Un sabato di forte vento, poco prima delle otto di sera, squillò il telefono. Aomame, con indosso un piumino e una coperta sulle gambe, era seduta in balcone e attraverso la fessura nel pannello di plastica teneva d’occhio lo scivolo illuminato dal lampione ai vapori di mercurio. Teneva le mani infilate sotto la coperta perché il freddo non le intorpidisse. Lo scivolo deserto sembrava lo scheletro di un grosso animale morto durante l’era glaciale.

Forse, restare seduta fuori e a lungo in una notte molto fredda non era un bene per il bambino. Ma Aomame si disse che la temperatura non era tale da creare gravi problemi. Per quanto la parte superficiale del corpo possa raffreddarsi, il liquido amniotico mantiene piú o meno la stessa temperatura del sangue. Al mondo esistevano molti luoghi decisamente piú freddi. Eppure le donne continuavano a fare figli anche lí. «Ma soprattutto, – pensava, – questo freddo è una prova che devo superare, se voglio ritrovare Tengo».

Come sempre, la grande luna gialla e quella piccola, verde, splendevano nel cielo invernale. Nuvole di forme e dimensioni diverse scorrevano rapide. Nuvole candide e dense, con forme ben definite. La facevano pensare a blocchi compatti di ghiaccio che un fiume di neve sciolta conduce verso il mare. Mentre le guardava, ignorando da dove venissero e dove sarebbero svanite, ebbe la sensazione di essere stata trasportata ai confini del mondo. «Questo è l’estremo nord della ragione, – pensò Aomame. – Piú a nord non c’è niente. Solo una distesa di vuoto e caos».

La porta a vetri era chiusa quasi completamente, restava solo uno spiraglio, attraverso il quale lo squillo del telefono si udí appena. Aomame era assorta nei suoi pensieri, ma quel suono non le sfuggí. Il telefono squillò tre volte, seguí una pausa di trenta secondi, e poi tornò a squillare di nuovo. Era Tamaru. Aomame sollevò la coperta dalle ginocchia, aprí la porta finestra appannata dal vapore ed entrò nel soggiorno. L’interno era buio, riscaldato al punto giusto. Con le dita ancora infreddolite afferrò la cornetta.

– Leggevi Proust?

– Non riesco ad andare avanti, – rispose Aomame. Sembrava che stessero usando un linguaggio cifrato.

– Non ti piace?

– Non è che non mi piaccia. È difficile spiegare… mi sembra la storia di un altro mondo, totalmente diverso da questo.

In silenzio, Tamaru aspettava che proseguisse. Non aveva fretta.

– O piú che diverso, lontano… Ecco, è come se stessi leggendo un rapporto dettagliato su un piccolo pianeta lontano anni luce dal mondo in cui vivo. Riesco a visualizzare tutte le scene descritte, le comprendo. Sono estremamente vivide, particolareggiate. Però non sono in grado di collegare le immagini che conosco con quelle del libro. La distanza materiale è eccessiva. Per questo, dopo aver letto qualche pagina, sento il bisogno di tornare indietro per rileggere la stessa parte.

Aomame cercò le parole per proseguire. Tamaru continuava ad aspettare.

– Questo, però, non vuol dire che lo trovi noioso. La scrittura è sottile, minuziosa, e a modo mio sono riuscita a immaginare com’è fatto quel piccolo pianeta solitario. Però fatico ad avanzare nella lettura. È come se mi trovassi su una barca, navigando verso la sorgente di un fiume. Remo per un po’ e poi, mentre sto pensando a qualcosa, in attesa che le braccia si riposino… mi accorgo che la barca è tornata al punto di partenza, – disse Aomame. – Però credo che al momento sia il modo di leggere che mi è piú congeniale. Molto meglio che continuare seguendo solo la trama. Non so come spiegarlo, ma leggendo cosí ho l’impressione che il tempo non sia lineare, e non ha importanza se il prima e il dopo si invertono. Va bene in tutti e due i casi.

Aomame tentò di esprimersi con maggiore precisione.

– È come se stessi facendo il sogno di qualcun altro, e condividessimo delle sensazioni simultanee. Ma al di là della sincronia non c’è altro. Anche se le nostre sensazioni ci sembrano vicinissime, in realtà la distanza che ci divide è immensa.

– Pensi che Proust volesse provocare intenzionalmente queste sensazioni?

Aomame non poteva saperlo.

– D’altro canto, però, – continuò Tamaru, – nel mondo reale il tempo procede sempre in avanti. Non si ferma e non torna indietro.

– Certo. Nel mondo reale il tempo procede in avanti.

Mentre diceva quelle parole, Aomame guardò la porta a vetri. Era cosí? Il tempo procedeva davvero in avanti?

– È iniziata una nuova stagione, e il 1984 volge al termine, – disse Tamaru.

– Credo che non riuscirò a finire Alla ricerca del tempo perduto entro la fine dell’anno.

– Non importa, – rispose Tamaru. – Fai con calma. È un romanzo che è stato scritto piú di cinquant’anni fa. Non contiene informazioni urgenti.

«Forse, – pensò Aomame. – O forse no». Ormai non si fidava piú del tempo.

Tamaru le domandò:

– Sta bene la cosa dentro di te?

– Per adesso tutto fila liscio.

– Meglio cosí, – disse Tamaru. – Senti, ti ho parlato di quello sconosciuto basso e calvo che gironzolava intorno alla Villa?

– Sí. È tornato?

– No, qui non si vede piú. È stato nei paraggi per un paio di giorni e poi è sparito. Però è andato nell’agenzia immobiliare piú vicina, e con la scusa di cercare un appartamento si è informato sulla casa rifugio. Ha un aspetto che non si dimentica facilmente. E per di piú veste in modo appariscente. Tutte le persone che mi hanno parlato di lui se lo ricordano. È stato un gioco da ragazzi tenerlo d’occhio.

– Insomma, non è un tipo da ricerche e pedinamenti.

– Esatto. Non è affatto tagliato per quel genere di lavoro. Ha una testa enorme. Però sembra in gamba. È bravo a raccogliere informazioni: sa esattamente dove andare e cosa domandare. È svelto. Non tralascia niente di importante e non fa nulla che non lo sia.

– Ed è riuscito a mettere insieme un buon numero di informazioni sulla casa rifugio.

– Sa che è un centro di accoglienza per donne che hanno subito violenze domestiche, e che la signora la mette a disposizione gratuitamente. Con ogni probabilità, sa pure che la signora è iscritta al circolo sportivo dove lavoravi, e che tu eri la sua istruttrice privata. Tutte cose che avrei scoperto anch’io al posto suo.

– Vuoi dire che è bravo quanto te?

– Sono risultati a cui arriverebbe chiunque abbia voglia di lavorare, sappia raccogliere informazioni e sia allenato a usare la logica.

– Invece non credo che al mondo ci siano molte persone del genere.

– Qualcuna c’è. Ci chiamano «professionisti».

Aomame si sedette e con un dito si toccò la punta del naso ancora ghiacciato. Poi domandò:

– Quindi non si è piú fatto vedere nei paraggi della Villa?

– È perfettamente consapevole che attirerebbe troppa attenzione. Inoltre sa che le videocamere a circuito chiuso hanno registrato i suoi movimenti. Avrà raccolto il maggior numero di informazioni possibile in quel breve lasso di tempo, e poi si sarà spostato in un altro terreno di caccia.

– Vale a dire che quell’uomo ha scoperto il legame tra me e la signora. Ha capito che non si tratta di un semplice rapporto tra l’istruttrice di un circolo sportivo e una cliente ricca, e che l’esistenza della casa rifugio c’entra con tutto questo. Avrà capito anche che stiamo portando avanti dei progetti.

– Forse, – disse Tamaru. – Per come la vedo io, quell’uomo si sta avvicinando alla sostanza delle cose. Poco a poco.

– Ascoltandoti, però, mi sono fatta l’idea che stia agendo da solo e che non faccia parte di un’organizzazione.

– Anch’io la penso cosí. A meno che non ci siano motivi particolari, è impossibile che una grande organizzazione si serva di una persona dall’aspetto cosí vistoso per un lavoro di investigazione privata.

– Ma, allora, a che scopo e per chi lavora quell’uomo?

– Mah, – disse Tamaru. – In questo momento posso dire soltanto che è bravo e pericoloso. Per il resto, possiamo solo fare supposizioni, e il mio modesto parere è che, in un modo o nell’altro, il Sakigake c’entra qualcosa.

Aomame soppesò l’ipotesi di Tamaru. – E poi si è spostato in un altro terreno di caccia.

– Esatto. Non so dove. Ma la logica mi porta a pensare che il luogo in cui è diretto, o che almeno sta cercando, è il tuo nascondiglio.

– Però mi hai assicurato che è quasi impossibile trovare questo posto.

– Infatti. Non esiste nulla che suggerisca un collegamento tra la signora e l’appartamento. Abbiamo cancellato ogni traccia. Ma tutto ciò vale solo nel breve periodo. Se l’assedio si prolunga, quando meno te l’aspetti, vengono fuori le crepe. Per esempio, potresti essere vista mentre passeggi fuori. È solo una delle possibilità.

– Non esco mai da qui, – tagliò corto Aomame. Ma non era vero. Era uscita dall’appartamento due volte. La prima quando era corsa nel parco di fronte per incontrare Tengo; la seconda quando aveva raggiunto in taxi la piazzola per la sosta d’emergenza sulla tangenziale n. 3, nei pressi di Sangenjaya, in cerca dell’uscita. Forse, però, non era il caso di dirlo a Tamaru.

– Allora come farà a trovarmi?

– Se fossi in lui, controllerei di nuovo tutte le informazioni personali sul tuo conto. Che tipo di donna sei, da dove vieni, cosa hai fatto finora, a cosa pensi, quali sono le tue aspirazioni, cosa non ti va a genio. Raccoglierei tutti i dati possibili, li allineerei su un tavolo e li analizzerei da cima a fondo.

– Mi metteresti a nudo, insomma.

– Proprio cosí. Ti metterei a nudo sotto una luce chiara e fredda. Con delle pinze e una lente d’ingrandimento ti esaminerei nei minimi particolari, per scoprire in base a quali schemi ragioni e agisci.

– Non sono molto sicura di averti capito… Dissezionare le mie abitudini personali avrebbe come risultato la scoperta del mio nascondiglio?

– Non lo so, – disse Tamaru. – Forse sí, oppure no. Dipende. Dico solo che se fossi al posto suo mi comporterei cosí. Non mi verrebbe in mente altro. Ogni essere umano ha degli schemi regolari su cui si fondano i suoi pensieri e le sue azioni. Ed è in questi schemi che spesso si nasconde il suo punto debole.

– Sembra una ricerca scientifica.

– L’uomo non può vivere senza regolarità. Uno schema è come un tema in musica. Ma allo stesso tempo, quella routine pone un freno ai suoi pensieri e alle azioni, limita la libertà. Stabilisce le sue gerarchie, le priorità, e talvolta rifiuta la logica. Per parlare della nostra situazione, tu dici che non vuoi spostarti dal luogo in cui ti trovi, o per lo meno, che fino alla fine dell’anno rifiuterai di trasferirti in un posto piú sicuro perché stai cercando qualcosa. E fino a quando non l’avrai trovato, non ti allontanerai. Forse, non ti vuoi allontanare.

Aomame restò in silenzio.

– Di cosa si tratta, e quanto lo desideri, non saprei dirlo con precisione, né ho intenzione di chiedertelo. Ma per come la vedo io, quel qualcosa, adesso, è il tuo personale punto debole.

– Forse è cosí, – ammise Aomame.

– Il Testone, probabilmente, lo sta già cercando. Scoverà il fattore personale che ti limita, e non avrà pietà. È convinto che gli aprirà un varco. E se è bravo come penso, grazie al materiale frammentario che nel frattempo avrà raccolto su di te, potrebbe anche scoprire dove ti nascondi.

– Non credo che ci riuscirà, – disse Aomame. – Non può percorrere la via che mi lega a quel qualcosa, perché l’ho sempre tenuto ben chiuso dentro di me.

– Sei sicura al cento per cento di quello che dici?

Aomame rifletté. – Non al cento per cento. Diciamo al novantotto.

– Allora è meglio stare attenti a quel due per cento. Come ti ho detto prima, a mio modo di vedere quell’uomo è un professionista capace e perseverante.

Aomame non rispose.

Tamaru riprese:

– Un professionista è come un cane da caccia. Sente odori che sfuggono alle persone normali, suoni che gli altri non odono. Uno che agisce come tutti gli altri, non è un professionista. E se lo diventa, non sopravvive a lungo. Dobbiamo fare attenzione. Sei una persona prudente, lo so bene. Ma adesso devi esserlo ancora di piú. Le questioni piú importanti non seguono le percentuali.

– C’è una cosa che vorrei chiederti, – disse Aomame.

– Dimmi pure.

– Che faresti se il Testone ricomparisse da quelle parti?

Tamaru restò in silenzio per qualche istante. Era come se non si aspettasse quella domanda. – Forse niente. Lo lascerei stare. Per il momento qui non può fare danni.

– E se facesse qualcosa che ti innervosisce?

– Per esempio?

– Non lo so. Qualcosa che ti dà fastidio.

Un piccolo rumore arrivò dalla gola di Tamaru. – In tal caso, gli invierei un messaggio.

– Un avviso tra professionisti?

– Sicuramente… – disse Tamaru. – Ma prima di prendere iniziative concrete avrei bisogno di sapere a chi è legato. Se si scoprisse che ha le spalle coperte, rischierei di ritrovarmi nei guai. Non farei nessun passo, senza aver verificato come stanno le cose.

– Ti accerti della profondità dell’acqua prima di tuffarti in piscina.

– Diciamo cosí.

– Però sei abbastanza sicuro che agisca per conto suo, che non ci sia nessuno a sostenerlo.

– Sí, è vero. Ma l’esperienza mi ha insegnato che a volte il mio intuito sbaglia. E poi, purtroppo, non ho occhi dietro la testa, – disse Tamaru. – Ad ogni modo, guardati bene intorno. Osserva se ci sono persone sospette in giro, o se noti modifiche intorno a te. Nel caso ti accorgessi di un cambiamento, anche minimo, avvisami subito.

– Va bene. Farò attenzione, – promise Aomame. «Certo, – si disse Aomame. – Essendo alla ricerca di Tengo, non mi lascerei mai sfuggire il minimo dettaglio. Però, come ha appena detto Tamaru, anch’io ho solo due occhi».

– Penso di averti detto tutto.

– La signora sta bene? – domandò Aomame.

– Sta bene, – rispose Tamaru. Poi aggiunse: – Però è molto piú taciturna.

– Non è mai stata loquace.

Tamaru produsse un sottile gemito. Era come se in fondo alla gola avesse uno speciale organo atto a esprimere le emozioni. – Adesso lo è ancora meno.

Aomame immaginò il profilo dell’anziana donna, sola, seduta nella sua poltrona di pelle, intenta a guardare le farfalle che volavano lentamente. Un grande annaffiatoio poggiato a terra, vicino ai piedi. Aomame sapeva bene quanto fosse lieve il respiro della signora.

– Nel prossimo pacco metterò una confezione di madeleines, – disse Tamaru per concludere. – Potrebbero influire positivamente sullo scorrere del tempo.

– Grazie, – rispose Aomame.

In piedi in cucina, Aomame preparò una cioccolata calda. Aveva bisogno di riscaldarsi, prima di uscire sul terrazzo a riprendere la guardia. Portò a ebollizione il latte in un pentolino e vi fece sciogliere la polvere di cacao. Versò il liquido in una tazza grande e aggiunse la panna montata che aveva già preparato. Sedette al tavolo della cucina e sorseggiò la bevanda ripensando alla conversazione avuta con Tamaru. «Sarò messa a nudo sotto una luce piena e fredda da quell’uomo con la testa grossa. È un professionista in gamba e pericoloso».

Aomame indossò il piumino, si avvolse la sciarpa intorno al collo e tornò sul terrazzo con in mano la tazza di cioccolata bevuta per metà. Si mise a sedere sulla sedia da giardino e si coprí le gambe con una coperta. Lo scivolo era ancora deserto. In quell’istante, però, vide la sagoma di un bambino che se ne andava dal parco. Le sembrò strano che un ragazzino fosse solo, a quell’ora. Era basso e tozzo, con un berretto di lana. Dal balcone, attraverso una fessura nel pannello di plastica, Aomame lo osservava da un angolo visuale ristretto. Lui attraversò rapidamente il campo visivo e sparí nell’ombra dei palazzi. Per essere un bambino aveva la testa molto grande, ma forse era solo un’impressione.

In ogni caso non si trattava di Tengo. Aomame non se ne curò piú di tanto, quindi volse di nuovo lo sguardo sullo scivolo e sui banchi di nubi che scorrevano nel cielo. Mentre beveva la cioccolata, la tazza le scaldava le mani.

La figura che Aomame aveva scorto per un istante non era un bambino, ma Ushikawa in persona. Se ci fosse stata piú luce, o se lei l’avesse guardata piú a lungo, si sarebbe resa conto che quella testa era troppo grande per un ragazzino. E avrebbe capito che quel personaggio tozzo dal cranio fuori misura corrispondeva per filo e per segno alla descrizione dell’uomo che le aveva fatto Tamaru. Ma Aomame lo aveva visto solo per pochi secondi, e da una posizione tutt’altro che favorevole. Per le stesse ragioni, fortunatamente, Ushikawa non aveva notato la presenza di Aomame sul balcone.

A questo punto vengono in mente molti «se». Se Tamaru avesse interrotto prima la telefonata, se Aomame non avesse preparato la cioccolata indugiando nelle sue riflessioni, di sicuro sarebbe riuscita a vedere Tengo seduto sullo scivolo con gli occhi fissi al cielo. Sarebbe corsa fuori di casa e finalmente lo avrebbe rincontrato.

Nello stesso tempo, però, se cosí fossero andate le cose, Ushikawa, che stava sorvegliando Tengo, avrebbe subito riconosciuto Aomame, avrebbe scoperto dove viveva e sarebbe andato di corsa a informare i due del Sakigake.

Nessuno quindi può dire se il fatto che Aomame non aveva visto Tengo fosse stato un male o un bene. In ogni caso, Tengo era salito un’altra volta sullo scivolo ed era stato a guardare le due lune, la grande e la piccola, e le nubi che attraversavano il cielo. Nascosto nell’ombra, Ushikawa lo teneva d’occhio. Nel frattempo Aomame si era allontanata dal balcone, aveva parlato al telefono con Tamaru, si era preparata una cioccolata e l’aveva bevuta. Erano trascorsi, cosí, appena venticinque minuti. Ma si trattava, in un certo senso, di venticinque minuti decisivi. Quando Aomame si era infilata il piumino ed era tornata sul balcone con la tazza tra le mani, Tengo aveva già lasciato il parco. Ushikawa non lo aveva seguito subito. Aveva bisogno di restare da solo per controllare qualcosa. Quando ebbe finito, si allontanò a passo svelto. Fu in quella manciata di secondi che Aomame lo intravide.

Le nuvole continuavano a fendere il cielo veloci, dirette a sud, verso la baia di Tōkyō, prima di sorvolare l’immenso oceano Pacifico. Era impossibile indovinarne il destino. Cosí come è impossibile sapere cosa succede all’anima dopo la morte.

Ad ogni modo, il cerchio si stava stringendo. Ma né Aomame né Tengo sapevano che si stava chiudendo intorno a loro con tanta rapidità. Ushikawa, invece, ne era consapevole perché era lui stesso a darsi da fare affinché ciò avvenisse. Però, nemmeno lui riusciva ancora ad avere il quadro completo della situazione. Ignorava l’aspetto piú importante, ossia che la distanza tra sé e Aomame si era ormai ridotta a poche decine di metri. Inoltre, cosa che a Ushikawa accadeva piuttosto di rado, la sua mente era in uno stato di assoluta confusione quando lasciò il parco, e quindi non riusciva a organizzare razionalmente i pensieri.

Alle dieci il freddo si fece piú pungente. Aomame si decise ad alzarsi e a rientrare nell’appartamento riscaldato. Si spogliò e fece un bagno caldo. Mentre l’acqua bollente lavava via il freddo dal suo corpo, si portò le mani al ventre. Avvertiva un lieve rigonfiamento. Chiuse gli occhi, cercando di sentire la presenza della piccola cosa. Non le restava molto tempo, doveva trovare il modo di informare Tengo, dirgli che portava suo figlio dentro di sé. E che, pur di proteggerlo, avrebbe lottato fino alla morte.

Dopo essersi cambiata si mise a letto e si addormentò su un fianco, nel buio. Poco prima di sprofondare in un sonno profondo, sognò la vecchia signora. Aomame si trovava con lei nella serra di Villa dei Salici, e insieme guardavano le farfalle. La serra aveva la penombra e il tepore di un utero. C’era anche l’albero della gomma che aveva lasciato nel vecchio appartamento. Era stato trattato con cura e adesso era di un bel verde brillante, tanto che lei stentava a riconoscerlo. Una farfalla mai vista, proveniente dai paesi del sud, si era posata su una delle sue foglie carnose. Ripiegate le grandi ali variopinte, sembrava immersa in un sonno sereno. Aomame era felice.

Nel sogno la sua pancia era molto grossa. Il giorno del parto era vicino. Aomame sentiva il battito della piccola cosa. Il battito della piccola cosa si univa al suo, producendo un piacevole ritmo congiunto.

L’anziana donna era seduta accanto a lei, dritta sulla schiena come al solito, le labbra serrate, il respiro appena percettibile. Non parlavano tra loro, non volevano svegliare la farfalla. La signora aveva un’aria distaccata, come se non si fosse accorta che Aomame le sedeva accanto. Aomame, naturalmente, sapeva quanto la signora la stesse proteggendo. Ciò nonostante, non riusciva ad allontanare una sensazione di inquietudine. Le braccia della signora, poggiate sulle ginocchia, le sembravano troppo sottili e fragili. Le mani di Aomame cercarono inconsciamente la pistola, ma non la trovarono da nessuna parte.

Pur essendo immersa nel sogno, sapeva di stare sognando. A volte le capitava. Si ritrovava in una realtà chiara e nitida, ma con la consapevolezza che non era la realtà. Quello che vedeva erano le immagini, minuziosamente descritte, di un altro piccolo pianeta.

In quel momento qualcuno aprí la porta, e un vento gelido e sinistro penetrò nella serra. La grande farfalla si svegliò dispiegando le ali, e con un gesto lieve si alzò in volo dall’albero della gomma. Chi era? Aomame girò la testa per guardare, ma prima che riuscisse a vedere chi fosse, il sogno s’interruppe.

Aomame si svegliò in un bagno di sudore freddo, sgradevole. Si tolse il pigiama umido e si strofinò con un asciugamano, poi indossò una T-shirt pulita. Restò per qualche istante seduta sul letto. «Sta per succedere qualcosa di brutto. Qualcuno ha preso di mira la piccola cosa ed è molto vicino. Devo trovare Tengo prima possibile». Ma al momento non c’era niente che potesse fare, salvo vigilare ogni sera sul parco. Doveva essere prudente, paziente, non doveva stancarsi mai di tenere gli occhi fissi su quella minuscola porzione di mondo, su quell’unico punto in cima allo scivolo. Tuttavia, a una persona può capitare di lasciarsi sfuggire qualcosa. Ha solo due occhi, in fondo.

Aomame aveva voglia di piangere, ma non le uscí una lacrima. Si stese di nuovo sul letto, portò le mani al ventre e attese in silenzio che arrivasse il sonno.