La domenica il vento era cessato e si prospettava una giornata calda e piacevole, l’opposto della sera precedente. Messi via per il momento i cappotti pesanti, la gente usciva a godersi la luce del sole ma Aomame, ignorando le temperature gradevoli, trascorse come al solito la giornata in casa, con le tende chiuse.

Fece i suoi esercizi di stretching con il sottofondo della Sinfonietta di Janáček a basso volume e, usando gli attrezzi, si allenò energicamente. Con il passare dei giorni, il suo programma di esercizi diventava sempre piú fitto e impegnativo, e adesso per portarlo a termine impiegava quasi due ore. Poi cucinò, pulí la casa e, seduta sul divano, continuò a leggere Alla ricerca del tempo perduto, cominciando il volume I Guermantes. Aveva deciso, per quanto possibile, di non oziare. Guardò il telegiornale della NHK, come sempre, a mezzogiorno e alle sette di sera. Non c’erano notizie importanti. O meglio, c’erano. In tutto il mondo moriva un numero incalcolabile di persone e tra queste molte facevano una fine tragica. I treni deragliavano, i traghetti affondavano, gli aerei precipitavano. Molte guerre civili continuavano a insanguinare il pianeta senza prospettive di risoluzione, assassinii, terribili massacri etnici. Siccità, inondazioni e carestie provocate dal mutamento del clima. Aomame provava una sincera compassione per ogni vittima di quelle sciagure, tuttavia erano eventi che non avevano alcuna influenza diretta su di lei e sulla sua vita.

Nel parco, dall’altro lato della strada, i bambini del quartiere giocavano urlando tutti insieme. Si sentiva anche il gracchiare stridulo dei corvi che, radunati sul tetto, sembravano impegnati in una conversazione. Nell’aria aleggiava il tipico odore che si respira in una grande città all’inizio dell’inverno.

All’improvviso Aomame si accorse che da quando viveva in quell’appartamento non aveva mai fatto sesso né si era masturbata una sola volta. Forse perché era incinta, e ciò aveva provocato cambiamenti nelle secrezioni ormonali. In ogni caso, Aomame se ne rallegrava. Se nella situazione in cui si trovava avesse avuto voglia di fare sesso, il suo desiderio non avrebbe trovato alcuno sbocco. Era contenta anche di non avere le mestruazioni. Nel suo caso non erano mai state troppo fastidiose, ma aveva la sensazione di essersi liberata comunque da un peso che aveva gravato su di lei troppo a lungo. Inoltre, era una cosa in meno a cui pensare.

In quei tre mesi i suoi capelli si erano allungati. A settembre le arrivavano a stento alle spalle, ma adesso avevano raggiunto le scapole. Da piccola sua madre glieli tagliava molto corti, a caschetto, e a partire dalle medie, quando lo sport era diventato il centro della sua vita, Aomame non li aveva piú fatti crescere. In quel momento li sentiva decisamente troppo lunghi, ma non potendo tagliarli da sola, si limitava a spuntare la frangetta con le forbici. Durante il giorno li raccoglieva in uno chignon e di sera, mentre ascoltava la musica, li scioglieva, spazzolandoli a lungo. Cento volte. Una cosa che sarebbe stata impossibile se non avesse avuto tutto quel tempo a disposizione.

Aomame non si era mai truccata davvero e adesso, confinata in casa, non ne aveva bisogno. Tuttavia cominciò a dedicare una cura particolare alla sua pelle, con lo scopo di rendere piú completo il suo programma di attività giornaliere. Massaggiava il viso con creme e lozioni, e prima di dormire si applicava una maschera di bellezza. Godendo per natura di un corpo sano, le bastavano poche cure essenziali perché la sua pelle diventasse subito piú luminosa e uniforme. Ma forse anche questo dipendeva dalla gravidanza. Aveva sentito dire che le donne incinte hanno una bella carnagione. In ogni caso quando, seduta davanti allo specchio, si vedeva con i capelli sciolti, aveva la sensazione di essere piú graziosa. Oppure era la compostezza della donna matura che cominciava a manifestarsi in lei.

Aomame non aveva mai pensato di essere bella. Nessuno le aveva mai detto che lo era, nemmeno da piccola. Anzi, sua madre la faceva sentire piuttosto brutta. «Se tu fossi un po’ piú carina…» le diceva spesso. Intendeva dire che se fosse stata piú carina, se avesse avuto un aspetto piú accattivante, sarebbero riuscite a fare piú proseliti. Perciò, fin da piccola, Aomame aveva evitato di guardarsi allo specchio, e quando c’era una ragione precisa per farlo, controllava i dettagli della propria immagine rapidamente, come per sbrigarsi della faccenda. Per lei era diventata un’abitudine.

A Ōtsuka Tamaki il viso di Aomame piaceva. «Non sei niente male, anzi hai un fascino notevole, – le ripeteva. – Dovresti essere contenta, e avere piú fiducia in te stessa». Le parole affettuose dell’amica avevano reso Aomame molto felice, soprattutto riuscirono a calmarla e a rassicurarla in una fase molto delicata della vita come l’inizio dell’adolescenza. Aomame cominciò a pensare che forse non era poi cosí brutta come si era sempre sentita ripetere dalla mamma. Nemmeno Tamaki, però, le aveva mai detto in modo esplicito che era bella.

Per la prima volta Aomame riconosceva una certa armonia nei lineamenti del suo viso. E per la prima volta sedeva a lungo davanti allo specchio a osservare la propria immagine con attenzione, ma senza atteggiamenti narcisistici. Esaminava il viso in modo oggettivo, come se fosse quello di un’altra persona, del tutto indipendente da lei. I suoi tratti erano diventati davvero piú delicati, o erano rimasti gli stessi, ed era cambiato solo il suo modo di vederli? Aomame non avrebbe saputo dirlo.

Ogni tanto, davanti allo specchio, contraeva il viso in una smorfia. L’effetto era lo stesso di sempre. I muscoli facciali si tendevano in direzioni diverse, e i lineamenti perdevano ogni disegno unitario, disgregandosi in un disordine da cui zampillavano tutte le emozioni possibili e immaginabili. Il suo viso, allora, non era né bello né brutto. Da un certo punto di vista appariva demoniaco, da un altro comico. Da un altro ancora, soltanto caotico. Appena allentava la contrazione, i muscoli si distendevano progressivamente come cerchi che si riassorbono sulla superficie dell’acqua, e il viso riacquistava l’espressione normale. Aomame, allora, scopriva una nuova immagine di sé, un po’ diversa da quella di prima.

«Però, sai, dovresti sorridere con piú naturalezza, – le diceva spesso Ōtsuka Tamaki. – Quando sorridi, i tuoi lineamenti diventano piú dolci. È un peccato che tu sorrida cosí poco». Ma Aomame non riusciva a farlo con disinvoltura di fronte agli altri. Se si costringeva, il suo piú che un sorriso sembrava un ghigno forzato che comunicava tensione e metteva a disagio. Ōtsuka Tamaki, invece, aveva un sorriso spontaneo, luminoso. Chiunque, conoscendola, provava per lei un’attrazione e una simpatia immediate. Eppure lo sconforto e la disperazione l’avevano portata al gesto estremo di togliersi la vita, lasciandosi dietro Aomame e la sua incapacità di sorridere.

Era una domenica tranquilla. Molte persone, richiamate dai raggi caldi del sole, erano andate nel piccolo parco, sull’altro lato della strada. Alcuni bambini giocavano nella buca con la sabbia, altri si facevano spingere dai genitori sull’altalena. Altri ancora salivano sullo scivolo. Gli anziani, seduti sulle panchine, non perdevano di vista un solo istante i piccoli che giocavano. Aomame uscí sul balcone, sedette sulla sedia e si mise a guardare distrattamente la scena dalla fessura nel pannello di plastica. Era un paesaggio pieno di pace. La vita scorreva fluida, senza intoppi. Nessuno era minacciato di morte, e nessuno era a caccia di assassini. Nessuno, soprattutto, nascondeva nel cassetto dell’armadio, avvolta in un paio di calze, una pistola automatica carica di proiettili da 9 mm.

«Riuscirò, prima o poi, a far parte di un mondo tranquillo e normale come quello? – si chiese Aomame. – Potrò, un giorno, prendere per mano questa piccola cosa, portarla al parco, e vederla mentre dondola sull’altalena o sale sullo scivolo? Sarò in grado di vivere una quotidianità normale, senza pensare di uccidere o di essere uccisa? Esiste, in questo 1Q84, una possibilità del genere? O può accadere solo in un altro mondo? Ma soprattutto, ed è la cosa piú importante, quel giorno ci sarà Tengo al mio fianco?»

Aomame smise di guardare il parco e rientrò in casa. Chiuse la finestra e tirò la tenda. Le grida dei bambini non si udivano piú. Un’ombra di tristezza le calò sul cuore. Era completamente isolata, confinata in quell’appartamento chiuso a chiave dall’interno. «Devo smetterla di guardare il parco durante il giorno, – pensò. – Tanto se Tengo verrà di nuovo, verrà di notte. Quello che vuole è vedere chiaramente le due lune».

Aomame fece una cena semplice. Dopo aver lavato i piatti indossò degli abiti pesanti e uscí sul balcone. Mise una coperta sulle ginocchia e sprofondò nella sedia. Era una sera senza vento. In cielo le nuvole vagavano leggere, ideali per un acquarellista che avrebbe voluto dipingerle con impalpabili tratti di pennello. La luna grande, piena per due terzi, non era coperta e gettava sulla Terra la sua luce chiara. A quell’ora, dalla posizione in cui si trovava, Aomame non riusciva a vedere l’altra luna, quella piú piccola. Un edificio la nascondeva. Ma lei sapeva che era lí. Riusciva a percepirne la presenza. Non la scorgeva solo a causa della visuale ristretta, ma presto sarebbe apparsa.

Da quando viveva nascosta in quell’appartamento, Aomame aveva imparato ad allontanare i pensieri che le si affollavano in testa. In particolare, quando usciva sul balcone e guardava il parco riusciva a fare il vuoto nella mente. I suoi occhi sorvegliavano l’area con attenzione, specialmente lo scivolo, ma lei non pensava a nulla. Forse nelle acque sommerse della sua coscienza qualcosa continuava a muoversi, ma lei ignorava cosa avvenisse a quelle profondità. A intervalli, però, i pensieri tornavano a galla, come le tartarughe marine e i delfini che al momento opportuno escono dall’acqua per respirare. Allora Aomame capiva di aver pensato a qualcosa. Subito dopo la coscienza, con i polmoni pieni di ossigeno fresco, si immergeva ancora scomparendo, e automaticamente Aomame faceva tabula rasa, tornando a essere un dispositivo di sorveglianza che, avvolto in un bozzolo, concentrava il suo sguardo sullo scivolo.

Osservava il parco, ma nello stesso tempo non vedeva nulla. Se qualcosa di nuovo fosse entrato nel suo campo visivo, la coscienza avrebbe reagito all’istante. Per il momento, era tutto normale. Non c’era vento. I rami scuri del keyaki, perfettamente immobili, sembravano sonde puntate verso il cielo. Il mondo era avvolto nella quiete. Aomame guardò l’orologio. Erano passate da poco le otto. Pensò che quella giornata sarebbe finita cosí, innocua. Era domenica sera e regnava una calma assoluta.

Fu alle otto e ventitre che la quiete nel mondo cessò.

Si accorse all’improvviso che c’era un uomo in cima allo scivolo. Era seduto con lo sguardo rivolto in alto, che puntava una regione ben precisa del cielo. Il cuore di Aomame si rattrappí, diventando piccolo come il pugno di un bambino, e restò minuscolo e contratto cosí a lungo che lei credette non avrebbe ripreso a battere mai piú. Finché, a un tratto, si espanse, riacquistò le dimensioni normali e tornò a pulsare. A velocità incredibile, questa volta, e con un battito secco, irrorando nuovo sangue in tutto il corpo. Anche la coscienza sommersa risalí di colpo in superficie: dopo una gran scrollata era pronta ad agire.

«È Tengo», pensò istintivamente.

Ma quando fu in grado di mettere a fuoco la scena, realizzò che non era lui. L’uomo, basso come un bambino, aveva una grossa testa spigolosa e indossava un berretto di lana che, per adattarsi a quel cranio fuori misura, aveva finito per sbrindellarsi. Indossava un cappotto blu, e al collo aveva una sciarpa verde. La sciarpa era troppo lunga, e il cappotto cosí stretto sulla pancia che i bottoni erano sul punto di esplodere. Aomame capí. Era il «bambino» che la sera precedente aveva visto uscire dal parco. Ma in realtà non era un bambino. Era un uomo piú o meno di mezza età. Basso, tozzo, con braccia e gambe corte. E con una testa deforme, voluminosa e grottesca.

Aomame si ricordò bruscamente che Tamaru, al telefono, le aveva parlato di un uomo dalla testa enorme. Era quel tale che si aggirava intorno alla Villa dei Salici, ad Azabu, e che aveva cercato informazioni sulla casa rifugio. L’aspetto dell’uomo seduto in cima allo scivolo corrispondeva esattamente alla descrizione che le aveva fatto Tamaru. Quell’individuo sinistro, dunque, aveva continuato con ostinazione le sue ricerche ed era arrivato a due passi da lei. «Devo prendere la pistola, – pensò. – Perché proprio stasera l’ho lasciata in camera da letto?» Poi fece un respiro profondo, cercando di normalizzare il battito impazzito del cuore e di calmare i nervi. «Manteniamo la calma. Non ho ancora bisogno della pistola».

Prima di tutto l’uomo non stava guardando il palazzo di Aomame. Era seduto in cima allo scivolo e fissava un angolo di cielo con lo stesso atteggiamento di Tengo. Inoltre, sembrava tutto preso a meditare su ciò che stava osservando. Restò a lungo in quella posizione, immobile, come se avesse dimenticato come muoversi, e non degnò di uno sguardo l’altro lato della strada. Lei era sconcertata. Come si spiegava un atteggiamento simile? «È arrivato fin qui seguendo le mie tracce. Molto probabilmente è uno della setta. Se è riuscito a ricostruire i miei spostamenti significa che nelle indagini private sa il fatto suo. Eppure eccolo lí, esposto e vulnerabile che guarda il cielo con un’aria stralunata».

Aomame si alzò senza far rumore, aprí un poco la portafinestra, entrò in camera e sedette davanti al telefono. Poi, con le dita che tremavano, cominciò a digitare il numero di Tamaru. Doveva avvertirlo, dirgli che dal suo appartamento vedeva l’uomo dalla testa enorme seduto in cima allo scivolo, nel parco dall’altra parte della strada. Al resto avrebbe pensato lui, agendo con la consueta professionalità. Ma dopo le prime quattro cifre si fermò, il ricevitore stretto nella mano, e si morse le labbra.

«È troppo presto, – pensò. – Ci sono ancora molti punti oscuri che riguardano quest’uomo. Se Tamaru, considerandolo pericoloso, entrasse in azione, quei dubbi resterebbero per sempre irrisolti. Pensandoci bene, questo tipo sta facendo esattamente quello che ha fatto Tengo l’altra volta. Stesso scivolo, stessa posizione, stessa porzione di cielo. Sembra che stia ripetendo tutte le sue azioni. Sta osservando le due lune. – Aomame ne era certa. – Se è cosí, fra lui e Tengo deve esserci un collegamento. Forse non sa che sono nascosta in questo appartamento, altrimenti non mi darebbe le spalle, completamente indifeso. – Piú ci pensava, piú questa ipotesi le pareva convincente. – Se ho ragione, seguendolo potrei trovare Tengo. Per assurdo, quest’uomo potrebbe farmi da guida». Il battito del suo cuore si fece piú rapido e duro. Aomame posò il ricevitore.

«A Tamaru lo dirò piú avanti, – si decise. – Prima c’è una cosa da fare. Certo, è pericoloso. Mettersi a pedinare chi ti ha pedinato non è semplice. In piú quel tizio sembra un professionista esperto. Ma non posso lasciarmi sfuggire un’occasione simile. Potrebbe essere la mia ultima chance. E poi, almeno per il momento, sembra completamente imbambolato».

Andò svelta nella camera da letto, aprí il cassetto dell’armadio e prese la Heckler & Koch. Tolse la sicura, spinse i proiettili nella camera con un rumore secco, quindi mise di nuovo la sicura. Infilò la pistola nel retro dei jeans e tornò sul balcone. Il Testone era ancora nel parco che guardava il cielo. La sua testa deforme non si era spostata di un millimetro. Sembrava completamente rapito dalle lune. Aomame sapeva bene cosa stava provando. Era senza dubbio una visione affascinante.

Rientrò in casa, indossò un giubbotto e mise in testa un berretto da baseball. Infilò anche un paio di occhiali non graduati dalla montatura semplice e nera, un piccolo accorgimento che avrebbe dato al suo volto un aspetto diverso. Si avvolse una sciarpa grigia intorno al collo e ficcò nelle tasche il portafogli e la chiave dell’appartamento. Scese in fretta le scale e uscí dall’edificio. Le sue sneaker aderivano sull’asfalto senza produrre alcun suono. La sensazione di avvertire sotto i piedi un terreno solido e fermo dopo tanto tempo le diede coraggio.

Mentre avanzava Aomame si assicurò che il Testone non si fosse spostato. Dopo il tramonto la temperatura si era notevolmente abbassata, ma continuava a non tirare vento. Era un freddo piacevole. Aomame, con il fiato bianco che le usciva dalla bocca, passò davanti al parco con naturalezza, attenta a smorzare il rumore dei passi. Il Testone non la degnò nemmeno di uno sguardo, i suoi occhi seguivano un’unica linea dritta che dalla cima dello scivolo si perdeva nel cielo. Dalla sua posizione Aomame non le vedeva, ma era certa che quell’uomo stesse fissando le due lune, la grande e la piccola. Erano sicuramente lassú, l’una accanto all’altra, che risplendevano nel cielo gelido e senza nubi.

Superato il parco, Aomame raggiunse l’incrocio successivo, quindi si voltò e tornò indietro di qualche passo, si acquattò nell’ombra e guardò lo scivolo. La pistola, infilata nei jeans, le premeva contro la schiena. Quella sensazione, dura e fredda come la morte, aveva un effetto calmante sui suoi nervi.

Aspettò piú o meno cinque minuti. Il Testone si alzò lentamente, si scrollò la polvere dal giaccone e guardò un’ultima volta il cielo. Poi, come se finalmente si fosse deciso, scese la scaletta dello scivolo e uscí dal parco, incamminandosi verso la stazione. Seguirlo non era difficile. La domenica sera in quel quartiere residenziale le strade erano deserte, e anche da una certa distanza Aomame non rischiava di perderlo di vista. Inoltre, l’uomo non sospettava affatto che qualcuno lo stesse pedinando. Non si girava mai indietro e camminava mantenendo un passo regolare. Aveva l’andatura di chi è perso nei propri pensieri. «Ironia della sorte, – pensò Aomame. – L’inseguitore che non sa di essere inseguito».

A un certo punto lei capí che non era la stazione di Kōenji la meta di Testone. A forza di studiare la pianta delle ventitre circoscrizioni di Tōkyō che c’era nell’appartamento, Aomame aveva memorizzato la geografia del quartiere in modo da sapersi muovere in caso di emergenza. Si rese conto, quindi, che dopo aver imboccato una strada che portava alla stazione, girando, il Testone aveva preso una direzione diversa. Un paio di volte si era fermato all’angolo della strada, guardandosi intorno con aria incerta e leggendo i cartelli con le indicazioni stradali. Non era pratico della zona.

Finalmente il Testone accelerò il passo. Forse era arrivato in un posto che gli era familiare. L’intuizione di Aomame si rivelò esatta. Infatti, superata la scuola elementare, dopo aver proseguito ancora un po’ lungo una via molto stretta, il Testone entrò in un vecchio edificio di tre piani.

Una volta che l’uomo sparí all’interno, Aomame attese cinque minuti. Non aveva nessuna voglia di trovarselo di fronte nell’androne del palazzo. L’ingresso era sormontato da un cornicione di cemento dal quale una lampada tonda illuminava il portone con una luce gialla. Da quanto poteva vedere, lo stabile non aveva targhe che ne indicassero il nome. In ogni caso, sembrava piuttosto vecchio. Aomame lesse l’indirizzo che era scritto sul palo dell’elettricità.

Trascorsi cinque minuti, Aomame si avvicinò all’edificio. Passò rapida sotto la luce gialla e aprí il portone. Il piccolo atrio era deserto, uno spazio vuoto e privo di calore. Una lampada al neon quasi finita sfrigolava a intermittenza. Si sentivano i suoni di un televisore acceso e la voce acuta di un bambino che chiedeva qualcosa alla madre.

Aomame tirò fuori dalla tasca del giaccone la chiave del suo appartamento e la fece ruotare tra le mani, lentamente, in modo che se qualcuno l’avesse vista, l’avrebbe scambiata per un’inquilina del palazzo. Poi si mise a leggere i nomi sulle cassette della posta, tra i quali doveva figurare anche quello di Testone. Non aveva molte speranze, ma valeva la pena di tentare. In fondo era un edificio piccolo, non ci viveva tanta gente. Nell’attimo in cui su una targhetta lesse «Kawana», tutti i suoni che la circondavano svanirono di colpo.

Aomame restò pietrificata. L’aria intorno a lei si fece rarefatta. Non riusciva quasi a respirare. Le sue labbra, semiaperte, erano scosse da un fitto tremito. Il tempo passava. Lei stessa, per prima, sapeva che quel comportamento era irragionevole e pericoloso. Il Testone era lí, da qualche parte, e avrebbe potuto materializzarsi nell’atrio da un momento all’altro. Tuttavia, non riusciva a staccarsi da quella cassetta della posta. La targhetta con la scritta «Kawana» le paralizzava la ragione, le congelava il corpo.

Naturalmente non aveva nessuna prova certa che quel Kawana fosse Tengo. Kawana non era un cognome molto diffuso, ma neanche raro come il suo, Aomame. Però se il Testone, come lei sospettava, era in qualche modo legato a Tengo, le probabilità che quel Kawana fosse proprio lui aumentavano. Il numero dell’appartamento era il 303, lo stesso dell’appartamento in cui si nascondeva lei. Era una coincidenza?

«Cosa devo fare?» Aomame si morse le labbra con forza. I suoi pensieri si avvitavano uno sull’altro, girando a vuoto, senza infonderle un briciolo di risolutezza. Cosa doveva fare? Di certo non poteva restare impalata in eterno davanti a quella cassetta della posta. Aomame si decise e salí la squallida scala di cemento fino al secondo piano. Il pavimento scuro mostrava qua e là sottili screpolature, segni del tempo. Le sue sneaker, calpestandole, producevano un suono sgradevole.

Aomame si ritrovò davanti all’appartamento 303. Su un’anonima porta d’acciaio, una placchetta recava il cognome «Kawana», senza nome. Quei due caratteri le sembrarono terribilmente freddi, impersonali, ma preziosi allo stesso tempo, perché contenevano la chiave di un enigma. Aomame restò ferma, le orecchie tese, i sensi in allerta. Dall’appartamento non proveniva alcun rumore. Non si vedeva nemmeno se dentro le luci erano accese. Accanto alla porta c’era un campanello.

Aomame esitò. Mordendosi le labbra, tentava di ragionare. «Devo suonare?»

E se fosse stata una trappola ben congegnata? «Chi mi dice che dietro questa porta non si nasconda il Testone? Forse mi sta aspettando con un ghigno sinistro, simile a uno gnomo malefico in una foresta buia. Si è mostrato apposta sullo scivolo, è riuscito con l’inganno a farmi uscire di casa e ora è pronto a catturarmi. Sa che cerco Tengo disperatamente e l’ha usato come esca. Quell’uomo orribile, scaltro, ha saputo sfruttare al meglio il mio punto debole. Era l’unico modo per stanarmi».

Aomame si accertò che intorno non ci fosse nessuno ed estrasse la pistola dai jeans. Dopo aver tolto la sicura, la impugnò con la mano destra e, tenendo l’indice sul grilletto, la ficcò nella tasca del giubbotto, pronta a tirarla fuori rapidamente in caso di necessità. Poi, con il pollice della sinistra suonò alla porta.

Sentí l’eco del campanello diffondersi nell’appartamento, un motivo lento, che non si accordava affatto al battito furioso del suo cuore. Stringendo la pistola, aspettò che la porta si aprisse. Ma non si apriva. Lei non aveva nemmeno l’impressione che qualcuno, dall’interno, la osservasse dallo spioncino. Attese pochi istanti, quindi suonò di nuovo, e il motivo ripartí, riecheggiando ancora nell’appartamento. Era un suono talmente forte che avrebbe potuto fermare in ascolto tutti gli abitanti del quartiere di Suginami. La mano destra di Aomame era imperlata di sudore. Ma anche questa volta non ci fu alcuna risposta.

«È meglio andarsene, – pensò. – Il Kawana dell’appartamento 303, chiunque egli sia, non è in casa. E quel losco Testone si nasconde nel palazzo. Un minuto in piú potrebbe costarmi caro». Aomame scese in fretta le scale e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata alle cassette della posta, uscí dall’edificio. Con la testa abbassata, attraversò rapidamente la luce gialla che illuminava il portone e si diresse verso la strada, voltandosi indietro per accertarsi che nessuno la seguisse.

C’erano molte cose su cui doveva riflettere, e altrettante aspettavano che lei prendesse una decisione. A tastoni inserí la sicura alla pistola poi, certa che nessuno la vedesse, la infilò di nuovo nei jeans, dietro la schiena. «Non devo crearmi troppe aspettative, – si ripeteva Aomame. – Non devo sperare piú del dovuto. Il Kawana che vive in quel palazzo potrebbe essere Tengo, è vero. Ma se fosse un’altra persona? Quando si nutrono speranze, il cuore se ne va per la sua strada. E quando le speranze vengono tradite, si cade nella disperazione, e la disperazione genera impotenza. Lo spirito comincia a incrinarsi, e si abbassa la guardia. Adesso, per me, non ci sarebbe niente di piú pericoloso».

«Non so quanto il Testone abbia scoperto, ma il vero problema è che si è avvicinato al punto che gli basterebbe allungare una mano per toccarmi. Devo rimanere concentrata, estremamente vigile. È un uomo pericoloso. Il minimo errore e per me è la fine. Devo restare lontana da quel vecchio edificio. Lui si nasconde lí dentro. Acquattato da qualche parte, trama una strategia per incastrarmi. Come un ragno succhiasangue che tesse al buio la sua tela».

Il tempo di tornare a casa e Aomame aveva già rafforzato la sua determinazione. La strada da percorrere era soltanto una.

Questa volta Aomame digitò il numero di Tamaru fino all’ultima cifra. Dopo dodici squilli riagganciò. Si tolse il berretto e il giubbotto, sistemò la pistola nel cassetto dell’armadio e bevve due bicchieri d’acqua. Mise un bollitore sul fornello, aveva voglia di un tè. Spiò il parco da una fessura della tenda e constatò che era deserto. In piedi, davanti allo specchio del lavandino, si spazzolò i capelli. Sentiva le dita di entrambe le mani rigide. Era ancora tesa. Stava versando l’acqua calda nella teiera, quando squillò il telefono. Dall’altra parte, naturalmente, c’era Tamaru.

– Poco fa ho visto il Testone, – disse Aomame.

Silenzio. – «Poco fa» significa che è andato via?

– Esatto, – disse Aomame. – Qualche istante fa era nel parco, sull’altro lato della strada. Ma adesso non c’è piú.

– «Qualche istante fa»… Cioè?

– Circa quaranta minuti.

– Perché non mi hai chiamato prima?

– Dovevo seguirlo subito, non avevo tempo.

Tamaru espirò lentamente, come se volesse svuotare a fondo i polmoni.

– L’hai seguito?

– Non volevo perderlo.

– Ti avevo detto di non uscire di casa per nessuna ragione.

Aomame scelse le parole con cura.

– Non sono riuscita a starmene seduta guardando il pericolo che si avvicinava. Poi, se anche ti avessi chiamato, saresti potuto venire subito?

Tamaru fece un piccolo rumore in fondo alla gola.

– E cosí l’hai seguito.

– Sí, ma credo che il Testone non si sia accorto di nulla.

– Un professionista sa fingere di non accorgersi, – disse Tamaru.

Aveva ragione. Forse era una trappola ben architettata. Ma Aomame non poteva ammetterlo. – Certo. Sono sicura che tu saresti capace di farlo. Ma da quello che ho visto, il Testone non raggiunge certi livelli. Sarà pure abile, ma non quanto te.

– Poteva esserci qualcuno con lui.

– No. Sono sicura che era solo.

Tamaru fece una breve pausa.

– Va bene. Quindi hai visto dove andava?

Aomame gli disse l’indirizzo dello stabile, poi passò a descrivergli l’aspetto della facciata. Il numero dell’appartamento, però, lo ignorava. Non era riuscita a localizzarlo. Tamaru prese nota e fece alcune domande. Aomame cercò di rispondere con la massima precisione possibile.

– Hai detto di averlo visto nel parco di fronte al tuo palazzo, giusto? – chiese Tamaru.

– Sí.

– E cosa faceva?

Aomame spiegò che il Testone, seduto in cima allo scivolo, aveva guardato a lungo il cielo. Naturalmente non menzionò le due lune.

– Guardava il cielo? – disse Tamaru. Attraverso la cornetta Aomame sentiva il rumore dei suoi pensieri che di colpo acquistavano velocità.

– Sí. Il cielo, la luna, le stelle… non lo so di preciso.

– Ed è rimasto sullo scivolo cosí, allo scoperto.

– Esatto.

– Non ti sembra strano? – chiese Tamaru. Il tono della sua voce era duro e secco. Faceva pensare a una pianta nel deserto in grado di sopravvivere con un solo giorno di pioggia all’anno. – Quell’uomo ha seguito le tue tracce, è arrivato a un passo da te, ottenendo un grande risultato, e cosa fa? sale su uno scivolo, solleva la testa e si mette a contemplare tutto tranquillo il cielo invernale. Senza nemmeno dare un’occhiata in giro, all’appartamento in cui ti nascondi. Mi sembra un atteggiamento privo di senso.

– Certo. È tutto molto strano, senza logica. Sono d’accordo. Ad ogni modo, non potevo lasciarlo fuggire cosí.

Tamaru sospirò.

– Capisco. Però potevi cacciarti nei guai.

Aomame non rispose.

– Almeno, dopo averlo seguito, sei riuscita a risolvere l’enigma?

– No, – rispose Aomame. – Ma c’è una cosa che mi ha colpito.

– Cosa?

– Guardando le cassette della posta, ho scoperto che al secondo piano vive una persona che si chiama Kawana.

– E allora?

– Hai presente La crisalide d’aria, il best seller dell’estate scorsa?

– Anch’io leggo i giornali. L’autrice, Fukada Eriko, è la figlia di un seguace del Sakigake. Da quando la ragazza è scomparsa, il sospetto è caduto sulla setta. Si pensa che siano stati loro a rapirla. La polizia ha svolto delle indagini. Il libro, però, non l’ho ancora letto.

– Fukada Eriko non è la figlia di un semplice seguace. Suo padre era il Leader del Sakigake. In altre parole, Fukada Eriko è la figlia dell’uomo che ho spedito dall’altra parte con le mie mani. E Kawana Tengo è il ghost writer che ha praticamente riscritto da cima a fondo La crisalide d’aria su incarico dell’editor. Il romanzo, in realtà, è opera di due persone.

Seguí un lungo silenzio. Ci sarebbe stato il tempo di attraversare una stanza lunga e stretta, prendere un dizionario, controllare il significato di una parola, e tornare indietro.

– Però non sei sicura che il Kawana che vive in quell’edificio sia Kawana Tengo.

– Per il momento no, – ammise Aomame. – Ma se fosse la stessa persona, il discorso acquisterebbe un po’ di senso.

– Sí, alcuni pezzi comincerebbero a incastrarsi, – disse Tamaru. – Ma tu come fai a sapere che Kawana Tengo è il ghost writer della Crisalide d’aria? Se una notizia del genere fosse circolata, sarebbe scoppiato uno scandalo enorme.

– L’ho sentito dal Leader. Me l’ha detto poco prima di morire.

La voce di Tamaru divenne piú fredda.

– Avresti dovuto dirmelo subito. Non ti pare?

– In quel momento non mi era sembrato un particolare importante.

Calò di nuovo il silenzio. Aomame ignorava completamente cosa stesse pensando Tamaru. Però sapeva benissimo che non sopportava le giustificazioni.

– Va bene, – tagliò corto Tamaru. – Lasciamo perdere. Ora cerchiamo di stringere. In pratica, mi stai dicendo che il Testone si è messo a sorvegliare questo Kawana Tengo per arrivare a te. Si è servito di lui come di un filo conduttore che prima o poi lo avrebbe avvicinato al tuo nascondiglio. Giusto?

– Sí, è quello che penso.

– Non saprei, – continuò Tamaru. – Perché Kawana Tengo dovrebbe essere il punto di partenza di un percorso che porta fino a te? Non c’è nessun collegamento tra voi due. No? A parte il fatto che tu hai sistemato il padre di Fukada Eriko, e che lui ha lavorato come ghost writer al romanzo della ragazza.

– Un collegamento c’è, – disse Aomame con una voce priva d’espressione.

– Vuoi dire che esiste un collegamento diretto tra voi?

– In passato, alle elementari, eravamo nella stessa classe. E credo che il bambino che sto aspettando sia suo figlio. Non sono in grado di darti altre spiegazioni. Come dire, è una questione molto personale.

Attraverso il ricevitore giungeva il ticchettio di una penna che batteva nervosamente sulla scrivania. A parte questo, silenzio assoluto.

– Una questione personale, – ripeté Tamaru con la voce di uno che aveva appena visto un animale raro su una pietra ornamentale del giardino.

– Mi dispiace davvero, – disse Aomame.

– Ho capito. È una questione molto personale. Non ti chiederò altro, – disse Tamaru. – Allora, in concreto, cosa vuoi che faccia?

– Prima di tutto vorrei sapere se il Kawana che abita in quel palazzo è Tengo. Credimi, lo verificherei di persona, ma non posso avvicinarmi piú di tanto. Sarebbe troppo pericoloso.

– Ovviamente, – disse Tamaru.

– E poi sono quasi sicura che il Testone si nasconda in quell’edificio, complottando chissà cosa. Se scopre dove vivo, forse sarà necessario intervenire.

– Quel tizio ha già intuito che esiste un legame tra te e la signora. Ha raccolto con cura gli indizi, e adesso sta cercando di completare il quadro. Non possiamo assolutamente sottovalutarlo.

– Ho un altro favore da chiederti, – disse Aomame.

– Dimmi.

– Se quel Kawana è Tengo, vorrei che non gli venisse fatto alcun male. E se malgrado tutto fosse inevitabile, preferirei prendere il suo posto.

Tamaru restò di nuovo in silenzio. Questa volta non si sentiva nulla, nemmeno la penna che batteva sulla scrivania. Era immerso nelle sue riflessioni, in un mondo sprovvisto di suoni.

– Per le prime due richieste non ci sono problemi. Penso di poterle gestire, – disse Tamaru. – Tutto sommato rientrano nella mia sfera di competenze. Ma sull’ultima non posso pronunciarmi. Sono coinvolti troppi fattori personali, ci sono troppi elementi che non capisco. Inoltre, l’esperienza mi insegna che non è facile occuparsi per bene di tre questioni in una volta sola. Che ti piaccia o no, si creano delle priorità.

– Va bene. Rispetta pure le tue priorità. Però vorrei che tu tenessi a mente questo concetto: finché sarò viva, qualsiasi cosa accada, devo incontrare Tengo. C’è qualcosa che devo comunicargli.

– Lo terrò a mente, – disse Tamaru. – Ammesso che in testa mi sia rimasto ancora un po’ di spazio.

– Grazie, – disse Aomame.

– Riferirò i contenuti di questa conversazione alla signora. È una situazione delicata, non posso agire di mia iniziativa. Per adesso è tutto. Non uscire piú, chiuditi a chiave e resta dentro casa. Se tu uscissi, comincerebbero i problemi seri. Ammesso che non ci siano già.

– In compenso, però, sono riuscita a carpire diverse informazioni su quell’uomo.

– È vero, – disse Tamaru rassegnato. – Devo riconoscere che ti sei mossa molto bene. Ma non essere imprudente. Non sappiamo ancora cosa stia pianificando il Testone. E dall’idea che mi sono fatto, avrà sicuramente un’organizzazione alle spalle. Hai ancora quella cosa che ti ho consegnato tempo fa?

– Certo.

– Bene, è meglio che tu la tenga sempre a portata di mano.

– Lo farò.

Una breve pausa, e la comunicazione si interruppe.

Aomame si immerse completamente nell’acqua calda della vasca da bagno bianca, e mentre lasciava che il calore le avvolgesse lentamente il corpo, pensò a Tengo, che forse viveva in un appartamento al secondo piano di quel vecchio edificio. Si ricordò la porta d’acciaio poco accogliente e la targhetta in cui era infilato il cartoncino con stampato il cognome «Kawana». Dietro quella porta che tipo di abitazione c’era? Che genere di vita vi si conduceva?

Immersa nell’acqua, Aomame si portò le mani ai seni e li massaggiò con cura. I capezzoli, oltre a essersi ingrossati e induriti, erano piú sensibili. «Ah, se questi palmi fossero quelli di Tengo…» pensò. Li immaginò grandi e robusti, forti e pieni di dolcezza. Se le mani di Tengo avessero avvolto i suoi seni, che piacere profondo, che senso di pace avrebbe provato… Poi notò che anche i suoi seni erano piú grossi di prima. Non si trattava di un’impressione. Erano senz’altro piú gonfi, la loro curva piú sinuosa. «Dipenderà dal fatto che sono incinta, – pensò. – Oppure la gravidanza non c’entra niente. Sono semplicemente diventati piú grandi. Fa parte della mia trasformazione».

Poi mise una mano sull’addome. Il gonfiore non era ancora molto pronunciato e lei non aveva nausee. Eppure, nelle profondità del suo organismo si annidava la piccola cosa. Lo sapeva. «E se quello che loro vogliono con tutte le forze non fosse la mia vita, ma questa piccola cosa? – pensò. – Cercandomi, non staranno mica tentando di impadronirsene? Magari come ritorsione nei miei confronti per aver ucciso il Leader». Il pensiero le provocò un brivido. Doveva incontrare Tengo a ogni costo. Era decisa piú che mai. «Dobbiamo unire le nostre forze per proteggere questa piccola cosa. Finora, nella mia vita, sono stata derubata di molte cose importanti. Questa, però, non me la porterà via nessuno».

Si mise a letto e lesse per un po’, ma il sonno tardava ad arrivare. Chiuse il libro e curvò leggermente il corpo in modo da proteggere l’addome. Con la guancia affondata nel cuscino pensò alla grossa luna d’inverno sospesa nel cielo del parco. Poi immaginò l’altra, quella piccola e verdastra che le stava accanto. Mother e daughter. Le loro luci mischiate bagnavano i rami spogli del keyaki. In quel momento, forse, Tamaru stava studiando un piano per risolvere la situazione. Il suo cervello girava a pieno regime. Aomame lo immaginò con le sopracciglia aggrottate che batteva senza tregua la penna sulla scrivania, tic-tic, tic-tic. Poi, finalmente, cullata da quel ritmo monocorde e incessante, il morbido velo del sonno la raggiunse, avvolgendola.