Era un tranquillo giovedí mattina senza vento. Come sempre Ushikawa si svegliò prima delle sei e si sciacquò la faccia con l’acqua fredda. Poi, ascoltando il giornale radio della NHK, si lavò i denti e si fece la barba. Scaldò l’acqua in un pentolino e preparò dei cup noodles. Finito di mangiare, bevve un caffè solubile. Arrotolò il sacco a pelo e lo ficcò nell’armadio a muro, quindi andò a sedersi dietro alla macchina fotografica, vicino alla finestra. Il cielo, a oriente, aveva cominciato a schiarire. Si preannunciava una giornata mite.

Le facce delle persone che la mattina andavano al lavoro ormai le aveva impresse bene in mente, non c’era piú bisogno di fotografarle tutte. Uscivano a passo svelto tra le sette e le otto e mezzo, dirette alla stazione. Volti che gli erano divenuti familiari. Le voci chiassose dei bambini delle elementari che a gruppetti andavano a scuola gli giungevano alle orecchie, ricordandogli il periodo in cui le figlie erano ancora piccole. Le bambine amavano andare a scuola. Imparavano il piano e la danza classica, e avevano molti amici. Fino alla fine, Ushikawa non era mai riuscito a capacitarsi di quelle figlie cosí normali. Com’era possibile che fosse lui il padre?

Una volta finito il passaggio delle persone che si recavano al lavoro, il viavai di gente cessò quasi del tutto. Anche le voci chiassose dei bambini si spensero. Ushikawa staccò la mano dal telecomando che azionava il dispositivo di scatto e, fumando una Seven Stars con la schiena appoggiata alla parete, da uno spiraglio della tenda guardò il portone. Come sempre, dopo le dieci, era il turno del postino che, sceso da uno scooter rosso, distribuiva in fretta e furia la posta nelle apposite cassette. Da quanto Ushikawa poteva vedere, si trattava soprattutto di pubblicità inutili che presto sarebbero finite nella spazzatura senza neppure essere lette. Mentre il sole saliva nel cielo, la temperatura aumentava, e la maggior parte dei passanti si toglieva i cappotti.

Fukaeri si mostrò all’ingresso poco dopo le undici. Sotto un giaccone grigio indossava la stessa maglia nera a collo alto del giorno prima, jeans e scarpe da ginnastica, e portava degli occhiali da sole. Aveva una grossa borsa verde a tracolla, gonfia e informe, che sembrava stracolma di roba. Ushikawa si staccò dal muro, si posizionò dietro all’apparecchio fotografico montato sul treppiedi e guardò nel mirino.

Capí subito che la ragazza era in procinto di andarsene. Aveva ficcato tutte le sue cose nella borsa e stava per trasferirsi da un’altra parte, con l’idea di non tornare piú. Era piú che evidente. «Se ha deciso di partire, significa che mi ha visto, si è accorta che mi nascondo qui», pensò Ushikawa, con il cuore che gli batteva a mille.

Appena uscita dall’ingresso, la ragazza si fermò, e come l’ultima volta alzò lo sguardo verso il cielo, cercando qualcosa tra il garbuglio di fili elettrici e i trasformatori di corrente. Le lenti scure degli occhiali riflettevano, scintillando, la luce del sole, impedendo cosí a Ushikawa di intuire, dalla sua espressione, se finalmente avesse trovato quel qualcosa. Fukaeri restò ferma per circa trenta secondi poi, all’improvviso, inclinò la testa e puntò gli occhi sulla finestra dietro cui si nascondeva Ushikawa. Si tolse gli occhiali, infilandoli nella tasca del giaccone, corrugò le sopracciglia e mise a fuoco lo sguardo sul teleobiettivo che spuntava da un angolo della finestra. «Questa ragazza sa, – pensò di nuovo Ushikawa. – Sa che mi nascondo qui e la spio». E lei, seguendo il percorso contrario, dalla lente fino al mirino, scrutava lui, come acqua che risale controcorrente attraverso le curve di una tubatura idrica. A Ushikawa venne la pelle d’oca su entrambe le braccia.

Ogni tanto Fukaeri batteva le ciglia, le sue palpebre si abbassavano e si sollevavano lentamente, come creature autonome e silenziose immerse in pensieri profondi. Tutto il resto del suo corpo era immobile. Rimase a fissarlo cosí, con la testa inclinata da un lato, simile a un grande uccello altero, mentre lui non poteva piú staccarle gli occhi di dosso, come se il mondo si fosse fermato per un istante. Non soffiava un filo di vento. Neppure un suono faceva vibrare l’aria.

Poi finalmente smise di fissarlo. Sollevò di nuovo il viso e riprese a guardare il cielo, come poco prima. Questa volta, però, solo per qualche secondo. L’espressione del suo viso non era cambiata. Tirò fuori dalla tasca del giaccone gli occhiali da sole, li indossò, quindi si diresse verso la strada a passi svelti e decisi.

Forse Ushikawa doveva uscire per seguirla. Tengo, a quell’ora, non sarebbe rientrato, e lui aveva tutto il tempo necessario per verificare dove stesse andando Fukaeri. Scoprire il suo nuovo alloggio sarebbe potuto tornargli utile. Ma, per una ragione sconosciuta, non riuscí ad alzarsi dal pavimento. Il suo corpo era come pietrificato. Lo sguardo penetrante che la ragazza gli aveva lanciato attraverso il mirino sembrava avergli drenato dal corpo la forza necessaria a compiere qualsiasi azione.

«Non importa, – si confortò Ushikawa, ancora seduto per terra. – La persona che devo trovare è Aomame. Fukada Eriko è una figura interessante, ma marginale rispetto al mio obiettivo. Un personaggio secondario apparso in scena per caso. Se vuole andar via di qui, è libera di farlo».

Una volta in strada, Fukaeri camminò rapidamente verso la stazione senza voltarsi indietro nemmeno una volta. Ushikawa la seguí con lo sguardo tra le tende scolorite dal sole. Quando la borsa verde a tracolla che ballonzolava a destra e a sinistra sulla schiena della ragazza scomparve, strisciando sul pavimento Ushikawa si allontanò dalla macchina fotografica e appoggiò la schiena al muro. Poi aspettò che il corpo recuperasse le forze. Si mise tra le labbra una Seven Stars e l’accese con l’accendisigari, inalò il fumo a fondo, ma il tabacco non aveva alcun sapore.

Le sue energie, però, non tornavano. Continuava a sentire le membra pesanti e intorpidite. Poi si accorse che dentro di lui si era formato uno strano vuoto. Una vera e propria voragine che significava privazione, o forse il nulla. Ushikawa continuava a sedere, incapace di alzarsi, sprofondato in quello spazio sconosciuto che si era creato dentro di lui e che non ricordava di aver mai sperimentato nella vita. Sentiva un dolore acuto al petto, ma a essere precisi non era nemmeno un dolore. Era lo sbalzo di pressione che si produceva nel punto d’incontro tra la privazione e l’appagamento.

Rimase a lungo seduto al fondo di quella voragine. Con la schiena appoggiata al muro, fumando sigarette che non sapevano di niente. «Questo è il vuoto che la ragazza, andando via, ha lasciato dietro di sé, – pensò Ushikawa. – O forse no. Forse è qualcosa che avevo già dentro di me, e lei non ha fatto altro che rivelarmi la sua esistenza».

Ushikawa si rese conto che Fukada Eriko lo aveva scosso in ogni fibra. Quello sguardo fermo, profondo, penetrante, lo aveva sconvolto da cima a fondo, non solo nel corpo, ma nel suo intero essere, come se si fosse innamorato appassionatamente. Era la prima volta che provava una sensazione del genere.

«Ma no, è assurdo, – pensò. – Perché dovrei innamorarmi di quella ragazza? Non esisterebbe al mondo una coppia cosí male assortita. Lo so senza bisogno di andare in bagno a specchiarmi. E poi non è solo una questione di aspetto fisico. Da qualunque punto di vista, nessuno piú di me è distante da lei». Non si sentiva attratto fisicamente da Fukaeri. Riguardo alle sue esigenze sessuali, Ushikawa si accontentava di avere rapporti una o due volte al mese con una prostituta. La chiamava al telefono, si davano appuntamento in un albergo e facevano sesso. Era come andare dal barbiere.

Forse il problema era di natura spirituale. Dopo averci riflettuto a lungo, Ushikawa giunse a questa conclusione. Ciò che era nato fra lui e Fukaeri corrispondeva, per cosí dire, a uno scambio tra anime. La cosa aveva dell’incredibile, ma forse Ushikawa e quella bellissima ragazza, grazie agli sguardi che si erano lanciati dai lati opposti di quel teleobiettivo camuffato, si erano conosciuti a vicenda, fin nella parte piú oscura e profonda del loro essere. Anche se per un tempo brevissimo, fra loro c’era stato qualcosa di simile a un disvelamento spirituale reciproco. Poi lei era andata via, chissà dove, e lui si era ritrovato solo, perso in un grande vuoto.

«La ragazza sapeva che la stavo spiando con un teleobiettivo. Probabilmente, sapeva pure che l’avevo seguita fino al supermarket davanti alla stazione. In quella circostanza non si è girata nemmeno una volta, ma ha avvertito la mia presenza». Tuttavia Ushikawa non aveva colto negli occhi di Fukaeri nessun segno di biasimo per il suo comportamento meschino. «Nella parte piú segreta e oscura di sé, mi ha compreso», pensò. Lo sentiva.

Lei era apparsa, poi era andata via. «Venivamo da direzioni diverse, casualmente i nostri percorsi si sono incrociati, i nostri sguardi si sono incontrati. Ma un attimo dopo eravamo già lontani, ognuno per la sua strada. Non la incontrerò mai piú. È stato un evento irripetibile. Ma ammesso che la riveda, cosa potrei chiederle piú di quello che è avvenuto qui, poco fa? Adesso ci troviamo di nuovo alle estremità del mondo, separati, e non esistono parole che possano riempire questa distanza».

Ushikawa, ancora appoggiato alla parete, controllava dallo spiraglio della tenda il viavai delle persone. Poteva anche darsi che Fukaeri ci ripensasse e tornasse indietro, magari per riprendere qualcosa di importante che aveva dimenticato nell’appartamento. Ma la ragazza non tornò. Ormai aveva preso la sua decisione, era andata via per sempre.

Ushikawa passò il pomeriggio in uno stato di profonda impotenza. Era una condizione senza forma né peso. Persino il sangue scorreva lento e a fatica. La vista era leggermente offuscata e le articolazioni degli arti erano intorpidite. Se chiudeva gli occhi, sentiva nel petto il dolore acuto che lo sguardo di Fukaeri gli aveva lasciato dentro. Le fitte, come delle onde tranquille che si infrangono sulla battigia, si avvicinavano e si allontanavano. Poi di nuovo venivano e passavano. Ogni tanto il dolore si faceva cosí intenso che Ushikawa non poteva reprimere una smorfia. Contemporaneamente, però, si accorse che gli procurava un calore mai provato prima.

Né la moglie, né le figlie, né la casa di Chūō Rinkan, con il giardino e il prato, gli avevano mai dato una sensazione simile. Nel suo cuore c’era sempre stato un blocco di terra ghiacciata che non si era mai sciolto. Aveva trascorso tutta la vita con quel macigno senza nemmeno accorgersi di quanto fosse freddo, perché quella, per lui, era la temperatura normale. Tuttavia, lo sguardo di Fukaeri aveva sciolto quel nucleo gelido, anche se solo per un istante. E allo stesso tempo, Ushikawa aveva cominciato ad avvertire quel dolore in fondo al petto. Forse, fino a quel momento, il blocco di ghiaccio aveva attutito il dolore. Era, per cosí dire, un atto di difesa spirituale. Ma adesso che il dolore si era risvegliato, lui lo accettava, in un certo senso lo accoglieva con gratitudine, perché con esso era arrivato il calore. Se non lo avesse accettato, quel tepore non lo avrebbe riscaldato. Era una sorta di scambio.

Nel pomeriggio, in un piccolo angolo soleggiato della stanza Ushikawa assaporò il dolore e il calore, in pace, immobile. Era un giorno d’inverno sereno, senza vento. Per strada i passanti camminavano attraverso una luce gentile. Ma il sole, spostandosi progressivamente verso ovest, si nascose dietro gli edifici, e presto, insieme ai suoi raggi, sparí anche il cantuccio illuminato nel quale Ushikawa si era rifugiato. Il calore del pomeriggio si disperse e la sera si avvicinò con il suo freddo.

Ushikawa tirò un profondo sospiro e con un certo sforzo si staccò dal muro dove era rimasto appoggiato fino a quel momento. Il suo corpo era ancora intorpidito, ma non cosí tanto da impedirgli di spostarsi nell’appartamento. Infine, piano piano, si alzò in piedi, stirò braccia e gambe, ruotò bene il collo corto e grosso. Strinse e aprí piú volte le mani, poi fece i soliti esercizi di stretching sul tatami. Tutte le articolazioni scricchiolarono e i muscoli, a poco a poco, riacquistarono la loro elasticità.

Arrivò l’ora in cui gli adulti tornavano dal lavoro e i bambini da scuola. «Devo rimettermi in postazione, – si disse Ushikawa. – Che mi piaccia o meno, che sia giusto o sbagliato, non importa. Devo portare a termine quello che ho cominciato. È in gioco il mio destino. Non posso starmene per sempre in fondo a questo vuoto a fantasticare».

Ushikawa si piazzò di nuovo dietro alla macchina fotografica. Ormai era completamente buio, ma l’ingresso dell’edificio era illuminato. Probabilmente un timer, impostato su un’ora precisa, faceva in modo che la luce si accendesse automaticamente. Gli abitanti del palazzo varcavano il portone come anonimi uccelli che fanno ritorno a un povero nido, ma fra loro Kawana Tengo non si vedeva. Eppure tra non molto sarebbe dovuto tornare. Non era possibile che si trattenesse tanto a lungo al capezzale del padre. Di sicuro, per l’inizio della settimana successiva sarebbe rientrato a Tōkyō e avrebbe ripreso a lavorare. Mancavano pochi giorni, ormai. Forse, però, sarebbe tornato prima, quella sera stessa o l’indomani. Glielo diceva l’intuito.

«Sarò pure un essere brutto e triste, un verme che si contorce dietro una pietra bagnata. Sí, lo ammetto. Ma sono un verme molto abile, paziente, testardo. Non mi arrendo facilmente. Se trovo delle tracce, le seguo fino in fondo, a costo di arrampicarmi su un’alta parete verticale. Adesso devo ritrovare il mio blocco di ghiaccio. Ne ho bisogno».

Ushikawa si sfregò con vigore le mani dietro alla macchina fotografica. Poi verificò ancora una volta che le sue dieci dita si muovessero normalmente.

«Ci sono molte cose che le persone comuni sanno fare e io no. Su questo non ci sono dubbi. Per esempio giocare a tennis, sciare, lavorare in un’azienda, rendere felice una famiglia. In compenso, ci sono alcune piccole cose che a me riescono e a loro no. E in queste piccole cose sono molto bravo. Non mi aspetto che il pubblico applauda. Ma è arrivato il momento di mostrare al mondo di cosa sono capace».

Alle nove e mezzo Ushikawa concluse il lavoro di sorveglianza. Versò il contenuto di una lattina di zuppa di pollo in un pentolino, la riscaldò sul fornello da campeggio e la sorbí con un cucchiaio fino all’ultima goccia, accompagnandola con un paio di panini freddi. Mangiò una mela con tutta la buccia. Fece pipí, si lavò i denti, e dopo essersi spogliato, in maglietta e mutande, si infilò nel sacco a pelo che aveva srotolato sul pavimento. Chiuse la lampo fino al collo e si avvolse su se stesso come un bruco.

La giornata di Ushikawa si concluse cosí. Non si poteva dire che avesse dato grossi frutti. L’unico fatto degno di nota riguardava Fukaeri: la ragazza aveva fatto i bagagli ed era andata via, ma lui non sapeva dove. Ushikawa scosse la testa nel sacco a pelo. «Non mi riguarda», si disse. Poi, mentre il suo corpo infreddolito si riscaldava e la sua coscienza si faceva sempre piú sfocata, scivolò in un sonno profondo. E infine il piccolo blocco di ghiaccio riprese posto saldamente dentro il suo spirito.

L’indomani non accadde nulla di rilevante, e il giorno ancora successivo era sabato. Un’altra giornata calda e pacifica. Molti dormirono fino a tardi. Ushikawa sedette alla finestra, accese la radio a basso volume e sentí il notiziario, le informazioni sul traffico e le previsioni del tempo.

Poco prima delle dieci un grosso corvo si fermò per qualche istante sui gradini deserti del portone d’ingresso. L’uccello si guardò intorno circospetto, e mosse il capo alcune volte, come per annuire. Il becco grande e spesso andò su e giú, mentre le penne nere e lustre rilucevano al sole. Poi, come sempre, arrivò il postino sul suo scooter rosso e il corvo, contrariato, spiegò le ali e spiccò il volo con un unico breve gracchio. Il postino, dopo aver distribuito la posta nelle cassette, si allontanò, e al suo posto apparve uno stormo di passeri in cerca di cibo. Ispezionarono con aria indaffarata tutto intorno all’ingresso, alla ricerca di qualcosa di interessante da mangiare, ma non trovando nulla volarono via verso altri luoghi. Poi sopraggiunse un gatto a strisce. Doveva appartenere a qualche famiglia della zona, perché al collo aveva un collare antipulci. Ushikawa non l’aveva mai visto. Il gatto entrò nell’aiuola secca, fece la pipí e la annusò. L’odore, però, non dovette piacergli: fece vibrare i baffi con aria quanto mai infastidita, sollevò la coda e scomparve sul retro dell’edificio.

Nel corso della mattinata Ushikawa vide diversi inquilini lasciare il palazzo. Da come erano vestiti, si intuiva che uscivano per godersi il giorno di libertà, oppure per fare acquisti nel quartiere. Ormai aveva imparato a memoria il volto di tutti, anche se lui non provava nessun interesse per il carattere e la vita di quella gente. L’idea di immaginare che tipo di persone fossero non lo sfiorava nemmeno.

«Le vostre vite, per voi, sono importanti, – pensava. – Uniche e insostituibili, lo so bene. Ma per me sono del tutto insignificanti. Per me siete al massimo delle fragili figurine di carta che scorrono davanti a un fondale dipinto. Vi chiedo soltanto una cosa: Da brave figurine di carta, state al posto vostro e non intralciate il mio lavoro».

«Già, signora Pera, – disse rivolto alla signora di mezza età che vedeva passare in quel momento, e che aveva ribattezzato cosí per via del grosso sedere. – Lei è solo una figurina di carta, non una donna in carne e ossa. Lo sapeva? Anche se per essere di carta, è un po’ troppo cicciona».

Ma nel seguire quei pensieri, a poco a poco crebbe in lui la sensazione che tutte quelle figure nel paesaggio fossero prive di senso, inutili. Anzi, forse non esisteva nemmeno il paesaggio. Erano state quelle creature di carta, prive di sostanza, a ingannarlo. Ushikawa cominciava a sentirsi inquieto. Forse, a forza di starsene chiuso in quell’appartamento vuoto, senza mobili, a spiare la gente giorno dopo giorno, i suoi nervi erano andati in tilt. Doveva sforzarsi, almeno, di pensare a voce alta.

«Buongiorno, Signor Orecchie Lunghe, – disse rivolto al vecchio alto e magro che osservava dal mirino. Le punte delle orecchie dell’uomo spuntavano tra i capelli bianchi come due corni. – Una passeggiata? Bravo, camminare fa bene alla salute. E poi, guardi che bel tempo. Si diverta. Anch’io vorrei tanto fare una bella passeggiata e sgranchirmi le gambe, ma non posso. Purtroppo mi tocca starmene seduto qui tutto il giorno a sorvegliare l’entrata di questo palazzo schifoso».

Il vecchio, con indosso un cardigan e dei pantaloni di lana, aveva una schiena bella diritta. Con un fedele cane bianco al guinzaglio sarebbe stato perfetto, ma in quel condominio era vietato avere cani. Appena il vecchio uscí dal suo campo visivo, Ushikawa fu assalito da un inspiegabile senso di impotenza. «Tutto questo lavoro di sorveglianza si sta rivelando un buco nell’acqua, – pensò. – Il mio intuito non vale piú niente. In questa stanza vuota mi sono solo logorato i nervi, senza ottenere nessun risultato. Finirò come una statua di pietra di Jizō ai bordi della strada, con la testa consumata dai bambini che mentre le passano accanto la carezzano».

Dopo mezzogiorno Ushikawa mangiò una mela e dei cracker con il formaggio, seguiti da un onigiri ripieno di umeboshi. Finito il pasto, con le spalle al muro, si appisolò. Fu un sonno breve e senza sogni, ma quando riaprí gli occhi non riuscí a ricordare dove si trovasse. La sua memoria era una scatola cubica completamente nuda. Si guardò intorno, ma non c’era altro che vuoto. Poi, osservando meglio, capí di essere in una stanza in penombra, fredda e spoglia, senza mobili. Un luogo estraneo. Su un foglio di giornale, accanto a lui, il torsolo di una mela. Ushikawa aveva la mente confusa. «Cosa ci faccio in un posto cosí strano?» pensò.

Gli ci volle un po’ di tempo, ma alla fine ricordò che stava sorvegliando l’ingresso dell’edificio in cui abitava Tengo. «Ma certo, ecco qui la Minolta Single Lens Reflex con il teleobiettivo». Gli tornò in mente anche il vecchio con i capelli bianchi e le orecchie lunghe che era uscito fuori a passeggiare. I ricordi, come uccelli che al tramonto tornano nel bosco, riprendevano gradualmente il loro posto nella scatola vuota. Dopo un po’ emersero due fatti concreti:

1) Fukada Eriko era andata via.

2) Kawana Tengo non era ancora tornato.

Nell’appartamento di Tengo, al secondo piano, non c’era nessuno. Le tende alle finestre erano chiuse e solo il silenzio occupava quello spazio disabitato. Un silenzio totale, se non fosse stato per il termostato del frigorifero che ogni tanto entrava in funzione. Ushikawa provò a figurarsi la scena. Ma immaginare un appartamento deserto era come immaginare il mondo dopo la morte. Poi, d’un tratto, si ricordò dell’esattore della NHK con quel modo ostinato di bussare alla porta. Pur essendo rimasto a lungo a fissare l’entrata, Ushikawa non l’aveva visto uscire dall’edificio. Possibile che quell’uomo vivesse nel palazzo? E se fosse stato un inquilino che fingeva di essere un esattore per fare un dispetto ai vicini? Ma perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Era un’ipotesi morbosa, ma che altra spiegazione si poteva dare a un comportamento cosí anomalo? Ushikawa non ne aveva idea.

Kawana Tengo si mostrò all’ingresso dell’edificio quel sabato pomeriggio, poco prima delle quattro. Il cielo era ancora chiaro. Indossava una vecchia giacca a vento con il bavero alzato, un berretto da baseball blu, e in spalla aveva una borsa da viaggio. Entrò subito dal portone, senza guardarsi intorno. Un uomo della sua stazza non passava certo inosservato, e infatti, anche se con la mente ancora annebbiata, Ushikawa lo notò.

«Bentornato, signor Kawana, – mormorò, scattando tre foto consecutive. – Come sta suo padre? Sarà molto stanco, immagino. Ma adesso potrà riposare. Non c’è niente di meglio che tornare a casa propria, anche se si trova in uno stabile squallido come questo. A proposito, mentre lei è stato via Fukada Eriko ha fatto i bagagli e se n’è andata. Lo sapeva?»

Tengo, naturalmente, non poteva sentirlo. Ushikawa stava parlando con se stesso. Poi gettò un’occhiata all’orologio e annotò sul taccuino: « Ore 15:56. Ritorno di Kawana Tengo».

Nell’istante in cui Tengo varcò l’ingresso dell’edificio, da qualche parte si spalancò una porta, e la mente di Ushikawa riacquistò il senso della realtà. Come quando l’atmosfera riempie il vuoto, in un attimo i suoi sensi divennero acuti e un’energia nuova gli attraversò il corpo. Ushikawa tornò a sentirsi una parte del mondo materiale, un elemento utile del suo ingranaggio. Le sue orecchie registrarono quel piacevole clic. La circolazione sanguigna si fece piú rapida e la dose giusta di adrenalina si diffuse per tutto il corpo. «Ah, finalmente. Ora ci siamo, – pensò Ushikawa. – Ecco, sono di nuovo io. E questo è davvero il mondo».

Tengo ricomparve all’ingresso dopo le sette di sera. Con il tramonto si era sollevato il vento e la temperatura era scesa in modo brusco. Indossava una felpa con sopra un giubbotto di pelle e dei blue jeans scoloriti. Uscito dal portone si fermò, guardandosi intorno, ma non sembrò trovare niente di insolito, e quando diede un’occhiata in direzione di Ushikawa, non si accorse della sua presenza. «Non è come Fukada Eriko, – pensò Ushikawa. – Lei è un essere speciale. Vede cose che gli altri non vedono. Invece lei, caro Tengo, nel bene e nel male è una persona comune. Quindi non può vedermi».

Dopo aver constatato che tutto era nella norma, Tengo chiuse la lampo del giubbotto fino al collo, e con le mani in tasca si incamminò. Subito Ushikawa si infilò in testa il berretto di lana, si avvolse intorno al collo la sciarpa, mise le scarpe e scese in strada per seguirlo.

Poiché era pronto ad andargli dietro nel caso fosse uscito, non aveva perso tempo in preparativi. Pedinarlo naturalmente comportava dei rischi. Se Tengo lo avesse visto anche solo per una frazione di secondo, con il fisico e l’aspetto che si ritrovava, lo avrebbe notato subito, e avrebbe capito. Ma il buio giocava in suo favore. Se manteneva una certa distanza, sarebbe riuscito a passare inosservato.

Tengo camminava lentamente, voltandosi indietro a piú riprese, ma Ushikawa fu attento a non farsi scoprire. Qualcosa nella grande schiena di Tengo diede a Ushikawa la sensazione che fosse immerso nelle sue riflessioni. Forse pensava a Fukaeri, alla sua partenza improvvisa. Dalla direzione che aveva preso, Ushikawa pensò che si stesse dirigendo verso la stazione. Forse doveva prendere un treno. In quel caso, seguirlo sarebbe stato piú complicato. La stazione era ben illuminata e il sabato sera non ci sarebbero stati molti passeggeri. L’aspetto di Ushikawa sarebbe spiccato fatalmente. Allora, tanto valeva rinunciare al pedinamento.

Ma Tengo non era diretto alla stazione. Dopo un po’, infatti, svoltò a un angolo prendendo una direzione diversa. Continuò a camminare lungo una strada semideserta, quindi si fermò davanti al Mugi atama, un piccolo locale frequentato soprattutto da giovani. Controllò l’ora, e dopo aver riflettuto qualche istante, entrò. «Mugi atama, – pensò Ushikawa, scuotendo la testa. – Che nome assurdo per un bar!»

Nascosto dietro un lampione, Ushikawa si guardò intorno. Probabilmente Tengo aveva intenzione di bere qualcosa e mangiare un boccone. Non sarebbe uscito prima di trenta minuti, nella peggiore delle ipotesi un’ora. Ushikawa cercò con lo sguardo un posto adatto per passare quel tempo controllando l’ingresso del locale. Ma nei paraggi avvistò soltanto una latteria, una sala riunioni del movimento religioso Tenrikyō e una rivendita di riso all’ingrosso, e per di piú tutte avevano le saracinesche abbassate. «Accidenti», pensò Ushikawa. Da nord-ovest soffiava un forte vento che trascinava lontano le nuvole. Sembrava impossibile che solo poche ore prima l’aria fosse tiepida e mite. L’idea di starsene fermo mezz’ora, forse un’ora, ai bordi della strada, tramortito dal freddo e senza fare nulla, non lo entusiasmava affatto.

«E se me ne andassi? – pensò. – Tanto Tengo è qui solo per mangiare. Non vale la pena di fare tutta questa fatica». Nel frattempo avrebbe potuto concedersi anche lui un piatto caldo da qualche parte prima di tornare all’appartamento. Tanto anche Tengo sarebbe rientrato subito a casa. L’idea lo attirava. Si immaginò di entrare in un ristorantino ben riscaldato e divorare una scodella di oyakodon. Da qualche giorno, ormai, non consumava un pasto decente. Avrebbe potuto bere anche del sake caldo. Tanto, con quel freddo, bastava uscire in strada per smaltire all’istante l’effetto dell’alcol.

Ma c’era anche la possibilità di uno scenario diverso. E se Tengo avesse un appuntamento al Mugi atama? Non era da escludere. Uscendo di casa, era andato dritto verso quel locale, senza alcuna esitazione, e prima di entrare aveva controllato l’ora. Forse c’era qualcuno, dentro, ad aspettarlo. Oppure quel qualcuno stava per raggiungerlo. Se Ushikawa aveva visto giusto, sarebbe stata un’occasione da non perdere. Non poteva lasciarsi sfuggire quella persona. Doveva restare lí, in piedi, a tenere d’occhio l’ingresso del bar, a costo di ghiacciarsi le orecchie. Fu cosí che, rassegnato, scacciò dalla mente il pensiero dell’oyakodon e del sake caldo.

Forse Tengo aveva un appuntamento con Fukaeri. Oppure, chissà, con Aomame. A questo pensiero Ushikawa ritrovò la sua determinazione. «La pazienza è la mia qualità migliore, – si disse. – Dal momento che c’è una piccola possibilità, la marcherò stretta». Sí, non doveva mollare, nemmeno se l’avesse sferzato la pioggia, trascinato il vento, bruciato il sole, picchiato un bastone. Se avesse abbandonato la presa, chi poteva dire quando sarebbe stato di nuovo in grado di riafferrarla? D’altra parte, la vita gli aveva insegnato lo stoicismo: sapeva bene che nel mondo esistevano sofferenze ben peggiori di quella.

Ushikawa si appoggiò al muro e, nascondendosi tra un palo dell’elettricità e dei manifesti del partito comunista giapponese, tenne lo sguardo puntato sull’ingresso del Mugi atama, la sciarpa verde fin sotto al naso, e le mani infilate nelle tasche del giaccone. Ogni tanto tirava fuori un fazzoletto di carta e si soffiava il naso, l’unico gesto che interrompeva la sua immobilità. A tratti, trasportati dal vento, gli giungevano alle orecchie gli annunci dei treni della stazione di Kōenji. Fra i pochi passanti che lo scorgevano acquattato nell’oscurità, alcuni affrettavano il passo spaventati. Anche se il buio non permetteva loro di distinguerne il viso, la sagoma tozza di Ushikawa appariva nelle tenebre come un sinistro fantoccio.

«Che diavolo starà bevendo e mangiando Tengo?» si chiedeva Ushikawa. Piú ci pensava e piú aumentavano la fame e il freddo. Tuttavia non riusciva a tenere a freno l’immaginazione. Non importava il piatto, e pazienza se doveva rinunciare al sake caldo o all’oyakodon. Avrebbe voluto mangiare come gli altri, in un posto ben riscaldato. Si sarebbe accontentato di qualsiasi cosa: tutto pur di non starsene lí, al buio e in pieno vento, a subire gli sguardi sospettosi dei passanti.

Ma Ushikawa non aveva scelta. Doveva aspettare, battendo i denti nel mezzo di una corrente gelida, che Tengo uscisse dal locale. Pensò alla sua casa di Chūō Rinkan, alla tavola del soggiorno dove sicuramente ogni sera veniva servita una cena calda. Eppure di quei pasti non ricordava quasi niente. «Che mangiavamo allora?» si chiese. Aveva la sensazione che quel periodo appartenesse a una vita precedente. C’era una volta, a cinque minuti di cammino dalla stazione di Chūō Rinkan, sulla linea Odakyū, una casa tutta nuova nella quale, ogni giorno, veniva imbandita una tavola con piatti fumanti. Due bambine suonavano il piano e fuori un cucciolo con un buon pedigree scorrazzava spensierato sul tappeto erboso del giardino.

Dopo trentacinque minuti Tengo uscí, solo, dal locale. «Non male. Poteva andare molto peggio», si consolò Ushikawa. Meglio trentacinque minuti che un’ora e mezza di sofferenza. Il suo corpo era completamente infreddolito, ma le orecchie non erano ancora ghiacciate. Mentre Tengo era nel bar, Ushikawa non aveva notato nessun cliente sospetto. Era entrata una coppia di giovani e non era uscito nessuno. Probabilmente Tengo si era accontentato di bere un bicchiere e di mangiare qualcosa di leggero senza compagnia. Ushikawa riprese a pedinarlo, tenendosi sempre a distanza. Tengo, percorrendo la stessa strada di prima in senso inverso, aveva l’aria di voler tornare subito a casa.

Improvvisamente, però, cambiò direzione, imboccando una stradina laterale che Ushikawa non conosceva. Contrordine: non stava tornando a casa. Di nuovo, sembrava che Tengo fosse assorbito nelle sue riflessioni, questa volta con un trasporto ancora maggiore. Non si voltava nemmeno piú indietro. Ushikawa, nel frattempo, si guardava intorno, leggeva i numeri civici delle case, cercando di memorizzare il tragitto in modo da poterlo rifare da solo. Non era pratico della zona, ma a giudicare dal rumore incessante delle automobili, simile alla corrente di un fiume, intuí che si trovavano in prossimità del raccordo anulare n. 7. Poco dopo Tengo affrettò il passo. Si stava avvicinando alla sua destinazione.

«Bene, – pensò Ushikawa. – È diretto da qualche parte. Meno male. La mia pazienza è stata ricompensata».

Tengo stava attraversando un quartiere residenziale. Era sabato sera, faceva freddo e tirava vento, le persone preferivano il tepore delle case, sedute davanti al televisore con una bevanda calda in mano. Fuori non c’era quasi nessuno. Ushikawa continuava a seguire Tengo, tenendosi a debita distanza. Alto e grosso com’era, sarebbe stato difficile perderlo di vista anche in mezzo a una folla. Si limitava a camminare dritto davanti a sé, la testa leggermente abbassata, inseguendo i suoi pensieri. In fondo, era un uomo leale e onesto. Uno che non sapeva fingere. «Tutto il contrario di me», pensò Ushikawa.

Anche la donna che Ushikawa aveva sposato amava mentire. O meglio, era incapace di vivere senza mentire. Se uno le avesse chiesto l’ora, c’erano buone possibilità che lei, intenzionalmente, desse la risposta sbagliata. Ushikawa non era cosí. Lui ricorreva ai sotterfugi solo quando era costretto, e sempre nel lavoro. Nel caso in cui gli avessero chiesto l’ora, a meno che non avesse avuto una ragione valida per farlo, non avrebbe mentito. Anzi, avrebbe dato l’ora giusta usando anche un tono gentile. Sua moglie, invece, mentiva su qualsiasi cosa, di proposito, in ogni circostanza. Si ingegnava ad alterare la verità anche quando non era necessario. Si era persino ringiovanita di quattro anni. Ushikawa se ne era accorto quando avevano presentato i documenti per il matrimonio, ma fece finta di nulla. Non capiva il bisogno di quelle bugie: erano talmente banali e inutili che un giorno o l’altro sarebbero state scoperte. Era inevitabile. Figuriamoci, poi, se Ushikawa si sarebbe preoccupato per quella differenza di età. C’erano molte altre cose ben piú importanti. Se sua moglie aveva sette anni piú di lui, che problema c’era?

A mano a mano che si allontanavano dalla stazione, i passanti si facevano sempre piú rari. Infine Tengo entrò in un piccolo parco per bambini che si trovava in un angolo del quartiere. Era deserto. «Non c’è da stupirsi, – pensò Ushikawa. – A chi verrebbe in mente di passeggiare in un parco come questo in una notte di dicembre gelida e ventosa?» Tengo passò sotto la luce bianca del lampione ai vapori di mercurio e si diresse subito verso uno scivolo. Salí gli scalini e arrivò in cima.

Ushikawa lo osservava nascosto dietro una cabina telefonica, aggrottando la fronte. «Uno scivolo?» Cosa ci faceva un uomo grande e grosso su uno scivolo per bambini con quel freddo? E per giunta in un posto non molto vicino a casa sua. Eppure si era recato lí espressamente, con uno scopo preciso. Non si poteva nemmeno dire che fosse un parco particolarmente grazioso. Anzi, era angusto e squallido. Uno scivolo, due altalene, un castello di tubi metallici dove i bambini potevano arrampicarsi e una buca con la sabbia. Un lampione ai vapori di mercurio che sembrava aver illuminato la fine del mondo. Un albero di keyaki spoglio e sgraziato. Una toilette, chiusa a chiave, che serviva come base per i graffiti. Tutto qui. Non c’era niente, in quel posto, che allietasse lo spirito o stimolasse la fantasia. Almeno non in una sera fredda come quella. Chissà, magari in un pomeriggio di maggio, con una temperatura gradevole, sarebbe stato diverso.

Possibile che Tengo avesse un appuntamento? Aspettava l’arrivo di qualcuno? Ushikawa ne dubitava. Il suo atteggiamento non faceva pensare a niente del genere. Una volta dentro il parco, ignorando il resto delle attrezzature, si era diretto con decisione verso lo scivolo. Tengo è venuto qui per salire sullo scivolo. Era l’unica certezza di Ushikawa.

Forse, salire su quello scivolo per pensare era una sua vecchia abitudine. Magari trovava che salire lassú, di notte, lo aiutasse a riflettere sulle trame dei romanzi, o a ragionare sulle formule matematiche. Forse il suo cervello girava tanto piú velocemente quanto piú era buio, il vento freddo, e il parco squallido. Ushikawa ignorava completamente il modo di pensare degli scrittori (o dei matematici). Sapeva soltanto che il suo spirito pratico gli suggeriva di continuare a seguire le mosse di Tengo, senza perdersi d’animo. Le lancette del suo orologio segnavano le otto precise.

Tengo sedeva in cima allo scivolo ripiegato su se stesso. Alzò gli occhi al cielo, poi girò la testa da un lato e dall’altro, come se cercasse qualcosa. Infine puntò lo sguardo in una direzione ben precisa. A quel punto restò immobile.

A Ushikawa tornò in mente una vecchia canzone sentimentale di Sakamoto Kyū. «Guarda le stelle di notte | le piccole stelle». Cominciava proprio con quei versi, ma il resto delle parole non lo conosceva, né gli interessava saperlo. Il sentimento, come il senso della giustizia, era un campo in cui si sentiva a disagio. Ma Tengo, in cima allo scivolo, stava contemplando le stelle in virtú di un sentimento?

Ushikawa imitò Tengo e sollevò gli occhi al cielo, ma non vide nessuna stella. Kōenji, circoscrizione di Suginami, Tōkyō, non era certo il luogo piú adatto per ammirarle. Insegne al neon e illuminazioni stradali tingevano il firmamento, opacizzandolo. Magari, forzando lo sguardo, si riusciva a distinguerne qualcuna, ma ci sarebbero volute una vista e una concentrazione eccezionali. Quella notte, inoltre, l’andirivieni delle nuvole era piuttosto frenetico. Eppure Tengo se ne stava immobile sullo scivolo a scrutare un angolo di cielo.

«Che uomo irritante. Che bisogno c’è di appollaiarsi su uno scivolo a meditare e a guardare il cielo in una notte fredda come questa?» Tuttavia Ushikawa non era nella posizione di poterlo criticare. In fondo, la scelta di pedinarlo era stata sua. E se adesso ne subiva le conseguenze, la responsabilità non era di Tengo. Lui, come ogni libero cittadino, aveva tutto il diritto di guardare il cielo quanto e dove voleva, in qualsiasi stagione dell’anno.

«Però che freddo», pensò Ushikawa. Già da un po’ doveva fare pipí, ma era costretto a tenersela. La toilette era chiusa con un lucchetto robusto, e per quanto non si vedesse un passante nel raggio di un chilometro, non se la sentiva di urinare accanto a una cabina telefonica. «Dài, sbrigati, – pensò, mentre saltellava da un piede all’altro. – Non so se stai meditando, se ti sei abbandonato al sentimentalismo, o se osservi i corpi celesti. Però sentirai freddo anche tu. Perché non torni a casa a riscaldarti? È vero, quando torneremo né tu né io troveremo qualcuno ad aspettarci, ma è sempre meglio che stare qui, no?»

Tengo non dava cenno di volersi alzare. A un certo punto smise di fissare il cielo e spostò lo sguardo su un edificio di recente costruzione dall’altro lato della strada. Circa metà delle finestre erano illuminate. Tengo le osservava intensamente. Ushikawa fece altrettanto, inchiodò lo sguardo su quella palazzina ma non trovò nulla che lo colpisse. Era un normalissimo condominio, come se ne vedevano tanti. Abbastanza elegante, ma non di lusso. Il design era raffinato, e le piastrelle che ricoprivano la facciata sembravano roba costosa. L’ingresso era ampio e luminoso. Tutt’altro genere rispetto all’edificio malridotto dove abitava Tengo.

Stava pensando che gli sarebbe piaciuto vivere in un palazzo come quello? No, impossibile. Per quanto ne sapeva Ushikawa, Tengo non era un tipo da grandi pretese riguardo al posto in cui vivere. Come non gli importava degli abiti che indossava. C’erano tutte le condizioni perché non fosse infastidito dall’appartamento in cui viveva. A lui bastava che un tetto lo riparasse dal freddo. Era un tipo cosí. Le sue riflessioni, in cima allo scivolo, erano senz’altro di altra natura.

Dopo aver guardato le finestre del palazzo, Tengo tornò a fissare il cielo. Ushikawa, neanche a dirlo, lo imitò. Dal posto in cui era nascosto, però, aveva la visuale coperta dall’albero di keyaki, dai fili elettrici e da altri edifici, quindi non riusciva a vedere in che direzione stesse guardando Tengo. Una quantità incalcolabile di nuvole si dispiegava nel cielo come un formidabile corpo d’armata.

Finalmente Tengo si alzò. Serio e concentrato, scese dallo scivolo. Sembrava un pilota che avesse appena concluso un lungo ed estenuante volo notturno. Passò sotto la luce del lampione ai vapori di mercurio e uscí dal parco. Ushikawa ebbe un attimo di esitazione, poi decise di interrompere il pedinamento. Tengo sarebbe sicuramente tornato a casa, e lui aveva un disperato bisogno di urinare. Dopo essersi assicurato che Tengo fosse ormai lontano, entrò nel parco, si nascose come meglio poteva dietro la toilette e urinò su un cespuglio. La vescica stava per scoppiargli.

Impiegò piú o meno lo stesso tempo che occorre a un treno merci per attraversare un ponte, poi tirò su la lampo dei pantaloni, chiuse gli occhi e tirò un profondo respiro di sollievo. Le lancette del suo orologio segnavano le otto e diciassette. Tengo era rimasto sullo scivolo per circa quindici minuti. Ushikawa verificò ancora una volta che Tengo fosse andato via, e si diresse verso lo scivolo. Poi, con le gambe corte e arcuate, salí gli scalini e si sedette sulla cima gelata, cercando di indirizzare lo sguardo verso il punto che aveva calamitato l’attenzione di Tengo. Era proprio curioso di sapere cosa stesse guardando con tanta intensità.

Ushikawa aveva un’ottima vista. A causa di una leggera forma di astigmatismo soffriva di una lieve sproporzione tra focalizzazione destra e sinistra, ma nella vita di tutti i giorni poteva fare a meno degli occhiali. Tuttavia, pur sforzandosi, non riuscí a vedere nemmeno una stella. In compenso notò la luna. Ai due terzi della sua grandezza, era sospesa al centro del cielo, perfettamente visibile tra due nuvole, con la superficie ricoperta di macchie livide. La tipica luna invernale. Fredda, pallida, piena di enigmi e suggestioni antichissime. Galleggiava muta, immobile, come gli occhi di un morto.

All’improvviso Ushikawa restò senza fiato. Per qualche istante dimenticò persino di respirare. Attraverso uno squarcio tra le nuvole si era accorto che, poco distante dalla solita luna, ce n’era un’altra. Era piú piccola, verde, come se fosse ricoperta di muschio, e aveva una forma contorta. Ma era senz’altro una luna. Non esistevano stelle di quelle dimensioni e non poteva essere un satellite artificiale. Era saldamente ancorata al suo posto.

Ushikawa chiuse gli occhi per qualche secondo, poi li riaprí. Doveva trattarsi di un’allucinazione. «Non è possibile», pensò. Ma per quanto chiudesse e riaprisse le palpebre senza sosta, la nuova piccola luna era sempre lí. A tratti veniva coperta dalle nuvole in movimento, ma subito dopo riappariva nella stessa posizione.

«Ecco cosa guardava Tengo, – pensò. – Kawana Tengo è venuto in questo parco per godersi lo spettacolo, oppure per verificare che il fenomeno continuasse. Sapeva già delle due lune, non c’è dubbio. Non sembrava affatto sorpreso». In cima allo scivolo Ushikawa sospirò. «Che razza di mondo è questo? – si chiese. – In che genere di mondo mi sono andato a cacciare?» Ma nessuno poteva rispondergli. Il vento trascinava le nuvole e le due lune, la grande e la piccola, brillavano fianco a fianco come un enigma.

Ushikawa era sicuro soltanto di una cosa. «Non è il mondo a cui appartenevo prima. La Terra che conosco io ha un solo satellite. Sono sicuro. Questa, invece, ne ha due».

Dopo un po’ di tempo, Ushikawa si accorse che quella visione gli procurava un vago senso di déjà-vu. «Ho già visto questa scena da qualche parte», pensò. Si concentrò e frugò nella memoria per rintracciare la provenienza di quel ricordo. Contorse il viso, digrignò i denti, setacciò con entrambe le mani le acque stagnanti della sua coscienza. Poi finalmente un baleno: La crisalide d’aria. In quel romanzo si parlava di due lune. Una luna grande e una piccola. Succedeva verso la fine del racconto: quando la mother dava alla luce la daughter, la luna raddoppiava. Fukaeri aveva inventato la storia e Tengo aveva aggiunto descrizioni dettagliate.

Istintivamente Ushikawa si guardò intorno, ma ai suoi occhi si offriva il mondo di sempre. Dall’altra parte della strada, nell’edificio a sei piani, le tende bianche di merletto alle finestre nascondevano luci rassicuranti. Non c’era nulla di insolito. Solo il numero delle lune era diverso.

Ushikawa scese dallo scivolo attento a dove metteva i piedi. Poi uscí in fretta dal parco, come per sottrarsi allo sguardo delle lune. «Sto impazzendo? – si chiese. – No, non sono pazzo. La mia mente è lucida, fredda e dritta come un chiodo d’acciaio nuovo fiammante piantato con precisione nel cuore pulsante della realtà. Non c’è niente che non vada in me. Sono in pieno possesso delle mie facoltà mentali. È il mondo che ha cominciato a dare segni di follia».

«E io devo trovare la causa di questa follia. A qualunque costo».