni ai vapori di mercurio e la luna si stagliava nitida in cielo. Dopo aver consumato una rapida cena, Aomame si vestiva per essere pronta a correre fuori, si sistemava i capelli, e puntava lo sguardo sullo scivolo. Teneva sempre a portata di mano la pistola automatica e un piccolo binocolo Nikon. Per paura che Tengo arrivasse mentre lei era in bagno, a parte la cioccolata calda, evitava di bere altro.

Aomame continuava a guardare il parco ogni sera, senza un solo giorno di pausa. Lo osservava senza leggere libri né ascoltare musica, ignorando tutti i suoni che provenivano dall’esterno. Quasi non cambiava posizione. Il suo unico movimento consisteva, a volte, nel sollevare il viso, quando la notte era senza nuvole. Lanciava uno sguardo al cielo e si accertava che ci fossero ancora due lune. Poi tornava subito a fissare il parco. Lei guardava il parco, e le due lune guardavano lei.

Ma Tengo non si faceva vedere.

Non erano in molti a visitare il parco di notte. A volte intravedeva delle coppie. Si sedevano sulla panchina e si tenevano la mano, dandosi ogni tanto dei brevi baci nervosi, come uccellini. Ma il parco era troppo piccolo e troppo illuminato. Spesso, dopo avervi passato un po’ di tempo, gli innamorati, sentendosi a disagio, rinunciavano e si spostavano altrove. C’erano anche persone che arrivavano con l’intenzione di usare il gabinetto pubblico, ma quando scoprivano che la porta era chiusa a chiave se ne andavano deluse, o arrabbiate. Capitava talvolta un impiegato che, sulla via del ritorno a casa, si sedeva sulla panchina, immobile e con lo sguardo rivolto in basso, forse per smaltire una sbornia, oppure perché non aveva voglia di tornare subito a casa. C’era pure un vecchio solitario che di notte portava fuori il cane a passeggiare. Cane e padrone, ugualmente silenziosi, sembravano aver perso ogni speranza.

Per quasi tutta la notte nel parco non si vedeva anima viva. Non passava nemmeno un gatto. C’era solo la luce priva di calore del lampione ai vapori di mercurio che illuminava l’altalena, lo scivolo, la buca con la sabbia e il gabinetto chiuso a chiave. Guardando a lungo quella scena, a volte Aomame aveva la sensazione di essere stata abbandonata in un pianeta deserto. Come in quel film che descriveva il mondo dopo una guerra nucleare. Come si chiamava?

Ah, sí, L’ultima spiaggia.

Ciò nonostante, si concentrava e continuava a guardare il parco. Come un marinaio di vedetta che dall’albero maestro scruta il vasto mare cercando branchi di pesci o l’ombra sinistra di un periscopio, gli occhi attenti di Aomame vagavano alla ricerca di Kawana Tengo.

Poteva darsi che Tengo vivesse in un’altra parte della città, e che quella notte fosse stato in zona per puro caso. Se era cosí, le probabilità che tornasse si riducevano quasi a zero. Ma Aomame non lo credeva. La naturalezza che traspariva dai vestiti e dall’atteggiamento di Tengo, seduto in cima allo scivolo, le avevano dato l’impressione che fosse uscito per una breve passeggiata notturna nelle vicinanze di casa e che, trovandosi a passare vicino al parco, fosse entrato e salito sullo scivolo. Forse per guardare la luna. Se l’ipotesi era giusta, abitava a una distanza raggiungibile a piedi.

A Kōenji non era facile trovare posti dai quali si potesse guardare la luna. Il terreno era generalmente pianeggiante e gli edifici alti erano pochissimi. Lo scivolo offriva un’ottima postazione per contemplarla. Tranquilla, e al riparo dai seccatori. Se avesse avuto ancora voglia di guardare la luna, sicuramente Tengo ci sarebbe tornato. Aomame lo sentiva. Ma subito dopo pensava: «Non è detto che vada tutto cosí bene. Magari nel frattempo avrà trovato un altro posto, per esempio il terrazzo di uno dei rari palazzi alti, da cui la luna si può osservare meglio».

Aomame scosse brevemente, e con decisione, la testa. «Non devo fantasticare troppo. Non ho altra scelta se non credere che prima o poi tornerà qui, e aspettarlo. Non posso allontanarmi, questo parco è l’unico punto di contatto che ho con lui».

Aomame non aveva premuto il grilletto.

Era l’inizio di settembre. Lei, ferma in una piazzola d’emergenza sulla tangenziale n. 3 paralizzata dal traffico, si era ficcata in bocca la canna della Heckler & Koch nera. Indossava un tailleur di Junko Shimada e ai piedi calzava scarpe con i tacchi alti di Charles Jourdan.

Dagli abitacoli delle auto le persone la osservavano senza avere la minima idea di cosa stesse accadendo: una signora di mezza età su una Mercedes coupé color argento, uomini abbronzati la scrutavano dai sedili dei loro camion. Aomame aveva intenzione di farsi saltare il cervello sotto gli occhi di tutti con un proiettile da 9 mm. Non aveva altra scelta. Per uscire dal 1Q84 doveva porre fine alla propria vita. In cambio, quella di Tengo sarebbe stata salva. Questa, almeno, era stata la promessa del Leader a patto che lei gli donasse la morte.

L’idea di morire non la spaventava particolarmente. «Forse è stato stabilito nel momento stesso in cui sono stata trascinata in questo 1Q84. Non ho fatto altro che seguire una trama. Che senso avrebbe continuare a vivere da sola in un mondo dalla logica incomprensibile, che ha nel cielo due lune, una grande e una piccola, e dove degli esseri chiamati Little People governano il destino delle persone?»

Ma alla fine non aveva premuto il grilletto. All’ultimo momento lasciò andare la forza che aveva concentrato nell’indice della mano destra ed estrasse la canna della pistola dalla bocca. E, come chi è appena risalito a galla dal profondo del mare, inspirò ed espirò a pieni polmoni. Quasi volesse cambiare tutta l’aria che aveva dentro.

Aomame aveva rinunciato alla morte perché aveva udito una voce lontana. In quel momento lei si trovava in uno spazio senza suoni. Nell’attimo in cui aveva convogliato la forza sul dito che doveva premere il grilletto, ogni rumore intorno cessò di colpo. Era immersa nel silenzio, come nel fondo di una piscina. Lí la morte non appariva né cupa né spaventosa. Era qualcosa di naturale, come il liquido amniotico per il feto, e persino di ovvio. «Non è cosí male», pensò. E quasi le venne da sorridere. Fu allora che sentí la voce.

Le sembrò provenire da un luogo lontano, da un tempo remoto. Non era una voce che conosceva. Aveva percorso un cammino tortuoso, e per questo aveva perso il timbro e le caratteristiche originali. Restava solo un’eco vuota, priva di significato. Ciò nonostante, Aomame riuscí a percepire un calore venato di nostalgia. Le sembrò che quella voce chiamasse il suo nome.

Aomame allentò la forza dal dito che teneva il grilletto, socchiuse gli occhi e tese le orecchie. Si sforzò di distinguere le parole pronunciate dalla voce. Ma l’unica che riconosceva, o che le sembrava di riconoscere, era il suo nome. A parte quello, non c’era che una specie di ululato, come il vento che attraversa il vuoto. Poi la voce si allontanò, perdendo di nuovo ogni significato, riassorbita nello spazio senza suoni. Il vuoto che l’aveva avvolta si dissolse, e come se un tappo fosse stato tolto, tutti i rumori del mondo esterno ritornarono di colpo. Allora Aomame si accorse che la sua determinazione a morire era scomparsa.

«Chissà, forse potrei vedere di nuovo Tengo in quel piccolo parco, – pensò. – Posso sempre morire dopo. Prima voglio fare un altro tentativo. Vivere – non morire – significa anche la possibilità di incontrare Tengo».

Voglio vivere, pensò con chiarezza. Era una strana sensazione. Una sensazione che non ricordava di aver mai provato.

Disarmò il cane, mise la sicura e ripose la pistola automatica nella borsa. Poi raddrizzò la schiena, indossò gli occhiali da sole e si incamminò in direzione contraria al traffico, tornando al taxi che l’aveva accompagnata. Gli altri la guardavano attoniti mentre lei, sopra i tacchi a spillo, avanzava a grandi passi sulla tangenziale. Non ebbe bisogno di camminare a lungo. Il taxi si era spostato molto lentamente nell’ingorgo ed era arrivato vicino a dove si trovava lei.

Aomame bussò al finestrino dal lato dell’autista, che subito lo abbassò.

– Mi fa risalire?

Il tassista esitò.

– Quella cosa che si è infilata in bocca sembrava una pistola, – disse.

– Sí.

– È vera?

– Ma sta scherzando? – disse lei, storcendo la bocca.

L’autista aprí la portiera e lei salí in auto. Si tolse la borsa dalla spalla, l’appoggiò accanto a sé sul sedile e con un fazzoletto si pulí le labbra. Le era rimasto in bocca il sapore del metallo e dell’olio lubrificante.

– E la scala di emergenza, l’ha trovata? – chiese l’uomo.

Aomame scosse la testa.

– Come pensavo. Non ne ho mai sentito parlare, – disse l’autista. – Allora, la porto all’uscita di Ikejiri?

– Sí, per favore, – rispose Aomame.

L’autista abbassò il finestrino, sporse fuori il braccio e si spostò sulla corsia di destra, davanti a un grosso autobus. Il tassametro indicava la stessa cifra di quando lei era scesa.

Aomame si appoggiò al sedile e, respirando lentamente, lanciò un’occhiata all’insegna pubblicitaria, ormai familiare, della Esso. La tigre, di profilo, teneva il tubo della benzina nella zampa e sorrideva. «Metti un tigre nel motore», recitava lo slogan.

– Metti un tigre nel motore, – bisbigliò Aomame.

– Come dice? – chiese l’autista, guardandola attraverso lo specchietto retrovisore.

– Niente. Parlavo da sola.

«Proviamo a vivere ancora, – pensò. – Vediamo cosa succede. Per morire, sono sempre in tempo. Forse».

Quando, il giorno dopo aver rinunciato a spararsi, Aomame ricevette una telefonata da Tamaru, lo informò che i suoi piani erano cambiati. – Ho deciso di non spostarmi. Non cambierò nome e non mi sottoporrò all’intervento di chirurgia plastica.

Dall’altra parte della linea Tamaru tacque. La sua mente elaborò in silenzio diverse ipotesi.

– Vuoi dire che non intendi trasferirti?

– Esatto, – rispose concisa Aomame. – Voglio restare qui ancora un po’ di tempo.

– Quel posto non è un nascondiglio attrezzato per un lungo periodo.

– Se resto chiusa dentro casa senza uscire, non mi troveranno.

Tamaru disse:

– Faresti meglio a non sottovalutare quella gente. Faranno ogni indagine possibile, seguiranno le tue tracce. Altre persone collegate a te potrebbero essere coinvolte. In quel caso, metteresti nei guai anche me.

– Mi dispiace molto. Ma ho bisogno ancora di un po’ di tempo.

Ancora un po’ di tempo è un’espressione piuttosto vaga.

– Lo so, ma per il momento non posso dire altro.

Tamaru rifletté in silenzio per qualche istante. Aveva percepito dal tono della voce di Aomame quanto fosse determinata.

– Sono il tipo di persona che dà la precedenza al proprio dovere su ogni altra cosa. Quasi su ogni altra cosa. Penso che tu lo capisca, no?

– Credo di sí.

Tamaru restò di nuovo in silenzio. Quindi disse:

– Va bene. Ho voluto chiarirlo per evitare malintesi. Immagino che per tirar fuori un’idea simile, avrai le tue buone ragioni.

– Ho le mie buone ragioni, – ammise Aomame.

Dall’altro capo del telefono, Tamaru fece un colpo di tosse secco.

– Come sai, ho organizzato un piano per far perdere le tue tracce. Il trasferimento in un luogo sicuro, la plastica facciale, un nuovo nome: tutto è stato curato nei minimi dettagli. Diventerai, non dico completamente, ma quasi, un’altra persona. Pensavo che su questo fossimo d’accordo.

– Lo so. Non ho nessuna obiezione per il piano in sé. Ma sono accadute alcune cose che non avevo previsto. E per questo ho bisogno di restare ancora per un po’.

– Non posso risponderti con un sí o con un no. È una decisione che non dipende da me, – disse Tamaru. Poi si schiarí la gola. – Dovrai aspettare.

– Io sono sempre qui, – disse Aomame.

– Bene, – disse Tamaru. E riagganciò.

La mattina seguente, prima delle nove, il telefono squillò tre volte, tacque, quindi riprese a squillare. Poteva essere soltanto una persona.

Tamaru saltò i saluti e arrivò subito al nocciolo della questione.

– Riguardo alla tua idea, anche la signora è preoccupata. Il posto non è abbastanza sicuro. Può funzionare solo come rifugio temporaneo. Siamo del parere che sia meglio per te spostarti in un luogo protetto e lontano il piú presto possibile. Mi sono spiegato?

– Benissimo.

– Ma tu sei una persona calma e prudente. Non commetti errori stupidi, e sei dotata di sangue freddo. Abbiamo molta fiducia in te.

– Grazie.

– Se insisti per rimanere ancora un po’ di tempo, avrai le tue buone ragioni. Quali siano non lo sappiamo, ma di sicuro non si tratta di un semplice capriccio. Quindi la signora vorrebbe esaudire la tua richiesta, nei limiti del possibile.

Aomame ascoltò con attenzione, senza parlare.

Tamaru proseguí:

– Potrai restare fino alla fine dell’anno, non oltre.

– All’inizio del nuovo anno dovrò trasferirmi?

– È il massimo che possiamo fare per venirti incontro.

– Ho capito, – disse Aomame. – Rimarrò fino alla fine dell’anno, poi andrò via.

Aveva mentito. Non intendeva spostarsi nemmeno di un passo da quella casa, non prima di aver incontrato Tengo. Ma dirlo adesso avrebbe complicato le cose. Alla fine dell’anno mancava ancora tempo. Al dopo avrebbe pensato in un secondo momento.

– Bene, – disse Tamaru. – D’ora in poi ti porteremo provviste di cibo e prodotti di uso quotidiano. Ogni martedí gli incaricati dei rifornimenti verranno al tuo appartamento. Hanno la chiave, quindi entreranno senza bussare. Ma andranno solo in cucina, e non metteranno piede nelle altre stanze. Nel frattempo tu te ne starai chiusa in camera. Non devi farti vedere, non parlerai. Quando avranno finito, suoneranno il campanello d’ingresso. A quel punto, sarai libera di uscire dalla stanza. Se ci sono cose di cui hai bisogno, o che ti farebbe piacere avere, dimmelo adesso. Cosí te le farò portare con la prossima consegna.

– Ti sarei grata se riuscissi a farmi avere degli attrezzi per fare ginnastica in casa, in modo da tenere i muscoli allenati, – disse Aomame. – Senza macchinari i risultati sono scarsi.

– Scordati le apparecchiature professionali che si trovano in palestra. Ma se ti accontenti, posso procurarti qualcosa di non troppo ingombrante.

– Anche degli strumenti molto semplici vanno bene, – disse Aomame.

– Una cyclette e qualche attrezzo per tenerti in forma. Pensi che cosí possa andare?

– Sí, va bene. Poi, se possibile, vorrei una mazza da softball di metallo.

Tamaru restò in silenzio per alcuni secondi.

– Una mazza si può usare per diversi scopi, – disse Aomame. – Il solo fatto di averla a portata di mano mi rassicura. Perché ci sono cresciuta insieme.

– Ho capito. Vedrò di procurartela, – disse Tamaru. – Se ti vengono in mente altre cose, scrivile su un foglio di carta e lascialo sul tavolo della cucina. Te le farò avere con la consegna successiva.

– Grazie. Ma almeno per il momento non mi sembra di avere bisogno d’altro.

– Libri o videocassette?

– Non mi viene in mente niente di particolare.

– Che ne dici di Alla ricerca del tempo perduto di Proust? – disse Tamaru. – Se non l’hai fatto, sarebbe l’occasione adatta per leggerlo tutto.

– Tu l’hai letto?

– No. Non sono mai stato in prigione, e non ho mai dovuto nascondermi a lungo. Dicono che se non si hanno occasioni di questo tipo, è difficile leggerlo integralmente.

– Conosci qualcuno che l’ha letto dall’inizio alla fine?

– Fra i miei conoscenti non manca certo chi ha passato lunghi periodi in carcere; ma non erano tipi da interessarsi a Proust.

Aomame disse:

– Magari ci provo. Se riesci a trovarlo, mandamelo con la prossima consegna.

– A dire la verità, me lo sono già procurato, – disse Tamaru.

Il martedí, all’una precisa, arrivarono gli «incaricati dei rifornimenti». Seguendo le istruzioni di Tamaru, Aomame si nascose nella stanza da letto, chiuse a chiave la porta dall’interno e trattenne il respiro. Non aveva idea di chi fossero coloro che Tamaru chiamava gli «incaricati dei rifornimenti». Dal rumore intuí che erano in due, ma non sentí nessuna voce. Portarono dentro diversi pacchi e li sistemarono senza scambiarsi una sola parola. Lavarono il cibo sotto l’acqua del rubinetto, poi lo misero in frigorifero. Probabilmente già prima di arrivare si erano divisi i compiti. Li sentí disfare i pacchi, mettere insieme le scatole e la carta. Capí che stavano raccogliendo anche i rifiuti in cucina. Aomame non poteva portare la spazzatura al punto di raccolta in fondo alla scala. Qualcuno doveva farlo per lei.

I loro movimenti erano rapidi ed efficienti. Non facevano piú rumore del necessario, i passi erano silenziosi. Finirono in una ventina di minuti e uscirono dalla porta d’ingresso. Aomame sentí la chiave che veniva girata dall’esterno, poi lo squillo del campanello, il segnale convenuto. Per sicurezza, aspettò ancora circa quindici minuti. Quindi lasciò la camera, controllò che non ci fosse piú nessuno e inserí il chiavistello.

Il grande frigorifero conteneva provviste per una settimana. Questa volta c’erano soprattutto cibi freschi e non precotti da riscaldare al microonde. Diversi tipi di frutta e verdura. Carne e pesce. Tōfu, alghe wakame e nattō. Latte, formaggio e succo d’arancia. Una dozzina di uova. Per evitare sprechi superflui, ogni alimento era stato tirato fuori dalla confezione originale e abilmente avvolto nella pellicola trasparente. Sembrava conoscessero per filo e per segno di quali cibi era composta la dieta quotidiana di Aomame. «Come possono sapere una cosa del genere?» si chiese.

La cyclette era stata sistemata vicino alla finestra. Piccola ma di ottima qualità. Era dotata di un display che indicava velocità, distanza e consumo energetico. Volendo, si potevano monitorare le pedalate e il battito cardiaco minuto per minuto. C’era anche una panca per esercitare gli addominali, i dorsali e i deltoidi. Gli accessori erano molto facili da montare e smontare. Aomame conosceva bene il suo funzionamento. Era un modello recente e, sebbene di struttura semplice, dava buoni risultati. Con quei due macchinari la quantità necessaria di esercizio fisico era assicurata.

Una mazza da softball di metallo era ancora chiusa nella sua confezione. Aomame la tirò fuori e mimò piú volte il gesto della battuta. La mazza nuova, argentata, luccicante, fendé l’aria sibilando. Sentire tra le mani quel peso familiare, ebbe su di lei un effetto calmante. Le ricordò i tempi vissuti insieme a Ōtsuka Tamaki, quando ancora non aveva compiuto vent’anni.

Sul tavolo della cucina trovò uno sopra l’altro i volumi di Alla ricerca del tempo perduto. Non erano nuovi, ma sembrava che nessuno li avesse mai letti. Erano cinque, lei ne prese uno in mano e lo sfogliò rapidamente. C’erano pure delle riviste, settimanali e mensili, e cinque videocassette nuove, ancora sigillate. Non sapeva chi li avesse scelti, ma erano tutti film recenti. Poiché andava poco al cinema, i film che non aveva ancora visto erano molti.

La busta di un grande magazzino conteneva tre pullover nuovi: uno spesso, uno medio e uno sottile. Due robuste camicie di flanella e quattro T-shirt a maniche lunghe. Tutti i capi erano a tinta unita, semplici, e della taglia giusta. C’erano anche calzini pesanti e calzamaglie. Se doveva rimanere fino a dicembre, le avrebbero fatto comodo. Erano stati molto previdenti.

Aomame portò tutti gli indumenti nella stanza da letto, li sistemò nei cassetti e li appese nell’armadio. Tornò in cucina, e mentre beveva un caffè squillò il telefono. Tre squilli, pausa, un altro squillo.

– La roba ti è stata consegnata? – chiese Tamaru.

– Sí, grazie. Credo che ci sia tutto quello che mi serviva. Gli attrezzi per l’allenamento vanno piú che bene. Adesso non mi rimane che leggere Proust.

– Se abbiamo dimenticato qualcosa, dimmelo pure senza complimenti.

– D’accordo, – disse Aomame. – Ma credo che non manchi nulla.

Tamaru fece un colpetto di tosse.

– Non vorrei essere inopportuno… posso darti un consiglio?

– Certo, dimmi pure.

– Non è facile rimanere per molto tempo reclusi in uno spazio piccolo, da soli, senza incontrare o parlare con nessuno. Anche le persone piú forti rischiano di crollare. Soprattutto se c’è qualcuno che le sta inseguendo.

– Non è che finora abbia vissuto in una casa molto piú grande.

– Beh, questo potrebbe esserti di aiuto, – disse Tamaru. – In ogni caso è meglio che tu faccia attenzione. Quando una persona vive in uno stato di tensione costante rischia, senza rendersene conto, di ritrovarsi i nervi allentati come elastici. E una volta allentati, è difficile che riacquistino la forma originale.

– Cercherò di stare attenta.

– Penso di avertelo già detto, sei una persona prudente. Hai concretezza e pazienza. E non pecchi di esagerata fiducia in te stessa. Ma anche l’individuo piú accorto, se perde la concentrazione, è destinato a commettere uno o due errori. La solitudine diventa un acido che corrode le persone.

– Io non penso di essere sola, – replicò Aomame, rivolta per metà a Tamaru, per metà a se stessa. – Sto da sola, è vero, ma non sono sola.

Dall’altra parte del telefono calò il silenzio. Forse Tamaru stava riflettendo su quale fosse la differenza fra stare da soli ed essere soli.

– In ogni caso terrò alta la guardia. Grazie del consiglio, – disse Aomame.

– Vorrei che ricordassi una cosa, – disse Tamaru. – Noi, nei limiti del possibile, ti sosterremo. Ma la possibilità che accada un imprevisto, di che genere non lo so, e che tu debba affrontarlo senza il nostro aiuto, esiste. Anche se mi precipitassi in tuo soccorso, potrei non arrivare in tempo. Oppure, a seconda delle circostanze, potrei addirittura non accorrere. Per esempio, se si rendesse necessario per noi evitare ogni contatto con te.

– Capisco benissimo. In fondo, mi trovo in questa situazione perché l’ho voluto io. Cercherò di proteggermi da sola. Con la mazza metallica e con quella cosa che mi hai procurato.

– È un mondo duro, questo.

– Dove ci sono speranze, ci sono ostacoli, – disse Aomame.

Tamaru rimase di nuovo in silenzio per qualche istante. Poi proseguí:

– Hai mai sentito parlare del test finale a cui erano sottoposti i responsabili degli interrogatori nella polizia segreta di Stalin?

– No, non credo.

– Venivano fatti entrare in una stanza rettangolare, in cui c’era soltanto una piccola sedia di legno. Poi i superiori ordinavano: «Tirate fuori una confessione da quella sedia, e scrivete il verbale. Finché non lo avrete fatto, non uscirete da questa stanza».

– Una storia piuttosto surreale.

– No, niente affatto. È vera dall’inizio alla fine. Stalin ha davvero costruito un sistema cosí paranoico. Nel periodo in cui era al potere ha portato alla morte dieci milioni di persone. Quasi tutti connazionali. Noi viviamo realmente in un mondo come quello. Bisogna che tu te lo imprima molto bene in testa.

– Conosci un bel numero di storie che riscaldano il cuore.

– Non cosí tante, ma le tengo in serbo in caso di necessità. Non avendo ricevuto un’istruzione regolare, sono cresciuto facendo tesoro delle esperienze con cui mi sono confrontato. È proprio come dici tu: dove ci sono speranze, ci sono ostacoli. Ne sono convinto anch’io. Però le speranze sono poche e quasi sempre astratte, mentre gli ostacoli sono moltissimi, e quasi sempre concreti. Anche questa è una lezione che ho imparato sulla mia pelle.

– Ma alla fine gli aspiranti inquisitori che tipo di confessione riuscivano a estorcere alle sedie di legno?

– È una domanda sulla quale vale la pena di riflettere, – rispose Tamaru. – Come se fosse un kōan, un indovinello zen.

– Lo Zen secondo Stalin, – disse Aomame.

Tamaru attese qualche istante, poi riagganciò.

Il pomeriggio Aomame si allenò pedalando sulla cyclette e sollevando i pesi sdraiata sulla panca. Finalmente assaporò la dolce fatica che quegli esercizi richiedevano. Poi fece la doccia per lavare via il sudore. Ascoltando la radio in FM preparò qualcosa di semplice da mangiare. Guardò il telegiornale della sera (nessuna notizia catturò il suo interesse). Infine, quando fece buio, uscí sul balcone e si mise a guardare il parco. Con un plaid, il binocolo e la pistola. E la nuova mazza da softball tutta scintillante.

«Se Tengo non si farà vedere nel parco prima della fine dell’anno, passerò questo 1Q84 pieno di enigmi nella piú totale monotonia, in un angolo sperduto di Kōenji, – pensò Aomame. – Cucinando, allenandomi, ascoltando i notiziari e leggendo Proust aspetterò che Tengo si faccia vivo. L’attesa è ormai il tema centrale delle mie giornate, il filo sottile al quale è appesa la mia vita. Sono come il povero ragno che ho visto mentre scendevo la scala d’emergenza sulla tangenziale. Quel misero ragno nero tesseva la fragile tela in un punto della sudicia struttura d’acciaio e se ne stava lí, in attesa della preda. Colpita dal vento che passava tra i piloni, la ragnatela era sfilacciata e raccoglieva polvere. Vedendola, mi aveva fatto pena. Adesso mi trovo in una situazione molto simile».

«Devo procurarmi la cassetta con la Sinfonietta di Janáček. Ne ho bisogno mentre mi alleno. Quella musica mi lega a un luogo che non so definire. Ha il compito di trasmettermi qualcosa. La inserirò nella prossima lista».

Era ottobre, e mancavano meno di tre mesi allo scadere della proroga che le era stata concessa. L’orologio scandiva il tempo senza fermarsi. Lei, sprofondata nella sedia da giardino, continuava a guardare il parco e lo scivolo dalle fessure della protezione di plastica del balcone. Il lampione ai vapori di mercurio illuminava il piccolo parco per bambini di una pallida luce biancastra. Quella scena ricordava ad Aomame i corridoi di un acquario deserto di notte. Pesci invisibili, immaginari, nuotavano silenziosi tra gli alberi, senza dar segno di volersi fermare. Le due lune fluttuavano in cielo, reclamando che Aomame le notasse.

– Tengo, – mormorò Aomame. – Dove sei adesso?