Ushikawa calamitava decisamente gli sguardi su di sé. Era poco adatto per fare appostamenti o pedinare le persone. Per quanto tentasse di nascondersi tra la folla, spiccava come una scolopendra gigante nello yogurt.

In famiglia nessuno tra i genitori, i due fratelli e la sorella, era come lui. Il padre aveva un grande studio medico, nel quale la madre teneva la contabilità. I fratelli, dopo una brillante carriera scolastica, si erano laureati in medicina. Il maggiore esercitava la professione in un ospedale di Tōkyō e il minore era un ricercatore universitario. Quando il padre sarebbe andato in pensione, il piú grande avrebbe preso il suo posto nello studio medico, a Urawa. Entrambi erano sposati e avevano un figlio. La sorella, invece, si era laureata negli Stati Uniti e una volta tornata in Giappone aveva cominciato a lavorare come interprete. Aveva circa trentacinque anni e non era ancora sposata. Tutti loro, oltre a essere magri e alti, vantavano un bell’ovale e tratti regolari.

In famiglia, da ogni punto di vista, e soprattutto per quanto riguardava l’aspetto fisico, Ushikawa era la pecora nera. Era basso, con la testa grossa e deforme, e i capelli ricci e scomposti. Le gambe erano corte e curve come cetrioli. Gli occhi sporgenti facevano pensare che vivesse in un perpetuo stato di sorpresa, e intorno al collo aveva rotoli di grasso. Le sopracciglia, folte e grandi, sembravano due grossi bruchi desiderosi di unirsi: sarebbe bastato pochissimo perché si congiungessero in un’unica linea. A scuola, nell’insieme, aveva ottimi voti, ma in alcune materie il suo rendimento era un po’ discontinuo. Soprattutto, era un disastro negli sport.

In quella famiglia ricca e compiaciuta di sé e dei suoi privilegi, Ushikawa era sempre stato un «corpo estraneo», la stonatura che rompeva l’armonia e creava una dissonanza. Bastava guardare le foto di famiglia per capire quanto fosse fuori posto: un intruso che si era infilato tra loro e che per sbaglio era finito negli scatti.

In famiglia non riuscivano a spiegarsi da dove fosse piovuto quell’essere tanto diverso nell’aspetto. Eppure, non c’era dubbio che fosse nato proprio dal grembo della madre, la quale ricordava ancora i dolori atroci delle doglie. Di sicuro, non era stato lasciato in un cestino davanti a un portone. Poi, all’improvviso, qualcuno si ricordò di un parente, dal ramo paterno, con un gran testone deforme. Era un cugino del nonno di Ushikawa. Durante la guerra aveva lavorato in una fabbrica di metalli nella circoscrizione di Kōtō, ma nella primavera del 1945 era morto sotto i bombardamenti di Tōkyō. Suo padre non lo aveva mai conosciuto, ma in un vecchio album era conservata una sua foto. Quando in famiglia la videro ci fu un coro unanime: «Ecco!» I due si somigliavano incredibilmente, erano talmente identici da far pensare che Ushikawa ne fosse la reincarnazione. Forse, gli stessi fattori genetici che avevano determinato l’aspetto dello zio, per qualche ragione, erano ricomparsi in lui.

Se non fosse stato per la sua esistenza, gli Ushikawa di Urawa, in provincia di Saitama, sarebbero stati, sia per l’aspetto sia per le credenziali accademiche e sociali, assolutamente inappuntabili. Il tipo di famiglia perfetta e fotogenica che chiunque avrebbe invidiato. Ma la presenza di Ushikawa provocava nelle persone espressioni di perplessità e sconcerto. Pensavano che la dea della bellezza fosse inciampata, magari per uno sgambetto, e che in quella famiglia si fosse insinuato un difetto. O meglio, i familiari di Ushikawa erano convinti che questo fosse il pensiero degli altri. Perciò tentavano con tutti i mezzi di non mostrarlo in pubblico, e se proprio erano costretti, facevano il possibile perché non si notasse, ma era una partita persa in partenza.

Ushikawa, però, non soffriva troppo di questa situazione. Non si sentiva né triste né solo. Lui era il primo a non volersi esporre, anzi era grato che i suoi lo tenessero nell’ombra. Non gli dispiaceva nemmeno che i fratelli e la sorella tendessero a ignorarne l’esistenza. Tutto sommato, anche il suo affetto nei loro confronti era minimo. Loro erano belli, bravissimi negli studi e, come se non bastasse, brillanti negli sport e pieni di amici. Ma ai suoi occhi erano individui privi di spessore, insignificanti. I loro pensieri erano piatti, avevano vedute ristrette, mancavano di ogni immaginazione e si preoccupavano soltanto dell’opinione altrui. Soprattutto, non erano dotati di quella sana capacità di dubitare, necessaria per sviluppare una vera saggezza.

Il padre rientrava nella categoria dei medici di successo della regione, ma era una persona mortalmente noiosa. Al contrario del leggendario re che mutava in oro ciò che toccava, lui trasformava in insulsi granelli di sabbia ogni cosa di cui parlava. Tuttavia, essendo un uomo di poche parole, riusciva, anche se in modo inconsapevole, a nascondere quanto in realtà fosse vacuo e tedioso. La madre, invece, era una donna loquace e irrimediabilmente gretta. Attaccata ai soldi, capricciosa, egoista, attratta da tutto ciò che era appariscente, non perdeva la minima occasione per sparlare degli altri con la sua voce stridula. Il fratello maggiore aveva ereditato il carattere del padre, il minore quello della madre. La sorella, anche se aveva una natura piú autonoma, non sapeva cosa fosse il senso di responsabilità ed era priva di gentilezza d’animo. Si preoccupava soltanto dei propri interessi. I genitori erano stati troppo indulgenti con lei, e avevano finito per viziarla.

Per queste ragioni Ushikawa aveva trascorso la maggior parte dell’infanzia da solo. Quando tornava da scuola si chiudeva in camera e si immergeva nella lettura. A parte il cane non aveva amici, quindi gli mancavano le occasioni per parlare di ciò che imparava o per fare conversazione, ma sapeva ragionare in modo logico e chiaro. Inoltre, era consapevole di possedere ottime doti di eloquenza e, per conto proprio, si era dedicato con pazienza a svilupparle. Per esempio, stabiliva un tema e animava una discussione attorno a esso interpretando un doppio ruolo. In uno dei due sosteneva una tesi con convinzione, nell’altro la criticava con altrettanto vigore. Era capace di identificarsi con lo stesso piglio – e, in un certo senso, con la stessa onestà – in entrambe le posizioni, e riusciva a caldeggiarle con trasporto. Attraverso questo esercizio, senza neanche accorgersene, imparò a mettersi in discussione e capí che gran parte di quelle che venivano considerate verità indiscusse, non erano altro che punti di vista relativi. Apprese che la soggettività e l’oggettività non sono distinte cosí nettamente come molti credono, e che se la linea di confine tra le due non è chiara fin dall’inizio, spostarla intenzionalmente non è poi tanto difficile.

Per rendere la logica e la retorica piú chiare ed efficaci, si riempiva la mente con le conoscenze piú disparate, che fossero di valore sicuro o dubbio, condivisibili o meno. Non era interessato alla cultura in senso generale, ma alle informazioni concrete di cui poteva verificare direttamente con mano la forma e il peso.

La sua grossa testa deforme divenne soprattutto un prezioso contenitore di dati, brutto a vedersi ma di grande utilità. Acquistò un’erudizione superiore a quella di qualunque suo coetaneo, e se avesse voluto, avrebbe potuto battere chiunque in un duello verbale. Non solo i fratelli e i colleghi, ma anche gli insegnanti e i genitori. Ushikawa, però, tentava, per quanto possibile, di non esibire le sue capacità di fronte agli altri. Non voleva attirare l’attenzione su di sé, anzi, era l’ultima cosa che desiderava. Conoscenza e abilità erano semplici strumenti, non accessori di cui fare sfoggio.

Ushikawa si vedeva come un animale notturno che attende, acquattato nel buio della foresta, l’avvicinarsi della preda. Aspettava paziente l’occasione giusta per sferrare l’attacco senza esitazioni. Fino a quel momento, doveva occultare la sua presenza. Era fondamentale rendersi invisibile per poi cogliere di sorpresa l’avversario. Faceva questi ragionamenti fin da quando era alle elementari. Già allora non si fidava di nessuno ed evitava di esprimere i suoi sentimenti.

A volte provava a immaginare come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto dei connotati normali. Non necessariamente belli, gli sarebbe bastato un aspetto comune, non cosí brutto da far girare la gente per strada. «Se fossi nato con un corpo diverso, come sarebbe stata la mia vita?» si chiedeva. Ma tutto questo, per lui, andava al di là dell’immaginabile. Ushikawa era talmente Ushikawa che non c’era spazio per le ipotesi. Era grazie alla sua testa grossa e deforme, ai suoi occhi sporgenti e alle gambe corte e arcuate che era diventato ciò che era: un ragazzo autocritico, erudito e silenzioso, nonostante la sua eloquenza.

Con il passare degli anni, quel brutto ragazzo si era trasformato in un brutto giovanotto; poi, senza nemmeno accorgersene, in un brutto signore di mezza età. Sempre, in qualunque fase della sua vita, le persone si erano voltate a guardarlo quando lo incrociavano per strada. I bambini, addirittura, lo fissavano in viso senza nessun ritegno. Ushikawa, a volte, si consolava pensando che quando sarebbe diventato un brutto vecchio non avrebbe piú attirato l’attenzione. I vecchi, di norma, sono poco avvenenti, e a quell’età la bruttezza individuale non dovrebbe spiccare come quando si è giovani. Ma era difficile dirlo prima del tempo. Chissà, magari sarebbe diventato un insuperabile esempio di bruttezza senile.

In ogni caso, non era equipaggiato per confondersi nell’ambiente circostante. Per di piú Tengo lo conosceva. Se l’avesse visto aggirarsi intorno a casa sua, tutti i suoi piani sarebbero andati in fumo.

Di solito, in quelle situazioni Ushikawa ricorreva a dei professionisti. Da quando era avvocato, aveva stretto rapporti con agenzie investigative per esigenze di lavoro. Si trattava soprattutto di ex poliziotti, esperti nel raccogliere informazioni, pedinare e sorvegliare. Ma in quel caso non voleva coinvolgere estranei, era una questione troppo delicata, con un reato molto grave di mezzo come l’omicidio. Inoltre, lo stesso Ushikawa non sapeva bene cosa sperasse di ottenere facendo sorvegliare Tengo.

Naturalmente voleva scoprire che tipo di rapporto collegava Tengo ad Aomame, ma di quest’ultima, non sapeva nemmeno che faccia avesse. Aveva tentato di tutto, ma non era stato capace di procurarsi una foto decente. Nemmeno il Pipistrello c’era riuscito. Ushikawa aveva sfogliato l’album ricordo del liceo, ma nella foto della sua classe il viso di Aomame era piccolo e cosí innaturale da sembrare una maschera. E nelle foto della squadra di softball dell’azienda portava un berretto la cui visiera le nascondeva il viso. Insomma, se Aomame gli fosse passata davanti, lui non sarebbe stato in grado di riconoscerla. Sapeva che aveva un bel portamento e un fisico molto allenato. Era alta quasi un metro e settanta, i capelli le arrivavano alle spalle, e aveva occhi e zigomi particolari. Ma di donne con caratteristiche simili, al mondo ce n’era un’infinità.

Nessun altro, a parte Ushikawa, poteva occuparsi di Tengo. Bisognava tenere gli occhi bene aperti, aspettare pazientemente che succedesse qualcosa, e decidere all’istante come intervenire. Non poteva chiedere a un altro di svolgere un compito tanto delicato.

Tengo abitava al primo piano di una vecchia palazzina che ne aveva tre. Nell’atrio del condominio erano allineate le cassette della posta di tutti gli inquilini, e su una di loro si poteva leggere la targhetta con scritto «Kawana». Le cassette recavano qua e là segni di ruggine o di vernice scrostata. Erano dotate di serratura, ma quasi nessuno le chiudeva a chiave. Anche il portone d’ingresso rimaneva sempre aperto, e chiunque poteva entrare e uscire liberamente.

Lungo i corridoi ristagnava quell’odore caratteristico degli edifici di vecchia costruzione, una miscela di infiltrazioni trascurate, consunte lenzuola lavate con detergenti scadenti, olio per frittura usato troppe volte, piante secche di poinsettia, piscio di gatto che esalava dal giardino di fronte infestato di erbacce, eccetera. L’abitudine, probabilmente, aiutava a sopportarlo, ma di certo non lo rendeva piú gradevole.

L’appartamento di Tengo affacciava su una strada non eccessivamente animata, ma con un discreto passaggio di gente. Nelle vicinanze c’era una scuola elementare, e in alcuni orari si vedeva un gran viavai di bambini. Sul lato opposto all’edificio sorgeva una fila di villette unifamiliari, tutte a due piani e senza giardino. Un po’ piú avanti sulla strada, c’erano una rivendita di bevande alcoliche e una cartoleria frequentata soprattutto dagli allievi della scuola. A due isolati, un posto di polizia. Nei paraggi era difficile nascondersi. Ushikawa poteva anche posizionarsi su un lato della strada e puntare gli occhi sull’appartamento di fronte, ma se anche Tengo non si fosse accorto di lui, non avrebbe mancato di destare sospetti nel vicinato. Il suo aspetto fuori dal comune avrebbe fatto aumentare di almeno due gradi il livello di allerta degli abitanti del posto; lo avrebbero preso per un maniaco interessato ai bambini di ritorno dalla scuola, e non avrebbero esitato a chiedere l’intervento degli agenti di polizia.

Per controllare qualcuno bisognava innanzitutto trovare una buona postazione, un luogo dal quale fosse possibile seguire inosservati i movimenti dell’individuo in questione e dove fosse facile rifornirsi di acqua e cibo. L’ideale sarebbe stata una stanza di fronte all’appartamento di Tengo. Ushikawa, dopo aver montato un treppiedi con una macchina fotografica munita di teleobiettivo, avrebbe monitorato i suoi movimenti dentro casa e il flusso delle persone in entrata e in uscita. Da solo non poteva garantire una sorveglianza di ventiquattrore su ventiquattro, ma almeno dieci al giorno era in grado di coprirle. Se avesse trovato un posto del genere, sarebbe stata una gran fortuna.

Ushikawa andò in giro per la zona, in perlustrazione. Era uno che non si arrendeva tanto facilmente. Camminò a lungo senza risparmiarsi, esplorando fino in fondo tutte le possibilità. L’ostinazione era il suo tratto distintivo. Ma dopo aver passato mezza giornata a ispezionare il vicinato palmo palmo, dovette rinunciare. Kōenji era un quartiere residenziale ad alta densità abitativa, dal terreno piatto e senza costruzioni alte. Gli appartamenti dai quali si potesse tenere d’occhio la casa di Tengo erano pochissimi, e tra questi nemmeno uno faceva al caso suo.

Quando non gli venivano buone idee, Ushikawa era solito fare un lungo bagno, non troppo caldo però. Dunque, tornato a casa, riempí la vasca in acrilico, poi, immerso nell’acqua, ascoltò il Concerto per violino di Sibelius. In realtà, non aveva un desiderio particolare di ascoltarlo, e francamente non riteneva che quella fosse la musica piú adatta da sentire a fine giornata, mentre si rilassava. Magari i finlandesi, nelle loro lunghe notti, amavano ascoltare Sibelius facendo la sauna. Ma nella stretta vasca di un bagno minuscolo, in un appartamento composto da due stanze piú soggiorno in un condominio di Kohinata, circoscrizione di Bunkyō, la musica di Sibelius era un po’ troppo emozionante e carica di tensione. Tuttavia la sopportò di buon grado: l’importante era avere della musica in sottofondo. Avrebbe ascoltato senza lamentarsi anche un concerto per clavicembalo di Rameau, o il Carnevale di Schumann. In quel momento il programma in FM della radio trasmetteva il Concerto per violino di Sibelius, tutto qui.

Ushikawa, come di consueto, svuotò metà del cervello, lasciandola al riposo, e con l’altra si mise a pensare. La musica di Sibelius, nell’esecuzione di David Ojstrakh, attraversò soprattutto la parte vuota, come una brezza leggera che entra ed esce da due porte spalancate. Forse non era quello il modo migliore di sentire la musica. Se Sibelius lo avesse saputo, avrebbe fatto una grande smorfia e diverse rughe gli avrebbero solcato la nuca. Ma era morto da tempo e lo stesso Ojstrakh non era piú di questo mondo. Ushikawa, quindi, era libero di lasciare che la musica gli entrasse da un orecchio e gli uscisse dall’altro, mentre la metà attiva del cervello si abbandonava ai pensieri piú stravaganti.

In quei momenti, gli piaceva spaziare con la mente senza concentrarsi su un oggetto specifico. Lasciava vagare i suoi pensieri come quando si sciolgono i cani in un grande prato, liberi di correre ovunque e di fare quello che vogliono. Lui si rilassava, il corpo immerso nell’acqua fino al collo, gli occhi chiusi, ascoltando la musica senza troppo impegno. I cani scorrazzarono e saltarono, si rotolarono lungo il pendio, si rincorsero a vicenda senza stancarsi mai, tentarono invano di acchiappare gli scoiattoli, inzaccherandosi di fango e d’erba. Quando, alla fine, tornarono stanchi dal padrone, Ushikawa li accarezzò sulla testa e rimise loro il collare. Nello stesso istante finí anche la musica. Il concerto di Sibelius era durato circa trenta minuti. La lunghezza giusta. Lo speaker disse: «Trasmettiamo ora la Sinfonietta di Janáček». Ushikawa aveva sentito nominare la Sinfonietta di Janáček, ma non ricordava dove. Se si sforzava di rintracciarla nella memoria, la sua vista si faceva sfocata e una foschia di colore giallo chiaro gli calava sugli occhi. Forse era stato troppo a lungo nell’acqua. Rassegnato, spense la radio, uscí dalla vasca e, con solo un asciugamano avvolto intorno ai fianchi, andò a prendere una birra dal frigo.

Ushikawa viveva in quell’appartamento da solo. In passato aveva vissuto con la moglie e le due figlie a Chūō Rinkan, Yamato, provincia di Kanagawa. Avevano comprato una casa piccola con il giardino, e avevano un cane. La moglie era una donna dai lineamenti regolari e le figlie potevano dirsi addirittura belle. Nessuna delle due aveva preso niente dell’aspetto fisico del padre e lui, naturalmente, ne era molto sollevato.

Tuttavia accadde qualcosa, ci fu una specie di improvviso cambiamento di scena, e lui si ritrovò da solo. A pensarci ora, gli sembrava persino strano avere avuto in passato una famiglia, con la quale aveva vissuto in quella casa di periferia. A volte si chiedeva addirittura se non fosse solo una fantasia, se non stesse falsificando inconsciamente i ricordi per convenienza. Ma era tutto vero. Aveva avuto una moglie con cui aveva condiviso il letto, e due figlie nelle cui vene scorreva il suo sangue. Nel cassetto della scrivania custodiva una foto che li ritraeva tutti e quattro, sorridenti e spensierati. Anche il cane sembrava felice.

Era impossibile che la famiglia tornasse a riunirsi. La moglie viveva a Nagoya con le figlie, che adesso avevano un nuovo padre. Un uomo dall’aspetto normale, del quale non doversi vergognare quando i genitori andavano a scuola ad assistere alle lezioni. Da quasi quattro anni le figlie non vedevano Ushikawa, ma non se ne dolevano piú di tanto. Non gli scrivevano neppure. E lui stesso non si rammaricava troppo di non poterle incontrare. Il che non significava che non voleva bene a quelle ragazze. Semplicemente, la cosa che piú gli stava a cuore era la propria sopravvivenza, e pur di garantirsela, era disposto a chiudere quei circuiti sentimentali che non gli erano strettamente necessari.

E poi sapeva che per quanto fossero lontani, il suo sangue scorreva in loro. Anche se le figlie lo avessero dimenticato, quel sangue avrebbe continuato per la sua strada, senza perdersi. Il sangue ha una memoria incredibilmente forte, e quella testa deforme, prima o poi, in futuro, sarebbe ricomparsa come un marchio di fabbrica, nel tempo e nel luogo piú inattesi. Quel giorno la gente si sarebbe ricordata di lui, Ushikawa, con un sospiro.

Chissà, magari lui stesso avrebbe assistito a quel momento topico. O forse no. Non era poi cosí importante. Il solo pensiero che un evento del genere potesse accadere, era per Ushikawa fonte di soddisfazione. Non per un senso di vendetta, quanto piuttosto per una forma di appagamento nata dalla consapevolezza di aver contribuito in modo irrefutabile alla costruzione del mondo.

Mentre beveva la birra seduto sul divano, le gambe corte allungate sul tavolino, all’improvviso gli venne un’idea. Non era detto che avrebbe funzionato, ma valeva la pena di tentare. «Come mai non mi è venuta in mente prima? – si chiese sorpreso. – Forse le cose piú semplici sono quelle a cui non si pensa, come quando non riusciamo a vedere quello che è piú vicino a noi».

La mattina successiva Ushikawa tornò a Kōenji, vide un’agenzia immobiliare, entrò e chiese se c’era un appartamento in affitto nello stabile in cui abitava Tengo. Gli risposero che non erano loro a occuparsene, e che doveva rivolgersi a un altro agente, il quale gestiva tutto l’edificio.

– Comunque, non credo che ci siano appartamenti liberi. Gli affitti sono a buon mercato e il posto è comodo. È difficile che gli inquilini se ne vadano.

– Mah, proverò comunque. Non si sa mai, – disse Ushikawa.

Quindi andò all’agenzia immobiliare di fronte alla stazione. L’agente con cui parlò era un giovane poco piú che ventenne. Aveva capelli nerissimi e spessi, che il gel aveva indurito facendoli sembrare il nido di un uccello raro. Indossava una camicia bianchissima con una cravatta nuova di zecca. Probabilmente aveva cominciato quel lavoro da poco. Sul viso restavano ancora i segni dei brufoli. Appena entrò Ushikawa il giovane ebbe un sussulto, ma si riprese in fretta e sfoderò un sorriso professionale.

– Signore, lei è veramente fortunato, – disse. – Una coppia di coniugi, all’improvviso, si è dovuta trasferire altrove per motivi familiari, e cosí si è liberato un appartamento appena una settimana fa. Le pulizie sono state fatte soltanto ieri, è per questo che non abbiamo ancora pubblicato l’annuncio. Essendo al pian terreno, è un alloggio un po’ rumoroso e con poca luce, ma la posizione è veramente comoda. La devo avvisare, però, che il proprietario dell’edificio ha intenzione di ristrutturarlo completamente fra cinque o sei anni, quindi il contratto prevede che in quel periodo, con un preavviso di soli sei mesi, l’inquilino dovrà lasciare l’appartamento. Ah, dimenticavo di dirle che non c’è un posto macchina.

Ushikawa rassicurò l’agente che per lui la casa andava bene. Non voleva restarci troppo a lungo e non aveva l’automobile.

– Bene. Se accetta le condizioni, può andarci a vivere anche domani. Ma immagino che prima voglia vederlo.

Ushikawa disse di sí, voleva vederlo. Il giovane tirò fuori dal cassetto della scrivania una chiave e gliela porse.

– Purtroppo ho delle pratiche da sbrigare. Potrebbe gentilmente andare a vederlo da solo? L’appartamento è vuoto, basta che quando ha finito passi qui a restituirmi la chiave.

– Certo, – disse Ushikawa. – Ma se fossi un poco di buono e non restituissi la chiave, o ne facessi una copia per poi svaligiare l’appartamento?

Il giovanotto, colto di sorpresa, restò per qualche istante a guardarlo.

– Giusto, non ci avevo pensato. Allora, le dispiacerebbe lasciarmi qualcosa? Non so, un biglietto da visita…

Ushikawa tirò fuori dal portafogli il solito biglietto della Nuova Associazione Giapponese per lo Sviluppo delle Scienze e delle Arti.

– Signor Ushikawa, – disse il giovane leggendo il nome con la fronte corrugata. Poi la sua espressione si distese. – Non mi ha dato l’impressione di una persona che possa fare qualcosa di male.

– La ringrazio, – disse Ushikawa sfoderando un sorriso tanto sincero quanto era vero il titolo stampato sul biglietto da visita.

Era la prima volta che gli dicevano una cosa simile. Forse il ragazzo intendeva dirgli soltanto che il suo aspetto era troppo vistoso, e che se avesse fatto qualcosa di male sarebbe stato molto facile descriverlo in modo particolareggiato o abbozzarne un identikit. La polizia lo avrebbe trovato in capo a tre giorni.

L’appartamento era migliore di quanto avesse immaginato. Poiché quello di Tengo era esattamente sopra il suo, due piani piú in alto, era impossibile spiarne l’interno. Ma dalla finestra poteva vedere il portone d’ingresso, il che gli avrebbe permesso di monitorare gli spostamenti di Tengo, e di controllare le persone che gli facevano visita. Grazie al teleobiettivo, se camuffava bene la macchina fotografica, avrebbe potuto fotografare anche le facce.

Per avere l’appartamento, Ushikawa doveva pagare due mesi di deposito, uno di affitto anticipato e altri due a fondo perduto. Anche se l’affitto non era caro, e la cauzione sarebbe stata restituita alla fine della locazione, si trattava comunque di una discreta somma di denaro. A causa dei soldi che aveva dovuto sborsare al Pipistrello, le sue riserve si erano notevolmente ridotte. Però, considerata la situazione, doveva fare uno sforzo e prendere l’alloggio. Non aveva altra scelta. Ushikawa tornò all’agenzia, tirò fuori da una busta il denaro che nel frattempo aveva preparato e firmò il contratto. Lo fece intestare alla Nuova Associazione Giapponese per lo Sviluppo delle Scienze e delle Arti, e disse che presto avrebbe inviato una copia della registrazione ufficiale della società. Il giovane agente non si preoccupò. Firmato il contratto, diede di nuovo la chiave a Ushikawa.

– Signor Ushikawa, se vuole può trasferirsi anche oggi. Per l’acqua e l’elettricità non ci sono problemi; per la fornitura del gas, invece, è necessaria la sua presenza durante l’attivazione del servizio, quindi è lei che deve contattare la Tōkyō Gas. Per la linea telefonica cosa preferisce fare?

– Ci penserò io, – disse Ushikawa. Un contratto con una compagnia telefonica richiedeva tempo, in piú gli operai sarebbero dovuti entrare in casa. Probabilmente era meglio usare i telefoni pubblici della zona.

Ushikawa tornò all’appartamento e fece una lista delle cose che servivano. Con sua grande gioia, i precedenti inquilini avevano lasciato le tende alle finestre. Erano a fiori, vecchie e logore, ma questi erano dettagli di poco conto: che ci fossero, era già una gran fortuna. Quando si deve sorvegliare qualcuno, le tende sono uno strumento indispensabile.

La lista non venne troppo lunga. Innanzitutto generi di prima necessità come cibo e bevande. A seguire una macchina fotografica con il teleobiettivo e un treppiedi. Poi carta igienica, un sacco a pelo, un fornello da campeggio e qualche bombola di combustibile; un coltello, un apriscatole, sacchetti per la spazzatura, gli articoli piú essenziali per l’igiene personale, un rasoio elettrico, qualche asciugamano, una torcia elettrica e una radio a transistor. Infine alcuni abiti di ricambio e una stecca di sigarette. Basta, non aveva bisogno né di un frigorifero, né di un tavolo, né di coperte. Era già fortunato ad aver trovato un posto al riparo dalle intemperie. Tornò a casa sua, mise nella borsa una reflex e un teleobiettivo, e fece una grossa scorta di pellicole. Poi riempí un borsone da viaggio con gli articoli annotati nella lista. Le ultime cose che gli mancavano le comprò nei negozi davanti alla stazione di Kōenji.

Sistemò il treppiedi davanti alla finestra della stanza da sei tatami, e vi montò sopra una Minolta automatica ultimo modello, alla quale collegò il teleobiettivo. Calibrò manualmente la messa a fuoco all’altezza del viso delle persone che entravano e uscivano dal portone, e impostò il telecomando per far scattare l’otturatore a distanza. Regolò anche il motore di avanzamento. Con il cartoncino, poi, costruí una protezione da avvolgere intorno alla lente in modo che non scintillasse sotto la luce. Dall’esterno si sarebbe visto soltanto un angolo della tenda leggermente sollevato dal quale spuntava appena una specie di cilindro. Ma chi ci avrebbe fatto caso? Nessuno immaginava che ci fosse qualcuno a fotografare di nascosto l’ingresso di un edificio cosí insignificante.

Ushikawa fece qualche foto di prova alle persone che passavano dal portone. Grazie alla modalità sequenza rapida, poteva immortalare ogni viso con tre scatti consecutivi. Avvolse un asciugamano intorno alla macchina fotografica per attutirne il rumore. Finito il rullino, lo portò da un fotografo vicino alla stazione. Fortunatamente il sistema di sviluppo era automatizzato; poiché si lavorava in poco tempo a una gran quantità di foto, nessuno avrebbe prestato attenzione al loro contenuto.

Il risultato fu soddisfacente. Certo, non erano foto artistiche, ma svolgevano in pieno il loro compito: le facce delle persone si distinguevano piuttosto bene. Uscito dal negozio, Ushikawa comprò acqua minerale e cibo in scatola. Dal tabaccaio prese una stecca di Seven Stars. Tornò all’appartamento nascondendo il viso dietro la busta con gli acquisti che teneva alta sul petto e, una volta dentro, si sedette di nuovo dietro alla macchina fotografica. Senza perdere di vista il portone un solo istante, bevve acqua e mangiò qualche pesca sciroppata, poi fumò alcune sigarette. La corrente elettrica funzionava regolarmente, ma per una ragione sconosciuta mancava l’acqua. Da un punto nascosto del muro proveniva una specie di gorgoglio, ma dal rubinetto non usciva niente. Forse bisognava aspettare ancora un po’ di tempo. Pensò di rivolgersi all’agente immobiliare, ma non voleva uscire troppe volte dall’appartamento, quindi, almeno per il momento, lasciò perdere. Non potendo utilizzare lo scarico del bagno, urinò in una bacinella, dimenticata presumibilmente dall’impresa di pulizie.

Arrivò il tramonto, l’impaziente tramonto di inizio inverno, ma anche quando nell’appartamento calò il buio, Ushikawa non accese la luce. Anzi, quel buio gli era gradito. Il faro che illuminava il portone d’ingresso dell’edificio si accese, e lui restò a osservare le persone che transitavano sotto quella luce giallastra.

Verso sera, il traffico di coloro che passavano dal portone si fece piú intenso, ma non si trattava comunque di un gran numero di persone. Del resto l’edificio era piccolo. Di Tengo, tuttavia, neppure l’ombra. Non si erano viste nemmeno donne che corrispondessero alla descrizione di Aomame. Quel giorno Tengo insegnava alla scuola preparatoria e a quell’ora sarebbe già dovuto essere di ritorno. Di solito, dopo il lavoro, rientrava direttamente a casa. Piuttosto che cenare fuori, preferiva prepararsi qualcosa di semplice e mangiare da solo, magari leggendo un libro. Ushikawa conosceva le sue abitudini. Ma quella sera era in ritardo. Forse dopo la lezione aveva incontrato qualcuno.

Nel condominio vivevano diverse tipologie di persone. Giovani lavoratori ancora scapoli, studenti universitari, coppie con bambini piccoli, vecchi rimasti soli. Un campionario di inquilini molto variegato. Quegli individui entravano indifesi nella visuale del teleobiettivo; pur diversi tra loro per età e condizione sociale, apparivano tutti ugualmente affaticati e stanchi di vivere. Come se le loro speranze fossero sbiadite, le ambizioni perdute, le sensibilità intorpidite, e nel vuoto che restava si fossero insediate rassegnazione e indifferenza. Avevano i visi smorti e il passo incerto di chi, un paio d’ore prima, aveva subito l’estrazione di un dente.

Però poteva anche essere un’impressione sbagliata di Ushikawa. Alcuni di loro, magari, si godevano in pieno la vita. Chissà, forse dietro la porta di casa custodivano un paradiso privato che avrebbe lasciato chiunque a bocca aperta. Oppure fingevano di condurre una vita modesta per sfuggire ai controlli del fisco. Anche questo non era da escludere. Ma attraverso la lente del teleobiettivo gli apparivano come abitanti attaccati a un edificio in procinto di essere demolito, condannati alla mediocrità.

La giornata passò senza che Tengo o altre persone a lui collegate si vedessero. Quando l’orologio segnò le dieci e trenta, Ushikawa si arrese: «Oggi è il primo giorno, e non sono ancora del tutto organizzato, – pensò. – Ho ancora tempo. Per oggi basta cosí». Stirò con delicatezza il corpo, sciogliendo i muscoli irrigiditi. Mangiò un anpan, si versò del caffè dal termos e lo bevve. Quando provò a riaprire il rubinetto del lavandino, l’acqua uscí immediatamente. Si lavò faccia e denti, poi fece una lunga pipí. Appoggiato al muro, fumò una sigaretta. Avrebbe voluto un goccio di whisky, ma aveva deciso, finché sarebbe rimasto in quell’appartamento, di non toccare alcol.

Si spogliò e si infilò nel sacco a pelo. Con addosso soltanto gli indumenti intimi, tremava leggermente per il freddo. Di notte, in quella casa vuota la temperatura si abbassava piú di quanto aveva previsto. Forse doveva procurarsi una piccola stufa elettrica.

Solo e tremante, Ushikawa ripensò alla sua famiglia. Non aveva nostalgia di quel tempo, ma gli tornò in mente perché si trovava in una situazione diametralmente opposta. In realtà, Ushikawa si era sentito solo anche quando aveva vissuto con la moglie e le figlie. Non aveva mai aperto il cuore a nessuno, e quella vita cosí normale gli era sempre apparsa precaria. Dentro di sé sentiva che un giorno, da un momento all’altro, sarebbe andata in frantumi, e che tutto sarebbe finito: il suo lavoro da avvocato di successo, i guadagni elevati, la casa a Chūō Rinkan, la moglie piacente, le due belle bambine che frequentavano la scuola privata, il cane con il pedigree. Cosí, quando, dopo un susseguirsi di eventi, la sua vita era precipitata di colpo e lui si era ritrovato solo, Ushikawa ne aveva provato addirittura sollievo. «Ma sí, ormai non devo piú preoccuparmi di nulla, – era stata la sua reazione. – Sono tornato al punto di partenza».

Ma è il punto di partenza, questo?

Ushikawa si raggomitolò nel sacco a pelo come la larva di una cicala, e alzò gli occhi verso il soffitto buio. Forse aveva mantenuto troppo a lungo la stessa posizione, e il corpo gli doleva un po’ dappertutto. Tremare di freddo, mangiare un anpan invece di un pasto caldo, sorvegliare il portone di uno squallido edificio in odore di demolizione, fotografare di nascosto persone prive di qualsiasi attrattiva, pisciare in una bacinella… Tornare al punto di partenza significava questo? Poi si ricordò una cosa che aveva dimenticato di fare. Uscí strisciando dal sacco a pelo e andò a svuotare la bacinella con l’urina nel wc. L’idea di abbandonare il tepore del suo giaciglio non lo entusiasmava, cosí per un momento aveva pensato di non muoversi; ma se nel buio, per distrazione, fosse inciampato nella bacinella, sarebbe stato un disastro. Tornò nel sacco a pelo e riprese a tremare ancora un po’ per il freddo.

Tornare al punto di partenza, vuol dire questo?

«Sí, probabilmente vuol dire questo. Ormai non ho piú niente da perdere, a parte la mia vita. Non ci vuole molto a capirlo». Nel buio, sulle labbra di Ushikawa si disegnò un sorriso simile a una lama sottile.