In quel piccolo paese sulla costa, Tengo conduceva un’esistenza regolare. Aveva stabilito una routine e si sforzava il piú possibile di rispettarla. Lui stesso non sapeva perché, ma gli sembrava la cosa piú importante da fare. La mattina passeggiava, scriveva, andava all’ospedale, leggeva al padre in coma il libro che aveva portato con sé. La sera tornava alla pensione e andava a dormire. Le giornate si ripetevano monotone come i canti che accompagnano la coltivazione del riso.

Le serate, da calde all’improvviso divennero fredde. Ma il brusco cambiamento di stagione non influí sulla routine di Tengo, che ripeteva ogni giorno le stesse azioni. Si sforzava per quanto poteva di diventare un osservatore trasparente e neutrale. In silenzio, trattenendo il respiro e rendendosi invisibile, viveva nell’attesa di quel momento. La differenza tra un giorno e l’altro si faceva sempre piú labile. Passò una settimana, poi dieci giorni. Ma la crisalide d’aria non appariva. Quando, nel tardo pomeriggio, portavano il padre a fare gli accertamenti, nel letto rimaneva soltanto l’affossamento, penosamente piccolo, lasciato dal suo corpo.

«Sarà stato un episodio isolato? – si chiedeva Tengo, mordendosi le labbra, nella stanza che si colorava delle luci del tramonto. – Un’apparizione unica, che non si ripeterà piú? Oppure è stata un’allucinazione?» Ma nessuno rispondeva a quelle domande. Gli unici suoni erano il lontano urlo del mare e il soffio del vento che ogni tanto attraversava gli alberi.

Tengo non era sicuro di fare la cosa giusta. Forse in quella stanza d’ospedale, in quel paesino sul mare, lontano da Tōkyō e staccato dalla realtà, stava solo sprecando tempo inutilmente. Ma se anche fosse stato cosí, sentiva di non potersene andare. In quella stanza aveva visto la crisalide d’aria con Aomame bambina che dormiva avvolta in una fievole luce. L’aveva persino toccata. E se anche fosse stato un evento irripetibile, un’illusione effimera, fin quando gli era concesso voleva restare, ripercorrendo con l’immaginazione la scena a cui aveva assistito.

Quando capirono che Tengo si sarebbe trattenuto per qualche tempo, le infermiere cominciarono a trattarlo con maggiore familiarità. Durante le pause, chiacchieravano volentieri con lui, e se avevano un momento libero, andavano a trovarlo nella stanza portandogli magari del tè e qualche dolcetto. Due di loro, a turno, si occupavano del padre. Ōmura, quella sui trentacinque anni con la penna infilata nello chignon, e Adachi, la ragazza con le guance rosse e la coda di cavallo. Tamura, la donna di mezza età con gli occhiali dalla montatura dorata, di solito stava all’accettazione, ma quando c’era bisogno di una persona in piú, non si tirava indietro. Chissà perché, sembravano tutte avere un interesse personale per lui.

D’altro canto Tengo, a parte quell’ora speciale verso il tramonto, non sapeva come passare il tempo e si intratteneva con loro su vari argomenti. O meglio, rispondeva il piú francamente possibile alle domande che gli rivolgevano. Raccontò che era un insegnante di matematica in una scuola preparatoria e scriveva piccoli testi su commissione. Parlò del lavoro di suo padre, che aveva lavorato per molti anni come esattore per la NHK. Disse che da ragazzino aveva praticato il judo e durante il liceo era arrivato alle finali del torneo regionale. Non fece nessun cenno, però, ai dissapori che per tanto tempo avevano caratterizzato il suo rapporto con il padre. Né riferí che, sebbene gli avessero detto che sua madre era morta, lui sospettava che in realtà fosse scappata con un altro uomo, lasciandolo, ancora piccolo, solo con il padre. Tirar fuori quei discorsi avrebbe complicato le cose. Ovviamente, tacque sul fatto che aveva riscritto il best seller La crisalide d’aria, e non disse che in cielo vedeva due lune.

Anche loro parlarono delle proprie vite. Tutt’e tre erano nate in quella zona e finito il liceo avevano frequentato la scuola di specializzazione per diventare infermiere. Trovavano il lavoro all’istituto fondamentalmente monotono e noioso, e mal sopportavano gli orari lunghi e irregolari, però erano contente di stare vicino casa. Rispetto all’impiego in un ospedale generale, dove ogni giorno si aveva a che fare con persone che combattevano tra la vita e la morte, lo stress era inferiore. I vecchi perdevano la memoria lentamente, un poco alla volta, e si spegnevano con dolcezza, senza spargimento di sangue e sofferenze atroci. Non se ne accorgevano neppure. E poi non c’erano ambulanze che nel pieno della notte trasportavano pazienti con intorno familiari che piangevano e urlavano. Il costo della vita non era troppo caro, e con uno stipendio modesto come il loro potevano vivere con relativa agiatezza. Tamura, l’infermiera con gli occhiali, aveva perso il marito cinque anni prima in un incidente e viveva in un paese vicino con la madre. Ōmura, l’infermiera robusta con la penna infilata tra i capelli, aveva due maschietti e un marito che faceva l’autista di taxi. Adachi, la piú giovane, viveva insieme alla sorella parrucchiera, di tre anni piú grande, in un appartamento in affitto alla periferia del paese.

– Tengo, lei è veramente una brava persona, – disse Ōmura, cambiando la sacca della flebo. – In questo posto non c’è nessuno che viene tutti i giorni a leggere ad alta voce qualche pagina di un libro a un parente privo di coscienza.

Quelle lodi provocarono in Tengo un certo imbarazzo.

– Ho avuto la possibilità di prendere qualche giorno di ferie, tutto qui. Ma non posso restare a lungo.

– Guardi che gli altri familiari non vengono volentieri, nemmeno se hanno le ferie, – disse Ōmura. – Non dovrei dirlo, ma queste sono malattie senza nessuna speranza di guarigione. Con il passare del tempo, finiscono tutti per deprimersi.

– Qualche tempo fa, quando era ancora cosciente, è stato mio padre a chiedermi di leggergli un libro. E poi non c’è altro che io possa fare.

– Che cosa legge?

– Diverse cose. Mi limito a continuare ad alta voce il libro che sto leggendo per conto mio, partendo dal punto in cui sono arrivato.

– E oggi?

La mia Africa di Karen Blixen.

L’infermiera scosse la testa.

– Non l’ho mai sentito.

– È stato scritto nel 1937, l’autrice è danese. Karen Blixen sposò un aristocratico svedese e prima dell’inizio della Prima guerra mondiale si trasferirono in Africa, dove comprarono una piantagione. In seguito divorziarono e lei continuò a gestire la piantagione da sola. Il libro racconta questa esperienza.

L’infermiera misurò la temperatura del padre, la annotò sulla cartella clinica, quindi infilò la penna nello chignon. Poi si scostò i capelli dalla fronte.

– Posso rimanere a sentire mentre legge?

– Certo, ma non so se le piacerà, – disse Tengo.

La donna si sedette su uno sgabello e accavallò le gambe. Belle gambe, solide e robuste.

– Lei cominci pure, – disse.

Tengo iniziò, lentamente, partendo dal punto in cui era arrivato. Era un brano che andava letto cosí, con quel ritmo. Come il tempo che scorreva nel continente africano.

– In marzo, quando, dopo quattro mesi di caldo e di arsura, cominciano le grandi piogge, in Africa, la ricchezza della fioritura, il fresco e la fragranza che regnano ovunque tolgono il fiato.

Ma l’agricoltore sta in ansia, non osa fidarsi della generosità della natura, tende l’orecchio, temendo che il ruggito della pioggia si affievolisca. L’acqua che la terra sta bevendo deve nutrire la fattoria, con tutte le piante, le bestie e gli uomini, per quattro mesi di siccità.

È bello quando i sentieri fra i campi paiono diventati ruscelli, e l’agricoltore cammina a fatica nel fango, con il cuore traboccante di gioia, fra le piante di caffè fiorite e stillanti. Ma ecco che una sera, attraverso le nuvole diradate, compaiono le stelle; allora il colono esce di casa e fissa il cielo quasi volesse aggrapparvicisi e mungerne ancora pioggia. «Ancora, ancora, – grida al cielo. – Ora il mio cuore è nudo davanti a te, e non ti lascerò andare se non mi concedi la tua benedizione. Annegami se vuoi, ma non mi far morire per un capriccio. Non per “coitus interruptus”, cielo, cielo!»

Coitus interruptus! – esclamò l’infermiera corrugando la fronte.

– Sa, è una persona che parla senza peli sulla lingua.

– D’accordo, ma mi sembra un’espressione troppo cruda da usare quando uno si rivolge a Dio.

– Effettivamente, – convenne Tengo.

– Nei mesi dopo le piogge certi giorni freddi e incolori mi ricordavano la marka mbaya, la cattiva annata, la siccità. In quel triste periodo i kikuyu venivano a far pascolare le loro vacche intorno a casa mia; ogni tanto, in mezzo a loro, un ragazzo suonava un’arietta con il flauto. Tutte le volte che l’ho intesa, da allora, mi ha riportato alla mente ogni singolo istante dell’angoscia e della disperazione di questi giorni. Aveva il sapore amaro delle lacrime. Eppure, al tempo stesso, stranamente vi trovavo un vigore, una dolcezza inaspettata, un canto. C’era davvero, tutto questo, in quei tempi duri? Allora possedevamo giovinezza e irrefrenata speranza. In quei lunghi giorni eravamo divenuti una cosa sola: anche caduti su Marte ci saremmo riconosciuti e chiamati l’un l’altro per nome. L’orologio a cucú e i miei libri avrebbero detto alle vacche sparute sul prato e ai tristi vecchi kikuyu: «Anche voi c’eravate. Anche voi facevate parte della fattoria del Ngong». Quel momento doloroso ci concesse la sua benedizione e si allontanò.

– Un bel brano vivido, – disse l’infermiera. – Sembra quasi di vedere il paesaggio che descrive. La mia Africa di Karen Blixen, giusto?

– Esatto.

– Anche la sua voce mi è piaciuta. Profonda ed espressiva. Adatta per leggere ad alta voce.

– Grazie.

L’infermiera, sempre seduta sullo sgabello, chiuse per qualche istante gli occhi e respirò con calma. Come se stesse assorbendo la scia del brano appena ascoltato. Si vedeva, sotto l’uniforme bianca, il gonfiore del petto sollevarsi e abbassarsi al ritmo del respiro. Guardandola, a Tengo tornò in mente la sua amante quando, il venerdí pomeriggio, la spogliava e le toccava i capezzoli induriti con le dita. Il respiro caldo e profondo, il sesso umido. Dietro le tende della finestra scendeva silenziosa la pioggia. Lei gli soppesava sul palmo della mano i testicoli. Ma il ricordo di quei momenti non risvegliava in lui alcuna eccitazione sessuale. Tutte quelle immagini e sensazioni erano appannate, come coperte da una sottile membrana, e remote.

Dopo qualche istante l’infermiera aprí gli occhi e guardò Tengo. Dallo sguardo che gli rivolse, sembrava che avesse intuito i suoi pensieri. Ma non c’era in lei alcuna critica. Si alzò, con un lieve sorriso sulle labbra, e abbassò gli occhi verso di lui.

– Adesso devo andare, – disse, quindi si portò una mano ai capelli per verificare che la penna fosse al solito posto, si voltò rapidamente e uscí dalla stanza.

Verso sera, Tengo telefonava a Fukaeri. Ogni volta lei gli diceva che quel giorno non era successo niente di particolare. Il telefono era squillato ma lei, seguendo le sue raccomandazioni, non aveva risposto. «Brava, – diceva Tengo. – Lascia che squilli».

Avevano stabilito un codice. Quando Tengo la chiamava, faceva squillare tre volte, riagganciava e poi richiamava subito dopo. Ma la ragazza non riusciva a rispettare l’accordo. Capitava spesso che alzasse il ricevitore già dopo il primo squillo.

– Dovresti fare come avevamo stabilito, – la ammoniva lui.

– Non ti preoccupare, lo sapevo, – diceva lei.

– Vuoi dire che sapevi che ero io a chiamare?

– Quando chiamano gli altri non rispondo.

«Mah, può anche essere vero», pensava Tengo. Lui stesso riconosceva d’istinto le telefonate di Komatsu. Lo squillo aveva un tono impaziente e nervoso. Come se tamburellasse insistentemente con le dita sul tavolo. In ogni caso, per Tengo era al massimo un’intuizione. Non sollevava il ricevitore con la sicurezza assoluta che fosse proprio lui.

Le giornate di Fukaeri non erano meno monotone di quelle di Tengo. Se ne stava rintanata in casa, da sola, senza uscire. Nell’appartamento non c’era il televisore, e lei non leggeva. Non mangiava quasi niente. Per il momento, poteva evitare di uscire a fare la spesa.

– Non mi muovo, non ho tanto bisogno di mangiare, – disse Fukaeri.

– Che cosa fai ogni giorno tutta sola?

– Penso.

– A cosa pensi?

Non rispose alla domanda. Invece disse:

– Ogni tanto viene il corvo.

– Sí, viene una volta al giorno.

– Non una, ma piú volte, – corresse lei.

– Lo stesso corvo?

– Sí.

– Nessun’altra visita?

– È venuto di nuovo l’uomo della NHK.

– Lo stesso dell’altro giorno?

– Gridava: «Il signor Kawana è un ladro».

– Ha urlato cosí davanti alla porta?

– In modo che sentissero tutti.

Tengo provò a riflettere.

– Stai tranquilla, è una cosa che non ti riguarda. Comunque non può farti niente.

– Ha detto: «So che si nasconde lí dentro».

– Non preoccuparti, – disse Tengo. – Lui non sa niente. Parla a vanvera, solo per intimorire. A volte gli esattori della NHK usano questo sistema.

Tengo aveva visto il padre ricorrere piú volte allo stesso metodo. Ricordava la sua voce che risuonava malevola lungo i corridoi di un condominio, la domenica pomeriggio. Parole minacciose, sarcastiche. Tengo si premette leggermente le tempie con la punta delle dita. I ricordi si risvegliarono carichi di tutti i loro pesanti accessori.

Fukaeri, come se in quel silenzio avesse percepito qualcosa, chiese:

– Stai bene?

– Sto bene. Lascialo perdere, l’uomo della NHK.

– Anche il corvo lo ha detto.

– Bene, – disse Tengo.

Da quando aveva visto le due lune e la crisalide d’aria, ormai non si stupiva piú di nulla. Che problema c’era se ogni giorno Fukaeri scambiava opinioni con un corvo sul davanzale della finestra?

– Credo che resterò qui ancora un po’. Non posso tornare a Tōkyō. Ti dispiace?

– Resta finché vuoi, – disse Fukaeri. Poi, senza dargli il tempo di aggiungere altro, riagganciò. La conversazione si interruppe di colpo. Come se qualcuno avesse reciso il filo del telefono con un’accetta affilata.

Tengo fece il numero della casa editrice di Komatsu, ma non lo trovò. Gli dissero che verso l’una si era fatto vedere un momento, ma poi se n’era andato senza dire dove. Non sapevano quando sarebbe tornato. Niente di insolito. Tengo lasciò il numero dell’istituto perché Komatsu lo richiamasse. Precisò che da mezzogiorno in poi lo avrebbe trovato lí. Se avesse dato il numero dell’albergo, e Komatsu avesse chiamato in piena notte, sarebbe stato un problema.

L’ultima volta che si erano parlati risaliva alla fine di settembre. Era stata una breve conversazione telefonica. Da allora Komatsu non si era piú fatto vivo, né Tengo lo aveva cercato. Prima, alla fine di agosto, Komatsu era scomparso chissà dove per circa tre settimane. Tengo venne a sapere che aveva chiamato in casa editrice, dicendo vagamente: «Non sto bene, vorrei prendere alcuni giorni di riposo», e da allora era sparito. Di lui si era persa ogni traccia. A Tengo quel modo di fare suonava un po’ strano, ma non al punto da preoccuparsi sul serio. Komatsu era capriccioso ed egocentrico di natura. Di sicuro, sarebbe tornato al lavoro da un giorno all’altro, facendo finta di niente.

Di norma, un’azienda qualsiasi non avrebbe tollerato un atteggiamento del genere. Ma nel caso di Komatsu, c’era sempre un collega pronto a coprirlo, salvandolo da situazioni spiacevoli. Non si poteva dire che fosse benvoluto, ma una persona di buon cuore che interveniva a sistemare i problemi al posto suo saltava sempre fuori. In casa editrice, chiudevano un occhio su molti suoi difetti. Komatsu era arrogante e privo di spirito di collaborazione, ma nel lavoro sapeva il fatto suo. Il best seller del momento, La crisalide d’aria, era una sua creatura. Non l’avrebbero licenziato cosí facilmente.

Come Tengo aveva previsto, un giorno, di punto in bianco, Komatsu riapparve in casa editrice e si rimise al lavoro senza dare spiegazioni e senza scusarsi con nessuno. Tengo ne fu informato per caso da un editor che lo aveva chiamato per questioni di lavoro.

– Quel problema di salute del signor Komatsu si è poi risolto? – gli chiese Tengo.

– Sí, ora sembra che stia bene, – rispose l’altro. – Però ho la sensazione che sia diventato piú taciturno.

– Piú taciturno? – chiese Tengo sorpreso.

– Sí, non so come dire… è meno socievole.

– Ma è stato male?

– Questo non lo so, – disse l’uomo con voce indifferente. – Lui sostiene di sí, e forse è sincero. Comunque sia, da quando è tornato stiamo finalmente sbrigando tutto il lavoro che si era accumulato. Durante la sua assenza La crisalide d’aria ci ha dato molti problemi. È stata dura.

– A proposito della Crisalide d’aria, com’è finita la storia della scomparsa di Fukaeri?

– Non è finita. È tutto fermo com’era. Non ci sono stati sviluppi di alcun tipo, e la ragazza sembra svanita nel nulla. Tutte le persone coinvolte non sanno piú che strada tentare.

– Sui giornali, di recente, non ho trovato nulla su questa vicenda.

– I media hanno piú o meno abbandonato il caso, si tengono a distanza di sicurezza. Anche la polizia evita azioni troppo clamorose. Se vuoi saperne di piú, chiedi a Komatsu. Ma, come ti ho già detto, lo troverai meno loquace. Non è piú lui anche sotto altri punti di vista. Quella sua grande sicurezza di sé si è appannata, è diventato introspettivo, o forse si è chiuso nei suoi pensieri. È diventato intrattabile. A volte sembra persino dimenticarsi di avere delle persone intorno. È come se si fosse rintanato in un buco.

– Introspettivo, – disse Tengo.

– Se gli parli, capirai subito cosa voglio dire.

Tengo ringraziò e riagganciò.

Qualche giorno dopo, una sera Tengo aveva provato a telefonare a Komatsu. Lo aveva trovato in ufficio. Proprio come aveva detto l’editor, parlava in modo diverso. Di solito il suo eloquio procedeva fluido, spedito, senza interruzioni, ma questa volta esitava, come se, mentre parlava con Tengo, avesse la mente altrove. Tengo pensò che qualcosa lo preoccupasse molto. Non era il Komatsu che conosceva, la persona lucida e padrona di sé che non faceva trapelare mai niente all’esterno, che manteneva sempre il controllo su se stesso e su tutto, anche se era in ansia per qualche ragione, o alle prese con un affare complicato.

– La salute è a posto? – chiese Tengo.

– La salute?

– Non ha preso un lungo periodo di riposo perché aveva problemi di salute?

– Ah, sí, – precisò Komatsu, quasi se ne fosse ricordato solo adesso. Ci fu un breve silenzio. – Sí, tutto superato. Te ne parlerò un’altra volta, tra non molto. Adesso non posso spiegarti bene.

Un’altra volta, tra non molto, ripeté Tengo fra sé. Aveva percepito qualcosa di strano nel modo di esprimersi di Komatsu. Non c’era il suo solito distacco e le parole suonavano piatte, prive di spessore.

Tengo trovò il modo di chiudere la conversazione e riagganciò per primo, senza nemmeno menzionare La crisalide d’aria e Fukaeri. Dal tono di Komatsu, aveva intuito che era meglio evitare quegli argomenti. Era mai successo che Komatsu dichiarasse di non poter spiegare bene qualcosa?

Quella era stata l’ultima volta che si erano parlati. Era la fine di settembre, e da allora erano passati piú di due mesi. Komatsu era uno che amava fare lunghe conversazioni telefoniche. Con l’interlocutore giusto, aveva la tendenza a sistemare una serie di questioni cosí come gli si presentavano alla mente, pensando a voce alta. Tengo aveva ricoperto per lui un ruolo simile a quello svolto da un muro negli allenamenti di tennis. Quando gli girava, Komatsu gli telefonava di continuo, anche senza uno scopo preciso, e scegliendo gli orari piú improbabili. Quando invece era giú di corda, capitava che non lo chiamasse per molto tempo. Ma era raro che lasciasse passare piú di due mesi senza farsi vivo.

Forse era in una fase in cui non aveva voglia di parlare con nessuno. Poteva succedere a chiunque. Anche a Komatsu. Del resto, Tengo non aveva nulla di urgente da discutere con lui. La crisalide d’aria aveva smesso di vendere, nessuno ne parlava piú e lui sapeva benissimo dove si trovava Fukaeri. Se Komatsu avesse avuto qualcosa da dirgli, lo avrebbe cercato. Se non lo faceva, significava che non aveva bisogno di lui.

Tuttavia Tengo pensava che fosse giunto il tempo di chiamarlo. Quella frase di Komatsu, «Te ne parlerò un’altra volta, tra non molto», continuava, chissà perché, a risuonargli in un angolo della testa.

Tengo telefonò all’amico che lo stava sostituendo a scuola e s’informò sulla situazione. L’altro lo rassicurò, e gli chiese notizie del padre.

– Non ci sono novità, è sempre in coma, – rispose Tengo. – Respira. Ha i valori della temperatura e della pressione bassi, ma stabili. Però non è cosciente. Credo non abbia nemmeno dolori. È come se fosse entrato nel mondo dei sogni.

– Non mi sembra un brutto modo di morire, – disse l’amico, senza troppa partecipazione emotiva. Quello che voleva dire era: «Forse detto cosí potrà sembrare indelicato, ma se uno ci pensa, in un certo senso, non è un brutto modo di morire». Aveva semplicemente saltato le premesse. A forza di frequentare il dipartimento di matematica dell’università, ci si abituava a conversazioni concise di quel genere. Non ci si trovava piú nulla di strano.

– Di recente hai visto la luna? – chiese Tengo tutt’a un tratto. Quell’amico, forse, era l’unica persona che non avrebbe trovato niente di sospetto in una domanda del genere.

L’amico rispose:

– Ora che ci penso, è da un po’ che non la guardo. Perché? Che ha la luna?

– Quando hai un attimo di tempo, prova a farlo. Vorrei sentire la tua impressione.

– La mia impressione? Da che punto di vista?

– Da nessun punto di vista in particolare. Vorrei sapere cosa ne pensi.

Ci fu una breve pausa, quindi l’amico disse:

– Quello che penso, potrebbe essere difficile da esprimere.

– Non preoccuparti. Mi interessano solo le caratteristiche essenziali.

– Vuoi che guardi la luna e ti dica quali penso che siano le sue caratteristiche essenziali?

– Esatto, – rispose Tengo. – Se non avrai nulla da dire, va bene lo stesso.

– Oggi è nuvoloso, non credo che si vedrà. Ma appena possibile, cercherò di guardarla. Sempre che me ne ricordi.

Tengo ringraziò e mise giú la cornetta. Sempre che me ne ricordi. Era uno dei problemi dei laureati in matematica: quando una cosa non li riguardava in prima persona, avevano una memoria incredibilmente corta.

Scaduto il tempo delle visite, Tengo, prima di andar via, salutò l’infermiera Tamura seduta all’accettazione.

– Grazie di tutto, buonanotte.

– Quanti giorni resterà ancora, Tengo? – chiese lei, sistemandosi il ponticello degli occhiali con un dito. Doveva aver finito il turno perché non indossava piú la divisa, ma una gonna a pieghe viola scuro, una camicetta bianca e un cardigan grigio.

Tengo si fermò e rifletté qualche istante.

– Non ho ancora deciso. Mi regolerò in base alle condizioni di mio padre.

– Può assentarsi ancora dal lavoro?

– Un amico mi sta sostituendo. Per il momento non ho problemi.

– Dove mangia? – chiese l’infermiera.

– Di solito in trattoria, in paese, – disse Tengo. – In albergo servono solo la prima colazione. Cerco un ristorantino lí vicino, dove capita, e scelgo il menu a prezzo fisso o un donburimono.

– Sono di suo gradimento?

– Niente di troppo appetitoso, ma mi accontento.

– Invece non va bene, – disse l’infermiera corrucciata. – Deve mangiare cibo piú sostanzioso e nutriente. In questi ultimi giorni ha l’aria di un cavallo che dorme in piedi.

– Un cavallo che dorme in piedi? – chiese Tengo stupito.

– I cavalli dormono in piedi; non li ha mai visti?

Tengo scosse il capo.

– No.

– E hanno il muso che ha lei adesso, – disse l’infermiera. – Dovrebbe andare in bagno e guardarsi allo specchio. Se uno li guarda di sfuggita, i cavalli, non se ne accorge, ma se li osserva bene, capisce che dormono. Anche se hanno gli occhi aperti, non vedono niente.

– I cavalli dormono con gli occhi aperti?

Tamura annuí con vigore.

– Proprio come lei.

Tengo per un attimo fu sul punto di andare in bagno a guardarsi allo specchio, ma poi ci ripensò.

– Ho capito, – disse. – Cercherò di nutrirmi meglio.

– Senta, le andrebbe di mangiare yakiniku?

Yakiniku? – Tengo non era un gran consumatore di carne. Non perché non gli piacesse, ma in genere non ne aveva voglia. Però, ora che lei glielo aveva proposto, l’idea di mangiare carne dopo tanto tempo non gli dispiaceva. Forse aveva effettivamente bisogno di qualcosa di piú nutriente.

– Noi stasera andiamo tutte a mangiare yakiniku. Venga con noi.

– Tutte?

– Ho preso appuntamento con le colleghe che finiscono il turno alle sei e mezzo. Siamo in tre. Allora?

Le altre erano Ōmura e Adachi. A quanto pareva, le tre avevano un buon rapporto d’amicizia anche fuori dal lavoro. Tengo rifletté qualche istante. Non gli andava granché di interrompere la sua tranquilla routine quotidiana, ma non gli venne in mente nessuna scusa per rifiutare. Le infermiere sapevano bene che aveva molto tempo a disposizione.

– Se non sono di troppo, – disse Tengo.

– No che non disturba, – replicò l’infermiera. – Non sono una che invita per educazione una persona se pensa che sia di troppo. Quindi accetti pure senza complimenti. Anche a noi fa piacere, una volta tanto, la compagnia di un uomo giovane e in salute.

– Beh, in salute lo sono, – disse Tengo con voce incerta.

– Ecco, questa è la cosa piú importante, – disse lei, come se stesse dando un parere professionale.

Per tre infermiere che lavorano nello stesso posto, staccare alla stessa ora non era facile. Ma una volta al mese, con qualche sforzo, ci riuscivano. Andavano in paese, mangiavano «qualcosa di nutriente», bevevano, cantavano al karaoke, e si lasciavano un po’ andare, sfogando l’energia in eccesso. Per loro era uno svago necessario. La vita in paese era monotona, e all’istituto, a parte i medici e le colleghe, vedevano soltanto vecchi che avevano perso ogni vitalità e la memoria.

Le tre donne mangiavano e bevevano in abbondanza. Tengo faticava a tenere il passo. Mentre loro si facevano sempre piú animate, lui si limitava a mangiare una moderata quantità di carne e a bere la sua birra alla spina, facendo attenzione a non ubriacarsi. Usciti dal ristorante di yakiniku, entrarono in un bar non molto distante dove ordinarono una bottiglia di whisky e si misero a cantare al karaoke. Le tre infermiere si esibirono a turno interpretando le loro canzoni preferite, poi tutte insieme intonarono un pezzo delle Candies, con tanto di coreografia. Forse si esercitavano regolarmente, perché la facevano alla perfezione. Tengo era negato per il karaoke, ma si cimentò con una canzone di Inoue Yosui di cui aveva un vago ricordo.

Persino Adachi, che di solito parlava poco, grazie all’alcol era diventata allegra e audace. Le sue guance rosse avevano assunto un bel colore sano, simile a una leggera abbronzatura. Ridacchiava di gusto alle battute stupide, e si appoggiava con naturalezza sulla spalla di Tengo. Ōmura, che indossava un vestito intero azzurro chiaro, dopo aver sciolto i capelli era ringiovanita di tre o quattro anni. Anche la sua voce era diversa, piú bassa. Erano scomparsi i modi rapidi e spicci che aveva sul lavoro, anzi i suoi movimenti avevano un che di languido, quasi avesse cambiato personalità. Solo Tamura era la stessa di sempre, nel carattere e nell’aspetto.

– I bambini dormono da una vicina, – disse Ōmura a Tengo. – E mio marito questa notte è di turno. Devo approfittarne per divertirmi un po’. È importante concedersi qualche distrazione. Non pensa, Tengo?

Ormai avevano smesso di chiamarlo signor Kawana, o signor Tengo, dicevano semplicemente «Tengo». Del resto, la maggior parte delle persone con cui si relazionava, era portata, parlando con lui, a omettere ogni titolo. Persino gli studenti della scuola preparatoria di nascosto lo chiamavano Tengo.

– Certo, – convenne lui.

– Per noi è fondamentale, – disse Tamura, bevendo un whisky Suntory Old allungato con l’acqua. – Siamo persone fatte di carne e sangue come tutti.

– Se ci togliamo le uniformi, siamo donne anche noi, – si intromise Adachi. Poi ridacchiò fra sé, compiaciuta di quanto aveva appena detto.

– Senta, Tengo, – disse Ōmura. – Posso farle una domanda?

– Di che si tratta?

– Lei ha una ragazza?

– Sí, volevo chiederlo anch’io, – disse Adachi, sgranocchiando con i grandi denti bianchi qualche chicco di mais tostato.

– È un discorso lungo, – rispose Tengo.

– Beh, non c’è problema, – disse Tamura con il tono di una donna navigata. – Non abbiamo fretta. E ci fa piacere ascoltarlo. Allora, in che consiste questo discorso lungo?

– Su, cominci, cominci, – incalzò Adachi con un sorriso, battendo leggermente le mani.

– Ma, niente di interessante, – disse Tengo. – È una storia banale e senza senso.

– Ci accontentiamo anche delle conclusioni, basta che si decida, – disse Ōmura. – Allora, ha una ragazza, o no?

Tengo, rassegnato, disse:

– Se volete subito le conclusioni, no, in questo momento non ho una ragazza.

– Ah, – fece Tamura. Con l’indice mescolò il ghiaccio nel bicchiere, facendolo tintinnare, quindi leccò il dito. – Ma non va bene, non va bene per niente. È davvero un peccato che un uomo giovane e sano come lei non abbia qualcuno.

– Anche il fisico ne risente, – confermò Ōmura. – Quando uno si tiene tutto dentro per troppo tempo, finisce per rimbambirsi.

La giovane Adachi ridacchiò di nuovo.

– Si va fuori di testa, – disse, picchiettandosi la tempia.

– Fino a poco tempo fa avevo una persona, – disse Tengo, quasi con un tono di scusa.

– Ma poi, poco tempo fa, quella persona se ne è andata? – chiese Tamura, spingendo con un dito il ponticello degli occhiali.

Tengo annuí.

– Insomma, è stato lasciato? – incalzò Ōmura.

– Non lo so, – rispose Tengo, inclinando la testa. – Ma forse è cosí. Probabilmente sono stato lasciato.

– Mi dica una cosa, Tengo. Per caso quella donna era piú grande di lei? – domandò Tamura, con un’espressione concentrata negli occhi.

– In effetti sí, – rispose Tengo, chiedendosi come avesse fatto a capirlo.

– Visto che avevo ragione? – disse Tamura con aria trionfante alle altre due, che annuirono.

– L’avevo detto io, – continuò, rivolgendosi a lui, – che lei preferiva le donne piú grandi. Una donna, certe cose, le capisce subito. Le fiuta.

Adachi fece il verso di annusare.

– E magari anche donne sposate, – aggiunse Ōmura con voce languida. – O sbaglio?

Tengo, dopo una breve esitazione, annuí. Ormai gli sembrava inutile negare.

– Ragazzaccio –. Adachi diede qualche colpetto con le dita sulla coscia di Tengo.

– Quanti anni aveva?

– Dieci piú di me, – disse Tengo.

– Caspita, – esclamò Tamura.

– E cosí aveva una donna sposata e matura a coccolarla, – disse Ōmura. – Mica scema, la signora. Quasi quasi ci provo anch’io. Che dice, se ci penso io a farle compagnia, bel ragazzo sensibile e solo? Come vede, non sono poi cosí male.

Prese la mano di Tengo e fece per portarsela sul seno, ma le altre due riuscirono a fermarla. Evidentemente, nonostante l’alcol e un po’ di trasgressione, c’era una linea nei rapporti tra le infermiere e i familiari dei pazienti che non bisognava travalicare. O forse avevano solo paura che qualcuno le vedesse. In un paese piccolo come quello, una notizia del genere si sarebbe diffusa in un lampo. E non era da escludere che il marito di Ōmura fosse un uomo molto geloso. Tengo non voleva lasciarsi coinvolgere in situazioni spiacevoli.

– Però, Tengo, lei è una persona speciale, – disse Tamura per cambiare argomento. – Venire da tanto lontano, leggere ogni giorno e per delle ore a suo padre. Non sono cose che farebbe chiunque.

Adachi, inclinando leggermente il collo, disse:

– Anch’io penso che lei sia davvero ammirevole. La rispetto molto.

– Sa, fra di noi la lodiamo in continuazione, – disse Tamura.

Tengo non poté fare a meno di arrossire. Lui non si trovava in quel posto per assistere il padre, ma nella speranza di rivedere la crisalide d’aria che emanava una debole luce, e Aomame, addormentata al suo interno. Era quella la sola vera ragione per cui era rimasto. Stare vicino al padre in coma, in realtà, era solo una scusa. Ma non poteva confessarlo. Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto spiegare cosa fosse una crisalide d’aria.

– È che prima non avevo mai fatto niente per lui, – disse Tengo imbarazzato, muovendosi a disagio, grosso com’era, sulla sedia di legno alta e stretta. Ma anche quell’atteggiamento fu interpretato dalle infermiere come un segno di modestia.

Tengo avrebbe voluto alzarsi, dire che aveva sonno, e rientrare in albergo, ma non riusciva a trovare il momento giusto. Del resto, non era mai stato un tipo capace di imporsi.

– In ogni caso… – disse Ōmura. Poi, dopo un colpetto di tosse, continuò: – Tornando al discorso di prima, come mai lei e quella donna sposata vi siete lasciati? Andavate d’accordo, immagino. Il marito ha scoperto tutto?

– Non so neanch’io il perché, – disse Tengo. – Un giorno ha smesso di chiamarmi, e da quel momento è scomparsa.

– Ah, – fece Adachi. – Forse si era stancata di lei?

Ōmura scosse la testa. Poi, alzando in aria l’indice ammoní Adachi:

– Ma è possibile che tu non abbia ancora capito niente del mondo? Sei proprio un’ingenua. È impensabile. Una donna sposata di quarant’anni che ha rimorchiato un uomo giovane, sano, forte e appetitoso come lui, non può lasciarlo dicendogli: Grazie, mi sono divertita. Tanti saluti. Piuttosto accade il contrario.

– Dici? – disse Adachi, inclinando pensosa la testa. – Non ho molta esperienza in questo tipo di relazioni.

– Credo proprio di sí, – esclamò decisa Ōmura. Osservò per un istante Tengo con l’aria di chi arretra di qualche passo per leggere la scritta incisa su una lapide, quindi annuí. – Quando invecchierai un po’, capirai.

– Ah, per me sono ricordi lontani, – disse Tamura, sprofondando nella sedia.

Le tre infermiere si misero a chiacchierare delle avventure erotiche di qualcuno che Tengo non conosceva (probabilmente una collega). Mentre le guardava con in mano un bicchiere di whisky allungato, Tengo si ricordò delle tre streghe di Macbeth. Quelle che, recitando «Bello è il brutto, e brutto è il bello», instillano in Macbeth un’ambizione malvagia. Naturalmente, Tengo non considerava le tre donne delle creature malefiche. Anzi, le riteneva sincere e generose. Lavoravano con passione e si prendevano cura del padre in modo impeccabile. All’istituto, erano costrette a ritmi di lavoro serrati, e in quel piccolo paese, che viveva di pesca e artigianato, conducevano un’esistenza tutt’altro che stimolante. In fondo, stavano solo dando sfogo al loro stress, come facevano una volta al mese. Ma osservando le tre infermiere di età differenti unire le loro energie, gli era spontaneamente apparsa la scena delle desolate brughiere scozzesi. Il cielo plumbeo e il vento freddo mischiato con la pioggia che soffiava tra l’erica.

All’università, durante un corso di inglese, Tengo aveva studiato Macbeth, e alcuni versi gli si erano misteriosamente fissati nella memoria.

Il prurito che ho sui pollici mi dice

Che qualcosa di male viene da questa parte.

Apritevi, serrature, chiunque sia che bussi.

Come mai li ricordava cosí bene ancora adesso? Eppure aveva dimenticato chi li pronunciasse nella tragedia. I versi gli fecero venire in mente l’esattore della NHK che bussava insistentemente alla porta del suo appartamento di Kōenji. Tengo si guardò i pollici. Non gli prudevano. Ma in quelle rime di Shakespeare cosí ben congegnate risuonava un significato sinistro.

… qualcosa di male viene da questa parte.

«Speriamo che Fukaeri non apra la porta», pensò Tengo.